Corte costituzionale, sentenza 19 luglio 2024, n. 138
PRINCIPIO DI DIRITTO
Vanno dichiarate inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 74, commi 1 e 2, del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), sollevate in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
1.– Il GIP del Tribunale di Brescia dubita della legittimità costituzionale dell’art. 74 t.u. stupefacenti, nella parte in cui, al comma 1, punisce chi promuove, costituisce, dirige, organizza o finanzia un’associazione finalizzata a commettere più delitti tra quelli previsti dal precedente art. 73 con la reclusione non inferiore agli anni venti, anziché con la reclusione non inferiore agli anni sette; nonché, nella parte in cui, al comma 2, punisce chi partecipa all’associazione con la reclusione non inferiore agli anni dieci, anziché con la reclusione non inferiore agli anni cinque.
Ad avviso del giudice a quo, le norme censurate violerebbero gli artt. 3 e 27 Cost., per contrasto con i principi di proporzionalità e ragionevolezza e con la finalità rieducativa della pena, stante il profondo divario esistente tra le pene minime da esse previste e le pene massime previste dal comma 6 dello stesso art. 74 t.u. stupefacenti per la partecipazione “qualificata” e “semplice” ad una associazione finalizzata a commettere fatti «di lieve entità» ai sensi del comma 5 dell’art. 73 (rispettivamente, sette e cinque anni di reclusione): profilo per il quale verrebbero a riproporsi le medesime criticità già riscontrate dalla sentenza n. 40 del 2019 di questa Corte, con riguardo al rapporto tra le fattispecie “ordinaria” e “lieve” del delitto di cui allo stesso art. 73.
L’ampio iato sanzionatorio che separa le due ipotesi di reato farebbe, infatti, apparire le pene in questione palesemente sproporzionate rispetto ai casi nei quali l’associazione per il narcotraffico, pur non potendo essere inquadrata nell’ipotesi di minore gravità, si collochi in una “zona grigia” al confine tra le due fattispecie, o comunque sia non troppo “distante” da quella della fattispecie “lieve”.
Ciò, tanto più alla luce del fatto che l’associazione per il narcotraffico, in quanto forma speciale del delitto di associazione per delinquere qualificata unicamente dalla natura dei reati-fine, e non da specifiche connotazioni del sodalizio, si presta a ricomprendere fenomeni associativi dalle caratteristiche estremamente eterogenee e con ben diverso grado di pericolosità per i beni giuridici tutelati.
Secondo il rimettente, al vulnus denunciato dovrebbe porsi rimedio allineando i minimi edittali della fattispecie “ordinaria” ai massimi edittali della fattispecie “di lieve entità”, così da replicare, sul piano sanzionatorio, quel “continuum” che si riscontra, in punto di incremento dell’offesa all’interesse protetto, nella progressione dalla fattispecie “minor” alla “maior”.
2.– Restano estranei alla valutazione di questa Corte gli ulteriori profili di illegittimità costituzionale, diversi da quelli dell’ordinanza di rimessione, prospettati nell’opinione dall’amicus curiae (sentenza n. 180 del 2021) e legati al raffronto tra le pene in discussione e quelle previste per altre figure criminose di natura associativa o prive di tale natura.
Non può, infatti, non valere a fortiori, rispetto agli amici curiae, quanto affermato dalla costante giurisprudenza di questa Corte in ordine all’impossibilità, per le parti del giudizio incidentale, di ampliare con la prospettazione di ulteriori questioni o profili il thema decidendum delineato dall’ordinanza di rimessione (ex plurimis, sentenze n. 161 del 2023, n. 228 del 2022 e n. 202 del 2021). 3.– È opportuno che l’esame delle questioni sia preceduto da una sintetica ricostruzione del quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento.
3.1.– I dubbi di legittimità costituzionale prospettati dal GIP di Brescia trovano il loro principale referente nella sentenza n. 40 del 2019, con la quale questa Corte ha dichiarato costituzionalmente illegittima la pena edittale minima del delitto di produzione, traffico e detenzione illeciti (inde, per brevità, «traffico illecito») di droghe “pesanti”, prevista dall’art. 73, comma 1, t.u. stupefacenti.
La decisione è intervenuta in una situazione nella quale, a seguito di una complessa successione di interventi del legislatore e di questa stessa Corte, il traffico illecito di droghe “pesanti” risultava punito, nell’ipotesi “ordinaria”, con la reclusione da otto a venti anni, oltre la multa (art. 73, comma 1, t.u. stupefacenti), mentre il traffico illecito di stupefacenti di «lieve entità» – divenuto anch’esso fattispecie autonoma di reato – era punito, indipendentemente dalla tipologia di droga (e quindi anche nel caso di droghe “pesanti”), con la reclusione da uno a quattro anni, oltre la multa.
Si era venuta, con ciò, a creare una vistosa frattura tra la pena detentiva minima della fattispecie “ordinaria” (otto anni di reclusione) e la pena detentiva massima della fattispecie “lieve” (quattro anni di reclusione): frattura apparsa irragionevole e sproporzionata, posto che le condotte “ai confini” tra le due fattispecie – “i più lievi tra i fatti gravi” e “i più gravi tra i fatti lievi” –, che dunque presentano un disvalore non identico, ma comunque sia simile o “contiguo”, venivano ad essere trattate in modo profondamente diverso.
Al riguardo, questa Corte ha in effetti rilevato che, se per costante orientamento della giurisprudenza di legittimità la fattispecie di lieve entità di cui all’art. 73, comma 5, t.u. stupefacenti può essere riconosciuta solo nell’ipotesi di minima offensività della condotta, deducibile, sia dal dato qualitativo e quantitativo, sia dagli altri parametri richiamati dalla disposizione (mezzi, modalità o circostanze dell’azione), «indubitabilmente molti casi si collocano in una “zona grigia”, al confine fra le due fattispecie di reato»: il che rendeva «non giustificabile l’ulteriore permanenza di un così vasto iato sanzionatorio, evidentemente sproporzionato sol che si consideri che il minimo edittale del fatto di non lieve entità è pari al doppio del massimo edittale del fatto lieve».
L’ampiezza del divario sanzionatorio condizionava, d’altro canto, inevitabilmente la valutazione complessiva che il giudice di merito doveva compiere al fine di accertare la lieve entità del fatto, «con il rischio di dar luogo a sperequazioni punitive, in eccesso o in difetto, oltre che a irragionevoli difformità applicative in un numero rilevante di condotte».
Di qui la ritenuta violazione dei principi di eguaglianza, proporzionalità e ragionevolezza, di cui all’art. 3 Cost., nonché del principio della finalità rieducativa della pena, di cui all’art. 27 Cost., posto che, per ripetuta affermazione della giurisprudenza costituzionale, una pena non proporzionata alla gravità del fatto, e perciò avvertita dal condannato come ingiusta e inutilmente vessatoria, ne compromette lo scopo rieducativo.
Quanto al trattamento sanzionatorio da sostituire a quello illegittimo, questa Corte ha accolto le questioni nei termini allora prospettati dal giudice rimettente, ossia nel senso della dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 73, comma 1, t.u. stupefacenti nella parte in cui prevedeva il minimo edittale di otto anni di reclusione, anziché di sei anni. Si è ritenuto che tale grandezza fosse ricavabile da plurimi “punti di riferimento” rinvenibili nel sistema legislativo, atti a fornire una soluzione, pur non costituzionalmente vincolata, per porre rimedio al vulnus e ricondurre a coerenza le scelte già delineate. Il che, secondo la più recente giurisprudenza costituzionale, era sufficiente a consentire l’intervento della Corte: intervento, peraltro, nella specie non ulteriormente differibile, essendo rimasto inascoltato il pressante invito, precedentemente rivolto al legislatore con la sentenza n. 179 del 2017, a porre rimedio alla situazione.
Il rimettente aveva ricavato, in specie, l’indicazione della pena minima di sei anni per i fatti non lievi anzitutto dalla previsione introdotta con l’art. 4-bis del decreto-legge 30 dicembre 2005, n. 272 (Misure urgenti per garantire la sicurezza ed i finanziamenti per le prossime Olimpiadi invernali, nonché la funzionalità dell’Amministrazione dell’interno. Disposizioni per favorire il recupero dei tossicodipendenti recidivi e modifiche al testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309), convertito, con modificazioni, nella legge 21 febbraio 2006, n. 49: disposizione che, se pure dichiarata costituzionalmente illegittima per vizi procedurali con la sentenza n. 32 del 2014, «ancora conserva[va] viva traccia applicativa nell’ordinamento in considerazione degli effetti non retroattivi» di tale pronuncia.
Sei anni era, inoltre, la pena massima prevista dal vigente comma 4 dell’art. 73 t.u. stupefacenti per i fatti di non lieve entità aventi ad oggetto droghe “leggere”.
E sempre in sei anni il legislatore aveva individuato la pena massima per i fatti di lieve entità concernenti le droghe “pesanti” nel testo originario dell’art. 73 t.u. stupefacenti, misura mantenuta come limite massimo della pena per i fatti lievi anche dal d.l. n. 272 del 2005, come convertito, che pure aveva eliminato dal comma 5 dell’art. 73 la distinzione tra droghe “pesanti” e “leggere”.
In sostanza, quindi – ha concluso questa Corte –, «la pena di sei anni è stata ripetutamente indicata dal legislatore come misura adeguata ai fatti “di confine”, che nell’articolato e complesso sistema punitivo dei reati connessi al traffico di stupefacenti si pongono al margine inferiore delle categorie di reati più gravi o a quello superiore della categoria dei reati meno gravi».
Ciò, fermo restando che, non trattandosi di soluzione costituzionalmente obbligata, la misura sanzionatoria indicata rimaneva soggetta a diverso apprezzamento da parte del legislatore, nel rispetto del principio di proporzionalità.
3.2.– A parere del giudice a quo, i profili di illegittimità costituzionale riscontrati dalla sentenza n. 40 del 2019 ricorrerebbero, e in termini di ancor maggiore evidenza, anche in relazione alla figura criminosa dell’associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope, di cui all’art. 74 t.u. stupefacenti.
Vale, al riguardo, ricordare che l’introduzione nel nostro ordinamento di una figura specifica di associazione per delinquere con finalità di narcotraffico si deve all’art. 75 della legge 22 dicembre 1975, n. 685 (Disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope. Prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), collocandosi nell’alveo dell’indirizzo di marcato irrigidimento delle risposte repressive che percorre l’evoluzione della normativa di settore.
L’obiettivo primario dell’intervento è, infatti, agevolmente individuabile nell’inasprimento radicale delle sanzioni rispetto ai livelli dell’associazione per delinquere “comune”, delineata dall’art. 416 cod. pen.
Il legislatore è stato a ciò mosso dalla considerazione che lo svolgimento di attività in forma associata è “consustanziale” al mercato della droga.
I traffici illeciti di sostanze stupefacenti, per la dimensione economica assunta dal fenomeno, per l’esigenza di importare in Italia ingenti partite di droga grezza o lavorata e per la successiva attività di eventuale raffinazione e grande distribuzione, richiedono quasi “per definizione” l’intervento di organizzazioni criminali dotate di mezzi e risorse umane sovente cospicui.
Anche la capillare attività di commercio degli stupefacenti verso i consumatori finali richiede di solito, per “ottimizzare” il servizio, la predisposizione di strutture organizzate, sia pure in forma meno complessa rispetto a quelle dei narcotrafficanti internazionali in precedenza richiamate.
Il delitto di associazione finalizzata al narcotraffico assume, dunque, per opinione diffusa, natura plurioffensiva, mirando a salvaguardare, da un lato, coerentemente con i delitti-scopo, la salute pubblica, posta in pericolo dal consumo di droga, tanto più quando i relativi traffici siano svolti da gruppi organizzati; dall’altro, l’ordine pubblico, al quale, in via generale, attenta l’esistenza stessa di organizzazioni dedite alla commissione di reati.
Dopo quindici anni di applicazione della normativa introdotta dalla legge n. 685 del 1975, maturava, peraltro, nel Parlamento la volontà di operare un ulteriore inasprimento delle risposte punitive.
L’intento trovava espressione nella legge 26 giugno 1990, n. 162 (Aggiornamento, modifiche ed integrazioni della legge 22 dicembre 1975, n. 685, recante disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), il cui art. 14 inseriva nella legge n. 685 del 1975 un nuovo art. 71-bis, dedicato alla figura dell’associazione per il narcotraffico (con contestuale abrogazione del previgente art. 75): disposizione dopo pochi mesi trasfusa nell’art. 74 t.u. stupefacenti, oggi censurato.
Nel solco della tradizione propria dei reati associativi e del precedente specifico, la disposizione distingue due forme di partecipazione al sodalizio criminoso, definibili, con una certa approssimazione, come quelle delle figure soggettive “di vertice” o “apicali”, titolari di poteri decisionali a vario livello (destinatarie delle sanzioni più rigorose), e dei partecipanti “semplici”, il cui ruolo è prevalentemente esecutivo.
Il comma 1 dell’art. 74 t.u. stupefacenti stabilisce, in specie, che, quando tre o più persone si associano allo scopo di commettere più delitti tra quelli previsti dal precedente art. 73 – nonché, a seguito della modifica successivamente operata dal decreto legislativo 24 marzo 2011, n. 50, recante «Attuazione dei Regolamenti (CE) numeri 273/2004, 111/2005 e 1277/2005, come modificato dal Regolamento (CE) n. 297/2009, in tema di precursori di droghe, a norma dell’articolo 45 della legge 4 giugno 2010, n. 96», più delitti tra quelli previsti dall’art. 70, commi 4, 6 e 10, dello stesso testo unico (concernenti i precursori di droghe, con talune esclusioni), – chi promuove, costituisce, dirige, organizza o finanzia l’associazione è punito, «per ciò solo» (a prescindere, cioè, dalla realizzazione dei reati-scopo), con la reclusione non inferiore a venti anni.
Il comma 2 dell’art. 74 t.u. stupefacenti riserva, poi, a chi partecipa all’associazione (senza ricoprire i ruoli “apicali” sopra indicati) la pena della reclusione non inferiore a dieci anni.
Non essendo indicato in entrambi i casi il massimo edittale, esso coincide – sia per i soggetti “apicali”, sia per i partecipanti “semplici” – con il limite massimo generale della pena della reclusione, pari a ventiquattro anni (art. 23 cod. pen.).
Per temperare il rigore di tale quadro repressivo – che sarebbe risultato palesemente inadeguato a fronte della estrema variabilità delle organizzazioni operanti nei traffici illeciti di stupefacenti – il legislatore del 1990 ha introdotto una figura associativa “minore”, avente come tratto distintivo la “levità” del suo programma criminoso, la quale si pone come pendant della fattispecie tipizzata dall’art. 73, comma 5, t.u. stupefacenti in riferimento ai reati-fine.
Il comma 6 dell’art. 74 stabilisce, in specie, che «[s]e l’associazione è costituita per commettere i fatti descritti dal comma 5 dell’articolo 73» – ossia fatti «di lieve entità» – «si applicano il primo e il secondo comma dell’articolo 416 del codice penale», e dunque le pene, di gran lunga più miti, stabilite per l’associazione a delinquere “comune”.
I soggetti “apicali” sono quindi puniti con la reclusione da tre a sette anni; i partecipanti “semplici”, con la reclusione da uno a cinque anni.
Come il rimettente ricorda, la giurisprudenza di legittimità è consolidata nel senso che quella così delineata sia anch’essa una fattispecie autonoma di reato, e non già una circostanza attenuante dei delitti di cui ai commi 1 e 2: ciò desumendosi dalla dizione della disposizione, chiaramente indicativa della volontà del legislatore di riservare all’ipotesi criminosa in questione un regime diverso, in ragione del minore allarme sociale suscitato dai fatti e della minore pericolosità sociale dei loro autori (Cassazione, sentenza n. 34475 del 2011).
Quanto al perimetro applicativo di tale fattispecie, secondo un orientamento giurisprudenziale parimenti consolidato, per la sua configurabilità non è sufficiente considerare la natura dei singoli episodi di cessione accertati in concreto, ma occorre valutare il momento genetico dell’associazione, nel senso che essa deve essere stata costituita al solo scopo di commettere cessioni di stupefacente di lieve entità, nonché le potenzialità dell’organizzazione con riferimento ai quantitativi di sostanze che il gruppo è in grado di procurarsi (tra le altre, Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenze 16 febbraio-29 marzo 2022, n. 11526 e 19 gennaio-24 marzo 2016, n. 12537).
L’associazione potrebbe essere finalizzata alla commissione di fatti di cessione di droga che, considerati singolarmente, presentano le caratteristiche di cui all’art. 73, comma 5, t.u. stupefacenti, e tuttavia la complessiva attività di spaccio, in concreto esercitata, potrebbe esorbitare dalla previsione del fatto di lieve entità, avuto riguardo alla molteplicità degli episodi, alla loro reiterazione in un ampio arco di tempo e alla predisposizione di un’idonea e strutturata organizzazione (tra le altre, Corte di cassazione, sezione quarta penale, sentenza 25 novembre 2021-12 gennaio 2022, n. 476 e sezione terza penale, sentenza 6 febbraio-8 ottobre 2018, n. 44837).
4.– Sulla scorta di tale excursus, è quindi possibile passare all’esame delle due eccezioni di inammissibilità delle questioni formulate dall’Avvocatura dello Stato, le quali si rivelano entrambe non fondate.
4.1.– Quanto alla prima, attinente all’insufficiente descrizione della fattispecie concreta e al difetto di motivazione sulla rilevanza, vale osservare che il giudice a quo ha riferito in modo adeguato sui fatti contestati ai quattro imputati (partecipazione a un’associazione «finalizzata a commettere una serie indeterminata di delitti connessi al commercio di stupefacenti, quali l’acquisto, il trasporto, la detenzione, il confezionamento, la vendita al dettaglio o all’ingrosso di cocaina, predisponendo i mezzi necessari per l’esecuzione del programma delittuoso ed operando secondo articolata e specifica divisione dei ruoli») e sulle circostanze che, sempre in base alle imputazioni, valgono a definire i ruoli svolti da ciascuno (apicali per i primi tre, di semplice partecipe per il quarto).
Contrariamente a quanto sostiene l’Avvocatura, non si può dire, dunque, che il rimettente abbia omesso di indicare le circostanze fattuali che, «quantomeno in astratto», consentono di ritenere configurabile un’associazione per il narcotraffico.
Il giudice a quo ha posto, inoltre, in evidenza la circostanza che agli imputati è stata applicata la misura della custodia cautelare in carcere, sul presupposto della sussistenza della gravità indiziaria in ordine alla fattispecie associativa loro ascritta e che la misura è stata confermata dal Tribunale del riesame, il quale ha condiviso, in particolare, la qualificazione della fattispecie stessa come associazione “ordinaria”, e non già “di lieve entità”.
E, se pure è chiaro che – come nota l’Avvocatura – le decisioni assunte in sede cautelare non vincolano il giudice del merito, il richiamo appare però rappresentativo della seria consistenza dell’ipotesi di accusa.
Deve escludersi, poi, che, in presenza di una fattispecie concreta qualificabile come associazione per il narcotraffico “ordinaria”, il rimettente fosse tenuto ad indicare, onde dimostrare la rilevanza delle questioni – come invece suppone l’Avvocatura –, le ragioni che varrebbero a collocare la fattispecie stessa in una zona “contigua” rispetto a quella dell’associazione “di lieve entità”.
L’accoglimento delle questioni sarebbe in ogni caso rilevante, perché, un conto è determinare la pena adeguata nell’ambito di una forbice edittale, quanto ai vertici del sodalizio, da venti a ventiquattro anni di reclusione, un altro conto è individuarla nell’ambito di una forbice da sette a ventiquattro anni (altrettanto dicasi, mutatis mutandis, per i partecipanti “semplici”).
L’esistenza di una “zona di confine” tra le due ipotesi criminose è un argomento che viene in rilievo ai fini della motivazione sulla non manifesta infondatezza delle questioni: la valutazione del grado di disvalore del caso di specie resta, per converso, un posterius rispetto all’invocata rimodulazione della cornice edittale.
Neppure, infine, può costituire ragione di inammissibilità il fatto che il rimettente non abbia fornito alcuna motivazione in ordine all’insussistenza dei presupposti per il riconoscimento, in favore degli imputati, delle circostanze attenuanti generiche di cui all’art. 62-bis cod. pen., o di quella della collaborazione, suscettibile di determinare una consistente riduzione della pena (dalla metà a due terzi) ai sensi dell’art. 74, comma 7, t.u. stupefacenti.
Questa Corte ha, infatti, già in più occasioni chiarito che l’applicazione delle attenuanti, generiche o di altra natura, non è in grado di sanare il vulnus costituzionale insito nella comminatoria di pene manifestamente eccessive nel minimo (sentenze n. 46 del 2024, n. 120 del 2023 e n. 63 del 2022), quali sarebbero, secondo il rimettente, quelle oggetto dell’odierno scrutinio.
4.2.– Parimente non fondata è l’altra eccezione di inammissibilità dell’Avvocatura dello Stato, formulata nella memoria, con la quale si denuncia la «contraddittorietà del petitum»: contraddittorietà insita, in assunto, nel fatto che, mentre i dubbi di legittimità costituzionale del giudice a quo risultano riferiti alle ipotesi in cui la pericolosità della condotta appaia “contigua”, o non troppo “distante”, rispetto a quella della partecipazione “di lieve entità”, il petitum del rimettente non è limitato a tali casi “di confine”, ma consiste in una richiesta di ridefinizione tout court dei minimi edittali, che coinvolgerebbe anche i casi di più elevata intensità criminale dell’associazione, rispetto ai quali nemmeno il giudice a quo dubita della conformità a Costituzione delle pene previste.
In senso contrario, va osservato anzitutto che, alla luce della giurisprudenza di questa Corte – escluso che il petitum del rimettente vincoli la Corte stessa (tra le molte, sentenze n. 46 e n. 12 del 2024, n. 221 del 2023) –, può parlarsi di contraddittorietà del petitum, che determina l’inammissibilità della questione, solo quando le modalità argomentative dell’ordinanza di rimessione non consentano di individuare con chiarezza il contenuto e il “verso” delle censure, ipotizzando interventi di segno diverso e contrapposto (ex plurimis, sentenze n. 221 del 2023, n. 205 del 2021, n. 153 del 2020 e n. 175 del 2018).
Nella specie, per contro, il “verso” delle censure è chiarissimo, consistendo nella rimodulazione verso il basso di minimi edittali ritenuti sproporzionati per eccesso.
Di là da ciò, è però dirimente il rilievo che il riferimento del rimettente ai “casi di confine” riprende le cadenze argomentative della sentenza n. 40 del 2019, intese a dimostrare l’irragionevolezza e la sproporzione dello iato sanzionatorio tra fattispecie “ordinaria” e fattispecie “di lieve entità”: cadenze che non hanno portato, peraltro, questa Corte a circoscrivere la declaratoria di illegittimità costituzionale del minimo edittale del reato di cui all’art. 73, comma 1, t.u. stupefacenti ai soli “casi di confine” (che non si saprebbe nemmeno come definire concretamente).
È ovvio, infatti, che la ridefinizione verso il basso dei soli minimi edittali lascia inalterata la possibilità per il giudice di applicare ai fatti di maggiore gravità le pene più severe, corrispondenti alla vecchia cornice sanzionatoria.
5.– Le questioni sono, tuttavia, inammissibili per una diversa ragione.
Non può disconoscersi che, in rapporto alla fattispecie criminosa dell’associazione finalizzata al narcotraffico, si registri una fenomenologia, in termini di “frattura sanzionatoria” tra ipotesi “ordinaria” e ipotesi “lieve” del reato, analoga a quella che questa Corte ha censurato con la sentenza n. 40 del 2019 relativamente ai delitti di cui all’art. 73 t.u. stupefacenti.
Lo iato tra le pene minime previste dai commi 1 e 2 dell’art. 74 t.u. stupefacenti e quelle massime stabilite dal successivo comma 6 è persino più ampio di quello che ha dato luogo alla citata pronuncia, sia in termini assoluti (il differenziale è, infatti, di tredici anni per i soggetti “apicali” e di cinque per i partecipanti “semplici”), sia in termini proporzionali, almeno quanto ai soggetti “apicali” (per i quali il minimo edittale della fattispecie “ordinaria” è pari quasi al triplo del massimo della fattispecie “lieve”), mentre con riguardo ai partecipanti “semplici” il rapporto tra le due grandezze è identico a quello ritenuto allora non costituzionalmente tollerabile (l’una è il doppio dell’altra).
Al vulnus denunciato non è, tuttavia, possibile porre rimedio nel modo indicato dal rimettente. Alla luce di una giurisprudenza di questa Corte, ormai copiosa e costante, una volta accertato un vulnus a un principio o a un diritto riconosciuti dalla Costituzione, non può essere di ostacolo all’esame nel merito della questione l’assenza di un’unica soluzione a “rime obbligate” per ricondurre l’ordinamento al rispetto della Costituzione, ancorché si versi in materie riservate alla discrezionalità del legislatore – qual è, tipicamente, quella della determinazione della risposta sanzionatoria a ciascun illecito penale –, risultando a tal fine sufficiente la presenza nell’ordinamento di una o più soluzioni “costituzionalmente adeguate”, tratte da discipline già esistenti, che si inseriscano nel tessuto normativo coerentemente con la logica perseguita dal legislatore: soluzioni che consentono a questa Corte di porre rimedio nell’immediato al vulnus riscontrato, senza creare insostenibili vuoti di tutela degli interessi tutelati dalla norma incriminatrice incisa, ferma restando la possibilità per il legislatore di individuare, nell’esercizio della propria discrezionalità, una diversa soluzione nel rispetto dei principi costituzionali (ex plurimis, sentenze n. 46 del 2024, n. 95 e n. 28 del 2022, n. 233 e n. 222 del 2018).
Nel caso in esame, tale soluzione non può, tuttavia, consistere nell’auspicato allineamento dei minimi edittali della fattispecie “maior” ai massimi della “minor”.
Una soluzione di tal fatta venne scartata da questa Corte già con riferimento al delitto di cui all’art. 73, comma 1, t.u. stupefacenti.
Si rilevò, infatti, come alla continuità nella progressione dell’offesa non debba necessariamente corrispondere una continuità della risposta sanzionatoria, ben potendo la tenuità o levità del fatto «essere […] prese in considerazione dal legislatore a diverso titolo e con effetti che possono determinare “spazi di discrezionalità discontinua” nel trattamento sanzionatorio».
Una simile discontinuità può corrispondere «a una ragionevole esigenza di politica criminale volta a esprimere, attraverso un più mite trattamento sanzionatorio, una maggiore tolleranza verso i comportamenti meno lesivi e, viceversa, manifestare una più ferma severità, con sanzioni autonome più rigorose, nei confronti di condotte particolarmente lesive» (sentenza n. 179 del 2017).
In coerenza con tale rilievo, la ridefinizione verso il basso del minimo edittale del delitto di cui all’art. 73, comma 1, t.u. stupefacenti, successivamente operata dalla sentenza n. 40 del 2019, non seguì, dunque, il criterio della saldatura con il massimo di cui al comma 5, ma – come ricordato al punto 3.1. che precede – quello del collegamento a “punti di riferimento” reperibili aliunde, indicativi di una soluzione che lasciava persistere, comunque sia, uno iato sanzionatorio – sia pure di minore entità – tra le due fattispecie.
Sarebbe illogico e contraddittorio che il criterio allora scartato venisse impiegato oggi con riguardo alla fattispecie associativa di cui all’art. 74 t.u. stupefacenti: fattispecie in rapporto alla quale esso produrrebbe effetti concreti ancor più radicali, provocando un rilevantissimo abbattimento della risposta punitiva minima a fatti che, nella valutazione legislativa, presentano un disvalore particolarmente marcato, in ragione del connubio, che con essi si realizza, tra associazionismo criminale e mercato della droga; in maniera tale che una simile soluzione non si inserirebbe nel tessuto normativo coerentemente con la logica perseguita dal legislatore.
Dal sistema legislativo non appaiono, peraltro, neppure ricavabili, allo stato, “grandezze predate” diverse da quelle indicate dal giudice a quo, alle quali possa mettersi eventualmente capo al fine di riequilibrare l’assetto sanzionatorio censurato.
La disciplina penale degli stupefacenti non lascia emergere, infatti, con riguardo alla figura criminosa in questione, norme omologhe a quelle utilizzate dalla sentenza n. 40 del 2019 per l’intervento sulla cornice edittale del delitto di cui all’art. 73, comma 1, t.u. stupefacenti.
Neppure, poi, sarebbe possibile fare riferimento – come lo stesso rimettente riconosce – ai minimi edittali (peraltro, tutti diversi tra loro) previsti per altre figure “specializzate” di reato associativo, quali l’associazione di tipo mafioso (art. 416-bis cod. pen.), l’associazione con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico (art. 270-bis cod. pen.) e l’associazione finalizzata alla tratta o ad altri delitti contro la libertà individuale (art. 416, sesto comma, cod. pen.).
A prescindere dalla scarsa coerenza logica di una tale soluzione con le ragioni che stanno alla base del vulnus costituzionale denunciato, non legate al raffronto con le figure criminose in parola, queste ultime non appaiono in grado di costituire utili punti di riferimento, non essendo in relazione ad esse prefigurata una distinzione, sul piano sanzionatorio, tra fattispecie “ordinaria” e fattispecie “di lieve entità”.
Dirimente, in ogni caso, è la considerazione che in questo modo non si risolverebbe il problema, stante l’entità delle pene comminate per i reati in questione.
Per i partecipanti “non qualificati” all’associazione mafiosa la pena minima è, infatti, di dieci anni: dunque, uguale a quella attualmente prevista per la partecipazione “semplice” all’associazione per il narcotraffico, sicché nulla cambierebbe.
Le pene minime per l’associazione terroristica risultano, a loro volta, esattamente identiche ai massimi edittali dell’associazione finalizzata al narcotraffico “di lieve entità”: sicché il riferimento ad esse equivarrebbe a riproporre il metodo d’intervento caldeggiato dal giudice a quo. L’associazione finalizzata alla tratta, infine, ha minimi ancor più bassi di quelli risultanti dalla soluzione proposta da quest’ultimo.
6.– Consegue a ciò l’inammissibilità delle questioni.
Questa Corte non può fare a meno, peraltro, di auspicare un sollecito intervento del legislatore che valga a rimuovere l’anomalia sanzionatoria riscontrabile in subiecta materia.
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