Corte di Cassazione, Sez. Unite Penali, sentenza 16 aprile 2020 n. 12348
GUIDA ALLA LETTURA
Le SSUU tornano sul concetto di “coltivazione” (e di produzione) di sostanza stupefacente inquadrando la pertinente fattispecie penale nel prisma “tipico” del reato di pericolo astratto a tutela del bene “salute”, costituzionalmente presidiato (art.32 Cost.).
E, se è del tutto conforme alla Costituzione varare – da parte del Legislatore – fattispecie penalmente rilevanti, per l’appunto, di “pericolo astratto”, come tali connotate del pari da “offensività in astratto” (quand’anche nel limite della ragionevolezza), spetta poi al giudice di merito penale, nel quadro dell’offensività in concreto, verificare se la singola fattispecie concreta sottoposta al pertinente scandaglio sia o meno “punibile” perché “concretamente offensiva”.
(gb)
PRINCIPIO DI DIRITTO
Il reato di coltivazione di stupefacenti è configurabile indipendentemente dalla quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, essendo sufficienti la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre sostanza stupefacente; devono però ritenersi escluse, in quanto non riconducibili all’ambito di applicazione della norma penale, le attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica, che, per le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell’ambito del mercato degli stupefacenti, appaiono destinate in via esclusiva all’uso personale del coltivatore.
- La questione di diritto per la quale il ricorso è stato rimesso alle Sezioni unite, è la seguente: “Se, ai fini della configurabilità del reato di coltivazione di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, è sufficiente che la pianta, conforme al tipo botanico previsto, sia idonea, per grado di maturazione, a produrre sostanza per il consumo non rilevando la quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, ovvero se è necessario verificare anche che l’attività siaconcretamente idonea a ledere la salute pubblicaed a favorire la circolazione della droga alimentandone il mercato“.
- Si tratta di una questione che coinvolge l’estensione e l’ambito di applicazione del principio dioffensività, in relazione alla fattispecie penale dell’art. 73 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, e che richiede, perciò, un’analisi del dibattito giurisprudenziale e dottrinale, a partire dalla giurisprudenza costituzionale, che svolge, sul punto, una essenziale funzione di orientamento interpretativo.
2.1. Deve premettersi che la Corte costituzionale, pur riconoscendo la valenza del principio di offensività in astratto, quale canone che dovrebbe orientare il legislatore nella selezione delle fattispecie incriminatrici, ha sempre ritenuto che l’individuazione delle condotte punibili, come pure la scelta e la quantificazione delle relative sanzioni, rientrino nella discrezionalità legislativa, ed ha adottato una linea di self-restraint, per cui la mancanza di offensività è ritenuta censurabile solo nella misura in cui le scelte normative confliggano in modo manifesto con il canone della ragionevolezza; in tale quadro, spetta al giudice comune la valutazione sulla sussistenza dell’offensività in concreto.
In particolare, con la sentenza n. 62 del 1986, nel dichiarare non fondata una questione relativa alla normativa sulle armi ed esplosivi (art. 2 della legge 2 ottobre 1967, n. 895), la Corte afferma che «la configurazione delle fattispecie criminose e la valutazione della congruenza fra reati e conseguenze penali appartengono alla politica legislativa e, pertanto, all’incensurabile discrezionalità del legislatore ordinario, con l’unico limite della manifesta irragionevolezza». Specifica, inoltre, che il principio di offensività deve «reggere ogni interpretazione di norme penali», spettando al giudice, «dopo aver ricavato dal sistema tutto e dalla norma particolare interpretata, il bene od i beni tutelati attraverso l’incriminazione d’una determinata fattispecie tipica, determinare, in concreto, ciò […] che, non raggiungendo la soglia dell’offensività dei beni in discussione, è fuori del penalmente rilevante».
Con la decisione n. 354 del 2002, si dichiara costituzionalmente illegittima la contravvenzione di cui all’art. 688, secondo comma, cod. pen., a norma del quale – dopo la depenalizzazione della fattispecie di cui al primo comma ad opera dell’art. 54 del d.lgs. 30 dicembre 1999, n. 507 – era punito «chiunque, in un luogo pubblico o aperto al pubblico, è colto in stato di manifesta ubriachezza, se il fatto è commesso da chi ha già riportato una condanna per delitto non colposo contro la vita o l’incolumità individuale».
Anche in questo caso, la Corte argomenta la sua decisione utilizzando il paradigma della ragionevolezza, ritenendo incompatibile con il principio di offensività una fattispecie in cui il carico di lesività risultava correlato a condizioni e qualità individuali e, in particolare, al vissuto giudiziario dell’autore.
Analoghi principi sono affermati, sempre in relazione alla categoria del diritto penale del “tipo d’autore“, dalla sentenza n. 225 del 2008, relativa all’art. 707 cod. pen., e dalla sentenza n. 249 del 2010, con cui si è dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’aggravante della clandestinità ex art. 61, n. li-bis), cod. pen., introdotta dalla legge 24 luglio 2008, n. 125.
Al principio dell’offensività in concreto risulta ispirata anche la sentenza n. 139 del 2014, con cui la Corte esclude l’incostituzionalità della mancanza di una soglia minima di punibilità per il reato di omesso versamento di contributi previdenziali (secondo la formulazione all’epoca vigente dell’art. 2, comma 1 -bis, del decreto-legge 12 settembre 1983, n. 463, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 11 novembre 1983, n. 638), con riferimento ad un caso nel quale, pur essendo integrate la materialità oggettiva e la tipicità del fatto, appariva al giudice remittente l’eccessività della sanzione penale in rapporto ai pochi euro di contribuzione omessa.
Anche in tale decisione, la Corte ribadisce come il problema non trovi soluzione nel sindacato della scelta normativa, bensì nella valutazione dell’offensività in concreto che spetta comunque al giudice di merito operare.
Ma è la più recente sentenza n. 109 del 2016, che richiamando la precedente giurisprudenza della stessa Corte (sentenze n. 225 del 2008, n. 265 del 2005, n. 519 e n. 263 del 2000), ricorda come il principio di offensività operi su due piani distinti. Da un lato, come precetto rivolto al legislatore, il quale è tenuto a limitare la repressione penale a fatti che, nella loro configurazione astratta, presentino un contenuto offensivo di beni o interessi ritenuti meritevoli di protezione (cosiddetta offensività “in astratto“).
Dall’altro, come criterio interpretativo-applicativo per il giudice comune, il quale, nella verifica della riconducibilità della singola fattispecie concreta al paradigma punitivo astratto, dovrà evitare che ricadano in quest’ultimo comportamenti privi di qualsiasi attitudine lesiva (cosiddetta offensività “in concreto“).
Quanto al primo versante, il principio di offensività “in astratto” non implica che l’unico modulo di intervento costituzionalmente legittimo sia quello del reato di danno, perché rientra nella discrezionalità del legislatore l’opzione per forme di tutela anticipata, le quali colpiscano l’aggressione ai valori protetti nello stadio della semplice esposizione a pericolo, nonché, correlativamente, l’individuazione della soglia di pericolosità alla quale riconnettere la risposta punitiva (sentenza n. 225 del 2008): prospettiva nella quale non è precluso, in linea di principio, il ricorso al modello del reato di pericolo presunto (sentenze n. 133 del 1992, n. 333 del 1991 e n. 62 del 1986), ammesso a condizione «che la valutazione legislativa di pericolosità del fatto incriminato non risulti irrazionale e arbitraria, ma risponda all’id quod plerumque accidit» (sentenza n. 225 del 2008; analogamente, sentenza n. 333 del 1991).
2.2. Il principio dell’offensività in concreto trova una sua specifica declinazione nella materia degli stupefacenti, a partire dalla sentenza n. 443 del 1994, con cui la Corte costituzionale dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli artt. 28, 72, 73 e 75 del d.P.R. n. 309 del 1990, come modificati dal d.P.R. n. 171 del 1993 (che aveva recepito l’esito di precedente referendum abrogativo, sopprimendo il riferimento al concetto di “dose media giornaliera” quale parametro fisso e inderogabile, sintomatico della destinazione delle sostanze stupefacenti e psicotrope all’uso personale), sollevata per la prospettata violazione dei principi di parità di trattamento e di ragionevolezza, nella parte in cui le disposizioni richiamate non escludono l’illiceità penale delle condotte di coltivazione o fabbricazione di sostanze stupefacenti o psicotrope univocamente destinate all’uso personale proprio.
Il giudice delle leggi stigmatizza l’omessa verifica della possibilità di un’esegesi adeguatrice delle norme impugnate, da parte del giudice rimettente, il quale si sarebbe dovuto porre il problema se, proprio alla luce del riferito ius superveniens, la parziale depenalizzazione della condotta di chi “comunque detiene” fosse estensibile alle condotte di chi coltiva e fabbrica al fine di destinare il prodotto alle esigenze di consumo personali, così da potersi ritenere sottratta, unitamente a quelle di importazione, acquisto o detenzione per il medesimo fine, alla sfera dell’illiceità penale.
Non avendo la giurisprudenza uniformemente aderito a questa linea interpretativa, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 75 del d.P.R. n. 309 del 1990, è stata in seguito riproposta in relazione ai parametri di cui agli artt.3, 13, 25 e 27 Cost. Con la sentenza n. 360 del 1995, la Corte costituzionale ritiene l’infondatezza della questione, alla luce del diritto vivente, evidenziando l’insussistenza della denunciata disparità di trattamento, in ragione della non assimilabilità della condotta delittuosa di coltivazione, prevista dall’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990, con quelle allegate dal giudice remittente come tertia comparationis.
Si osserva, in proposito, che la detenzione, l’acquisto e l’importazione di sostanze stupefacenti per uso personale rappresentano condotte collegate immediatamente e direttamente all’uso stesso, e ciò rende non irragionevole un atteggiamento meno rigoroso del legislatore nei confronti di chi, ponendo in essere una condotta direttamente antecedente al consumo, ha già operato una scelta che, pur se illecita, l’ordinamento non intende contrastare nella più rigida forma della sanzione penale (proprio perché incidente in misura pregnante sulla sola salute dell’assuntore); laddove, al contrario, nel caso della coltivazione, l’assenza di un nesso di immediatezza con l’uso personale giustifica una soluzione più severa, rientrando nella discrezionalità legislativa anche la propensione a disincentivare comportamenti propedeutici all’approvvigionamento di sostanze stupefacenti per uso personale.
In altri termini, la scelta della non criminalizzazione dell’assunzione – che rappresenta una costante della disciplina di settore, pur nelle alterne formulazioni ispirate a maggiore o minor rigidità – implica necessariamente anche la non rilevanza penale di comportamenti che ne sono l’immediato antecedente, quali di norma la detenzione, spesso l’acquisto, talvolta l’importazione. E la linea di confine di queste condotte, che si giovano di riflesso di una valutazione di maggiore tolleranza, è stata segnata – secondo la Corte – dalle categorie, dapprima dalla modica quantità, poi dalla dose media giornaliera, infine dall’uso personale; tutte direttamente riferibili, però, al nucleo centrale del consumo.
Inoltre, la stessa destinazione ad uso personale si presta ad essere apprezzata in termini diversi nelle situazioni comparate: nella detenzione, acquisto ed importazione il quantitativo di sostanza stupefacente è certo e determinato e consente, unitamente ad altri elementi attinenti alle circostanze soggettive ed oggettive della condotta, la valutazione prognostica della sua destinazione; invece, nel caso della coltivazione, tale dato non è apprezzabile con sufficiente grado di certezza, sicché la correlata valutazione della destinazione ad uso personale, piuttosto che a spaccio, risulta maggiormente ipotetica e meno affidabile.
Ciò determina una maggiore pericolosità della condotta stessa, perché l’attività di coltivazione è destinata ad accrescere indiscriminatamente i quantitativi disponibili sul mercato. E deve sottolinearsi come la Corte costituzionale evidenzi, nella medesima decisione, che l’illiceità penale della coltivazione, anche se univocamente destinata all’uso personale, resiste anche alla verifica condotta, ex artt. 25 e 27 Cost., alla stregua del principio di offensività, nella sua dimensione di limite costituzionale alla discrezionalità del legislatore ordinario.
Così intesa, la categoria dell’inoffensività implica, infatti, la ricognizione dell’astratta fattispecie penale, depurata dalla variabilità del suo concreto atteggiarsi nei singoli comportamenti in essa sussumibili. Operata questa astrazione, la coltivazione di piante da cui sono estraibili i principi attivi di sostanze stupefacenti mantiene la sua connotazione di reato di pericolo, in quanto idonea ad attentare al bene della salute dei singoli, per il solo fatto di arricchire la provvista esistente di materia prima e, quindi, di creare in potenza maggiori occasioni di spaccio.
Come già rilevato in precedenti decisioni (n. 133 del 1992, n. 333 del 1991, n. 62 del 1986), la Corte ribadisce, dunque, la compatibilità con il principio di offensività della configurazione di reati di pericolo presunto; così che, con riguardo al reato di coltivazione di stupefacenti, non appare irragionevole o arbitraria la valutazione prognostica, sottesa alla previsione incriminatrice, di potenziale aggressione al bene giuridico protetto.
Diverso profilo, tuttavia, è quello dell’offensività in concreto della condotta, la cui verifica è devoluta al giudice di merito e la cui eventuale mancanza va ricondotta alla figura del reato impossibile, ex art. 49 cod. pen.
Quanto all’identificazione, in termini più o meno restrittivi, della nozione di coltivazione, la Corte costituzionale precisa, infine, che si tratta di una questione meramente interpretativa, anch’essa rimessa al giudice ordinario, pur incidendo sulla linea di confine del penalmente rilevante.
Agli stessi principi sono ispirate le successive ordinanze n. 150 e n. 414 del 1996 e, soprattutto, la sentenza n. 296 del 1996, con la quale la Corte costituzionale evidenzia come, con l’attrazione delle tre condotte contemplate dall’art. 75 del d.P.R. n. 309 del 1990, ove finalizzate all’uso personale, nell’area dell’illecito amministrativo, sia stata modificata la strategia di contrasto alla diffusione della droga, nel senso che è stata isolata la posizione del tossicodipendente e del tossicofilo rendendo tali soggetti destinatari soltanto di sanzioni amministrative, significative del perdurante disvalore attribuito alla attività di assunzione; e ciò non già su base soggettiva, avuto riguardo all’autore della condotta, quasi si trattasse di una immunità personale, bensì su base oggettiva, in considerazione del profilo teleologico della preordinazione al consumo.
Sulla stessa linea si colloca, ad anni di distanza, la già richiamata sentenza n. 109 del 2016, con cui, alla luce dei parametri degli artt. 3, 13, secondo comma, 25, secondo comma, e 27, terzo comma, Cost., la Corte costituzionale ribadisce l’infondatezza della questione di legittimità costituzionale, articolata in relazione all’art. 75 del d.P.R. n. 309 del 1990, nella parte in cui esclude, secondo il diritto vivente, che tra le condotte di reato suscettibili di sola sanzione amministrativa perché finalizzate all’uso esclusivamente personale dello stupefacente possa rientrare quella di coltivazione.
Ancora una volta, la Corte ritiene legittima la strategia complessiva del legislatore, che ha dettato condizioni e limiti di operatività del regime differenziato, negando rilievo sia alla finalità dell’uso personale, sia alle condotte con essa logicamente incompatibili, perché implicanti la “circolazione” della droga («vende, offre o mette in vendita, cede, distribuisce, commercia, trasporta, procura ad altri, invia, passa o spedisce in transito, consegna per qualunque scopo»), sia a quelle apparentemente “neutre – («coltiva, produce, fabbrica, estrae, raffina») che hanno, tuttavia, l’attitudine ad innescare un meccanismo di creazione di nuove disponibilità di droga, quantitativamente non predeterminate, che ne agevolano indirettamente la diffusione, e per tale motivo più insidiose.
Si ribadisce anche che «compete al giudice verificare se la singola condotta di coltivazione non autorizzata, contestata all’agente, risulti assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico protetto e, dunque, in concreto inoffensiva, escludendone in tal caso la punibilità (Corte di cassazione, sezioni unite, sentenze 24 aprile-10 luglio 2008, n. 28605 e n. 28606).
Risultato, questo, conseguibile sia – secondo l’impostazione della sentenza n. 360 del 1995 – facendo leva sulla figura del reato impossibile (art. 49 del codice penale); sia – secondo altra prospettiva – tramite il riconoscimento del difetto di tipicità del comportamento oggetto di giudizio».
La pronuncia affronta anche la questione dell’irragionevolezza, prospettata dal giudice rimettente, per disparità di trattamento, fra: la condotta di chi detenga per uso personale sostanza stupefacente estratta da piante che egli stesso abbia coltivato – condotta che sarebbe inquadrabile nella formula «comunque detiene», presente nella norma censurata, così da essere sanzionata, in tesi, solo in via amministrativa -; e la condotta di coltivazione in atto, programmata per uso sempre personale, e perseguita, alla stregua del “diritto vivente” ai sensi dell’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990.
La Corte individua il vulnus di una tale prospettazione nella sua inesatta premessa: e cioè nell’idea che la detenzione per uso personale dello stupefacente “autoprodotto” renda non punibile la condotta di coltivazione, rimanendo il precedente illecito penale assorbito dal successivo illecito amministrativo. Al contrario – si afferma – tale assorbimento non si verifica nel senso indicato dal rimettente, perché a rimanere assorbito è, semmai, l’illecito amministrativo. Infatti, la disponibilità del prodotto della coltivazione non rappresenta altro che l’ultima fase della coltivazione stessa, tale da poter essere qualificata come post factum non punibile, in quanto ordinario e coerente sviluppo della condotta penalmente rilevante.
- Tra i principi elaborati dalla giurisprudenza costituzionale – e, in particolare, dalle sentenze n. 360 del 1995 e 109 del 2016 – si inserisce la giurisprudenza di legittimità, i cui contrastanti orientamenti prendono le mosse dalla sentenza delle Sez. U, n. 28605 del 24/04/2008, Di Salvia, Rv. 239920 – 239921 (e dalla sentenza gemella n. 28606 del 24/04/2008, Valletta, n.m.).
3.1. Richiamandosi alla precedente giurisprudenza costituzionale, le Sezioni Unite del 2008 ritengono non condivisibile l’orientamento (espresso dalla sentenza Sez. 6, n. 17983 del 18/01/2007, Notaro, Rv. 236666, e da successive pronunce dello stesso anno, tra cui Sez. 6, n. 31968 del 20/06/2007, Satta, Rv. 237210, e Sez. 6, n. 40362 del 11/10/2007, Mantovani, Rv. 237915) secondo cui la coltivazione di piante da cui possono ricavarsi sostanze stupefacenti – che non si sostanzia nella coltivazione in senso tecnico-agrario ovvero imprenditoriale, e ciò per l’assenza di alcuni presupposti, quali la disponibilità del terreno, la sua preparazione, la semina, il governo dello sviluppo delle piante, la disponibilità di locali per la raccolta dei prodotti, e che, pertanto, rimane nell’ambito concettuale della cosiddetta coltivazione domestica – ricade nella nozione, di genere e di chiusura, della “detenzione”, sicché occorre verificare se, nella concreta vicenda, essa sia destinata ad un uso esclusivamente personale del prodotto.
Le Sezioni Unite affermano, al contrario, che costituisce condotta penalmente rilevante qualsiasi attività non autorizzata di coltivazione di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, anche quando sia realizzata per la destinazione del prodotto ad uso personale. A tale affermazione aggiungono che, ai fini della punibilità della coltivazione non autorizzata di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, spetta al giudice verificare in concreto l’offensività della condotta ovvero l’idoneità della sostanza ricavata a produrre un effetto drogante rilevabile.
3.1.1. Il primo dei principi enunciati dalle Sezioni Unite, secondo cui la coltivazione non può essere sottratta all’area della repressione penale quale che sia la finalità di impiego del prodotto, si fonda, in primo luogo, su un argomento di carattere testuale, ovvero sulla circostanza che, anche dopo le norme introdotte per effetto della legge 21 febbraio 2006, n. 49, l’attività di coltivazione non risulta richiamata né dall’art. 73, comma 1-bis, del d.P.R. n. 309 del 1990, né dal successivo art. 75, comma 1, tra quelle sanzionate solo in ambito amministrativo.
Ciò confermerebbe la volontà del legislatore di mantenerne comunque la rilevanza penale, non trovando alcun fondamento normativo la distinzione tra coltivazione “tecnico-agraria” e coltivazione “domestica”, da taluni sostenuta per affermare che quest’ultima sia piuttosto riconducibile alla nozione di detenzione, la quale è penalmente irrilevante se finalizzata al consumo personale.
Al riguardo, la Corte precisa che, se è vero che l’art. 27 del d.P.R. n. 309 del 1990, ai fini dell’autorizzazione alla coltivazione, fa riferimento anche alle “particelle catastali” e alla “superficie del terreno sulla quale sarà effettuata la coltivazione”, e che i successivi artt. 28, 29 e 30 richiamano le modalità di vigilanza, raccolta e produzione delle “coltivazioni autorizzate” e le eccedenze di produzione “sulle quantità consentite” – elementi potenzialmente evocativi di una coltivazione non limitata all’ambito domestico – è pur vero che si tratta di prescrizioni riferite ai requisiti necessari per conseguire l’autorizzazione alla coltivazione.
E ciò – per la Corte – non significa che, ove difettino le relative condizioni quali, ad esempio, la disponibilità del terreno, la sua preparazione, la semina, il governo dello sviluppo delle piante, la disponibilità di locali per la raccolta dei prodotti e le attività di coltivazione non siano di conseguenza suscettibili di essere neanche in astratto autorizzate, esse possano essere considerate lecite.
Sempre in relazione alla ritenuta irrilevanza del carattere “domestico” ai fini di escludere la punibilità della coltivazione, la Corte richiama, in secondo luogo, un argomento di carattere naturalistico, basato sulla distinzione ontologica fra coltivazione e detenzione, che trova conferma nel fatto che, anche qualora intrapresa con l’intento di soddisfare esigenze di consumo personale, la coltivazione, a differenza della detenzione, è attività suscettibile di creare nuove e non predeterminabili disponibilità di stupefacenti.
In terzo luogo, la sentenza fa perno sulla peculiare dimensione di offensività della coltivazione – già ampiamente evidenziata dalla Corte costituzionale con le pronunce sopra richiamate – sia perché tra coltivazione e consumo personale difetta un nesso di immediatezza, così che restano ipotetiche e comunque scarsamente affidabili le valutazioni in merito alla destinazione della droga all’uso personale piuttosto che alla cessione a terzi; sia perché non è stimabile a priori, con sufficiente grado di precisione, la potenzialità produttiva di una piantagione, ciò che comporta il rischio di dilatazione del fenomeno, degenerativo ed antisociale, delle tossicomanie.
3.1.2. Sempre sulla scia della giurisprudenza costituzionale, la ricostruzione del reato di coltivazione come strumento di anticipazione della tutela, ovvero in termini di pericolo presunto, trova temperamento – nella stessa pronuncia – in una lettura costituzionalmente orientata del dato normativo, nel senso che spetta al giudice verificare in concreto l’offensività della condotta come idoneità della sostanza ricavata a produrre un effetto drogante rilevabile.
Al riguardo, le Sezioni Unite ribadiscono la duplice valenza, oggettiva e soggettiva del principio di offensività. In ossequio, dunque, al principio di offensività così inteso, la Corte spiega che al giudice spetta accertare se la condotta contestata ed accertata sia assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico protetto, atteso che inoffensiva è la condotta che non leda o ponga in pericolo il bene tutelato nemmeno in grado minimo, al riguardo essendo irrilevante il grado dell’offesa; sicché l’offensività della condotta di coltivazione deve essere esclusa soltanto se la sostanza ricavabile non sia idonea a produrre un «effetto stupefacente in concreto rilevabile».
Quanto all’oggettività giuridica, la sentenza Di Salvia, la individua nella salute collettiva, ma anche, in parziale continuità con le Sez. U., n. 9973 del 21/09/1998, Kremi, Rv. 211073, nella sicurezza e nell’ordine pubblico, rispetto ai quali l’implementazione della provvista di droga costituisce causa di turbativa, nonché nella salvaguardia delle giovani generazioni.
3.2. All’orientamento espresso dalle Sezioni Unite nel 2008 si contrappone, nello stesso anno, una pronuncia che riconduce l’offensività dell’illecito di coltivazione alla capacità, effettiva ed attuale, della sostanza ricavabile a determinare un effetto drogante, ossia a produrre nell’assuntore alterazioni di natura psico-fisica (Sez. 4, n. 1222 del 28/10/2008, Nicoletti, Rv. 242371).
Si tratta di una ricostruzione del bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice in termini più riduttivi, ancorata alla tutela della salute (dei consumatori attuali e potenziali), il cui fondamento si rinviene negli artt. 2 e 32 Cost. In particolare, la decisione esprime un’opinione fortemente critica nei confronti della più risalente Sez. U Kremi – in parte recepita dalle Sez. U Di Salvia – sul rilievo che il bene della salute, come parametro di selezione qualitativa della nneritevolezza della pena, non dovrebbe essere affiancato da altri beni-interessi strumentali alla sua tutela perché, proiettando l’attitudine offensiva della condotta su tali strumentali interessi, capaci di apprestare una tutela mediata al bene costituzionalmente protetto, quali la lotta al mercato della droga o la tutela delle giovani generazioni, o su valori, quali la sicurezza, l’ordine pubblico ed il normale sviluppo delle giovani generazioni, anch’essi visti come serventi rispetto alla tutela di questi beni, scolora il concetto stesso di offensività.
Di qui l’esigenza – evidenziata dalla sentenza Nicoletti – che la condotta tipica del reato di coltivazione illecita abbia come oggetto sostanze aventi il duplice requisito formale, della iscrizione nelle tabelle, e sostanziale, dell’efficacia stupefacente o psicotropa, la quale è coessenziale alla offensività del fatto.
La conclusione che se ne trae è l’irrilevanza penale della condotta di coltivazione qualora il ciclo di maturazione delle piante, pur conforme al tipo botanico, non sia tale da produrre, al momento dell’accertamento, un principio attivo dotato di efficacia drogante, a prescindere da una sua futura eventuale produzione (nello stesso senso, ad anni di distanza, Sez. 6, n. 2618 del 21/10/2015, Marongiu, Rv. 265640).
3.3. Negli ultimi anni la giurisprudenza si è ancora divisa sulla declinazione del concetto di “offensività in concreto”, essenzialmente intorno ai due differenti filoni interpretativi richiamati nell’ordinanza di rimessione, che condividono il solo ovvio presupposto della conformità al tipo botanico vietato della pianta da cui siano estraibili sostanze stupefacenti.
3.3.1. Il primo degli indirizzi in questione ritiene irrilevante la verifica dell’efficacia drogante delle sostanze ricavabili dalle colture con riferimento all’atto dell’accertamento della polizia giudiziaria e si incentra sull’attitudine della pianta, conforme al tipo botanico vietato, anche in relazione alle modalità che connotano la coltivazione, a giungere a maturazione e produrre, all’esito di un fisiologico sviluppo, sostanze ad effetto stupefacente o psicotropo, sulla base, dunque, di un giudizio predittivo.
Nell’ambito di tale orientamento, assume particolare rilevanza Sez. 6, n. 22459 del 15/03/2013, Cangemi, Rv. 255732, la quale muove dal presupposto che il legislatore ha inteso incriminare l’attività di “coltivazione” – così definita, senza alcuna aggettivazione – di organismi vegetali da cui sono ritraibili sostanze stupefacenti, con la conseguenza che essa deve ritenersi integrata già dalla messa a dimora dei semi.
Tanto si evince – secondo la sentenza – dal fatto che non configura la condotta di cui all’articolo 73 del d.P.R. n. 309 del 1990, neanche a livello di tentativo, il commercio di semi di piante atte a produrre sostanze stupefacenti, il quale refluisce piuttosto nella categoria degli atti meramente preparatori, non aventi connotazione inequivoca, poiché dal detto possesso non è dato dedurre con certezza quale sarà l’effettivo impiego del seme stesso (nel solco di Sez. U, n. 47604 del 18/10/2012, Bargelli, Rv. 253552).
Quanto alla normativa sovranazionale, si richiama la Decisione Quadro del Consiglio dell’Unione Europea 2004/757/GAI del 25 ottobre 2004, la quale, nel dettare norme minime relative agli elementi costitutivi dei reati e alle sanzioni applicabili in materia di traffico illecito di stupefacenti, aveva indicato anche la coltivazione della cannabis tra le condotte per le quali i singoli Stati devono applicare sanzioni penali.
È ascrivibile allo stesso orientamento anche Sez. 3, n. 21120 del 31/01/2013, Colamartino, Rv. 255427, che – con netta presa di distanza dalla citata sentenza Nicoletti – critica l’assunto secondo cui la mancata maturazione delle colture all’atto del sequestro impedirebbe di ritenere l’offensività della condotta; e ciò perché l’idoneità offensiva della coltivazione – secondo tale decisione – va valutata in assoluto, non potendo dipendere da circostanze occasionali e contingenti, quale la tempestiva “scoperta” della piantagione da parte della polizia giudiziaria. Diversamente, si perverrebbe all’irrazionale conclusione di escludere la rilevanza penale di una coltivazione anche di notevoli dimensioni, con elevato numero di piante messe a dimora, per il solo fatto che ne sia stata accertata l’esistenza all’inizio del processo di maturazione e che, esclusivamente per tale circostanza fattuale, la stessa sia risultata non produttiva, nell’immediato, di principio attivo.
Analoga è la prospettiva adottata da Sez. 6, n. 6753 del 09/01/2014, M., Rv. 258998, nella quale, dopo avere precisato che il legislatore ha inteso punire ogni attività che incrementi il rischio di diffusione delle sostanze stupefacenti, arretrando la soglia di tutela fino a colpire le fasi di produzione, si ribadisce che la coltivazione deve risultare ragionevolmente ed univocamente orientata verso la materializzazione delle sostanze, con la conseguenza che l’accertamento va rapportato al ciclo di sviluppo vegetale delle piante.
L’offensività risulta, dunque, assicurata: a) in astratto, dalla proiezione causale tipica della condotta incriminata (correlata all’identificazione della specie vegetale ed alla sua corrispondenza al tipo vietato); b) in concreto, dalla verifica giudiziale della capacità della condotta che, per le caratteristiche assunte nei singoli casi (avuto riguardo alla qualità delle piante, al loro numero e agli altri elementi rilevanti), deve apparire tale da incrementare significativamente il rischio della produzione di sostanze utili al consumo.
Ciò posto, se, a fronte di un ciclo vegetale già esaurito, il processo di verifica va condotto ex post, sicché la rilevanza della condotta potrà essere esclusa quando si riscontri l’assenza di efficacia stupefacente del prodotto – in consonanza con l’insegnamento delle Sezioni Unite Di Salvia – per le ipotesi di vegetali in crescita rileverà, invece, l’attitudine a produrre sostanze utili per il consumo.
Ulteriori pronunce ribadiscono tali principi, sul presupposto che la coltivazione sia attività che si riferisce all’intero ciclo evolutivo dell’organismo biologico, sottolineando che l’offensività della condotta di coltivazione in corso non può ritenersi esclusa dal mancato compimento del processo di maturazione dei vegetali, neppure quando risulti l’assenza di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, a condizione che gli arbusti siano prevedibilmente in grado di rendere, all’esito di un fisiologico sviluppo, quantità significative di prodotto dotato di effetti droganti, dovendosi verificare ex ante l’assenza di ostacoli al futuro, fisiologico sviluppo della pianta (Sez. 6, n. 10169 del 10/02/2016, Tamburini, Rv. 266513; Sez. 6, n. 25057 del 10/05/2016, Iaffaldano, Rv. 266974; Sez. 4, n. 53337 del 23/11/2016, Trabanelli, Rv. 268695; Sez. 6, n. 52547 del 22/11/2016, Losi, Rv. 268938; Sez. 6, n. 35654 del 28/04/2017, Nerini, Rv. 270544; Sez. 4, n. 27213 del 21/05/2019, Bongi, Rv. 275877).
3.3.2. Secondo la ricostruzione operata nell’ordinanza di rimessione, all’indirizzo sopra descritto se ne contrappone un altro, che non ritiene sufficiente la verifica della conformità della pianta coltivata al tipo botanico proibito e della capacità della sostanza, ricavata o ricavabile, a produrre un effetto drogante, ma richiede un quid pluris, rappresentato dal concreto pericolo di aumento di disponibilità dello stupefacente e di ulteriore diffusione dello stesso.
Tra le prime sentenze che, pur sviluppando il percorso logico-argomentativo delle Sezioni Unite Di Salvia, giungono ad escludere in concreto l’offensività della condotta, deve essere ricordata Sez. 4, n. 25674 del 17/02/2011, Marino, Rv. 250721, riferita alla coltivazione di un’unica pianta in vaso, contenente una piccola quantità di principio attivo.
La pronuncia ritiene l’assoluta modestia della condotta, desumibile dalle sue connotazioni fattuali, invocando il reato impossibile, ricostruito, sul piano dogmatico, quale versione al “negativo” del tentativo di cui all’art. 56 cod. pen., ovvero quale meccanismo per ritenere non punibili le condotte solo apparentemente conformi al tipo, ma che risultino del tutto carenti di lesività a posteriori, secondo una tendenza già in atto nella legislazione, rappresentata dall’art. 27 del d.P.R. 22 settembre 1988, n.448, regolativo del processo penale minorile, che prevede la pronuncia di improcedibilità per irrilevanza del fatto, nonché dall’art. 34 del d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274, sul procedimento davanti al giudice di pace, che prevede, fra l’altro, l’esclusione della procedibilità per particolare tenuità del fatto.
Più in linea con la sentenza Di Salvia si pone Sez. 3, n. 23082 del 09/05/2013, De Vita, Rv. 256174, la quale afferma che l’accertamento dell’offensività deve investire l’estensione ed il livello di strutturazione della coltivazione, a prescindere dalla quantità di principio attivo e giunge, così, a ravvisare la sussistenza del reato con riferimento ad un caso di coltivazione di 43 piantine di cannabis, che all’atto del sequestro evidenziavano – ad eccezione di una sola – un contenuto di sostanza ricavabile inferiore sia al valore di una dose singola che alla dose soglia; e ciò sulla considerazione che nella piantagione erano presenti semi ed impianti di innaffiamento e riscaldamento dei locali, finalizzati a favorire la crescita e lo sviluppo significativo delle piantunnazioni.
La sentenza Sez. 6, n. 5254 del 10/11/2015, Pezzato, Rv. 265641, relativa alla coltivazione di due piante di canapa indiana e alla detenzione in essiccatore di foglie della medesima specie vegetale, giunge a riscontrare la carenza di offensività in concreto nell’inverosimiglianza di un pericolo di diffusione sul mercato, per la quantità assolutamente “minima” di prodotto, resa disponibile dalla limitatezza della fonte di produzione, in relazione al bassissimo costo a cui quel tipo di sostanza è reperibile sul mercato, nonostante il raggiungimento della soglia drogante.
In tale contesto, la Corte precisa che il canone ermeneutico dell’offensività deve ritenersi valido, pur all’esito della introduzione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all’art. 131-bis cod. pen., per effetto del d.lgs. 16 marzo 2015, n. 28, non avendo i due istituti spazi di interferenza applicativa. La causa di non punibilità, inserita nell’ambito delle determinazioni che il giudice assume in relazione alla pena, presuppone – oltre ad une serie di requisiti di natura soggettiva riassumibili nella non abitualità della condotta – un reato perfezionato in tutti i suoi elementi costitutivi (come è dato evincere dalle conseguenze che la pronuncia di proscioglimento per particolare tenuità del fatto proietta nei giudizi civili ed amministrativi per le restituzioni ed il risarcimento del danno), ma immeritevole di pena, e dunque postula che la condotta sia pur sempre connotata da offensività, ancorché esigua; al contrario, la mancanza di offensività colloca la condotta al di fuori dell’area della tipicità penale, rendendo il reato di fatto impossibile.
Si inscrivono nel medesimo orientamento anche le sentenze Sez. 6, n. 33835 del 08/04/2014, Piredda, Rv. 260170 e Sez. 6, n. 8058 del 17/02/2016, Pasta, Rv. 266168, che escludono l’offensività in concreto per la modesta entità della coltivazione e del principio attivo ricavato, ritenuto destinato ad uso personale e, dunque, inidoneo ad una ulteriore diffusione sul mercato; mentre la sentenza Sez. 3, n. 36037 del 22/02/2017, Compagnini, Rv. 271805, fa perno sulla distinzione tra tipicità e offensività, affermando che l’assenza di un qualunque effetto stupefacente nella sostanza prodotta o coltivata non esclude tanto l’offensività quanto, piuttosto, la stessa tipicità della condotta.
Con accenti parzialmente diversi, la sentenza Sez. 4, n. 3787 del 19/01/2016, Festi, Rv. 265740, pur ribadendo che la punibilità per l’illecito di coltivazione è esclusa quando la condotta sia così trascurabile da rendere sostanzialmente irrilevante l’aumento di disponibilità della droga e non prospettabile alcun pericolo di ulteriore diffusione di essa, precisa che non è sufficiente considerare il solo dato quantitativo di principio attivo ricavabile dalle singole piante, dovendosi altresì valutare l’estensione ed il livello di strutturazione della coltivazione, al fine di verificare se da essa possa derivare o meno una produzione potenzialmente idonea ad incrementare il mercato.
- Ritengono le Sezioni Uniteche l’evoluzione della giurisprudenza costituzionale e di legittimità in materia di coltivazione di piante stupefacenti evidenzi alcuni punti fermi e alcuni profili problematici.
Dalla disamina degli indirizzi giurisprudenziali sopra riportati – e ritenuti tra loro in conflitto dall’ordinanza di rimessione – emerge, in particolare, la mancanza di una netta linea di discrimine fra le pronunce che fanno riferimento alla potenziale idoneità della coltivazione a incrementare il mercato degli stupefacenti e quelle che non vi fanno riferimento, che giungono, in alcuni casi, a esiti pratici sovrapponibili. E ciò, per l’oggettiva ambiguità dello stesso concetto di incremento del mercato, legata sia alla sua intrinseca vaghezza, sia alle difficoltà di accertamento dovute al suo carattere clandestino, in relazione al quale vi è una sostanziale impossibilità di avere a disposizione dati certi e verificabili (come ben evidenziato da Sez. 4, n. 17167 del 27/01/2017, Simoncelli, Rv. 269539); considerazioni critiche che valgono anche per l’analogo concetto di “saturazione del mercato” che, a suo tempo, era stato proposto dalla giurisprudenza con riferimento alla circostanza aggravante dell’ingente quantità di cui all’art. 80, comma 2, d.P.R. n. 309 del 1990 (ex multis, Sez. 5, n. 22766 del 03/05/2011, Mazzotta, Rv. 250398; Sez. 2, n. 4824 del 12/01/2011, Baruffaldi, Rv. 249628; Sez. 5, n. 39205 del 09/07/2008, Di Pasquale, Rv. 241694).
In ogni caso, al di là dell’asimmetria di piani tra le sentenze che nell’ordinanza di rimessione sono indicate quali espressive del contrasto, la Sezione remittente auspica, nella sostanza, la definizione di paradigmi ricostruttivi che possano valere in relazione alla coltivazione “domestica”, di entità oggettivamente modesta.
Così delineato l’oggetto della questione, deve essere richiamata e ribadita – quale punto di partenza di ogni riflessione – la distinzione (ben delineata, tra le altre, dalle sentenze Corte cost. n. 360 del 1995 e Sez. U, Di Salvia) tra le categorie della tipicità e dell’offensività del reato e, nell’ambito di quest’ultima, tra offensività in astratto e offensività in concreto.
4.1. È da ricondurre al piano della tipicità, intesa come riconducibilità della fattispecie concreta al “tipo” disciplinato dalla fattispecie astratta, il duplice requisito della conformità della pianta al tipo botanico vietato e della sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre sostanza stupefacente. Tale requisito è correttamente ritenuto imprescindibile, ai fini della configurabilità del reato, da tutti gli orientamenti giurisprudenziali sopra richiamati: perché vi sia una coltivazione penalmente rilevante è necessario, non solo che la stessa abbia per oggetto una pianta che sia in concreto idonea a produrre sostanze vietate, ma anche che siano utilizzate, a tal fine, strumentazioni e pratiche agricole tecnicamente adeguate.
4.2. Altro profilo attinente alla tipicità del fatto è quello dell’ambito di applicazione della tutela penale, in relazione al quale una parte della giurisprudenza di legittimità richiamata opera una distinzione tra “coltivazione imprenditoriale” e “coltivazione domestica”; distinzione che a volte viene ricondotta all’ambito dell’offensività (come evidenziato, con considerazioni di carattere generale, da C. cost. n. 109 del 2016).
Come visto, la giurisprudenza costituzionale fa salva la repressione penale della coltivazione sotto il profilo della tipicità, lasciando al giudice comune il compito di individuare in concreto l’ambito e i limiti dell’applicazione della fattispecie e consentendogli, dunque, un’interpretazione più o meno restrittiva del concetto di coltivazione. Se, infatti, la sentenza n. 443 del 1994 sembra prendere posizione a favore di una rimodulazione dell’ambito del penalmente rilevante, da parte del legislatore o dell’interprete, dando spazio alla possibile equiparazione tra la coltivazione ad uso personale e la detenzione ad uso personale, la sentenza n. 360 del 1995 e la giurisprudenza successiva valorizzano la peculiarità della condotta di coltivazione, ponendo l’accento sulla piena legittimità costituzionale della ricostruzione della fattispecie in termini di pericolo presunto e ritenendo l’identificazione, in termini più o meno restrittivi, della nozione di coltivazione, come una questione meramente interpretativa, la quale, pur incidendo sulla linea di confine del penalmente rilevante, deve essere rimessa al giudice ordinario.
In questo ambito, si inserisce la richiamata sentenza Di Salvia, la quale, in un’ottica di accentuata preoccupazione per il problema della tossicodipendenza, opta per l’affermazione della rilevanza penale di qualsiasi attività non autorizzata di coltivazione di piante dalle quali siano estraibili sostanze stupefacenti, anche quando sia realizzata per la destinazione del prodotto ad uso personale.
Ritengono le Sezioni Unite che tale affermazione, pur condivisa da gran parte della giurisprudenza di legittimità, debba essere rivista.
4.2.1. L’equiparazione operata dalla sentenza del 2008 tra coltivazione tecnico-agraria e coltivazione domestica trae il suo fondamento – come visto – nella riconosciuta autonomia concettuale della condotta di coltivazione rispetto alla condotta di detenzione, che trova ampia conferma nella richiamata giurisprudenza costituzionale. Si tratta di un inquadramento che deve essere in questa sede confermato, in quanto corretto sul piano letterale e sistematico.
Esso si basa, innanzitutto, sul dato normativo dell’art. 28, comma 1, del d.P.R. n. 309 del 1990, il quale equipara la coltivazione delle piante vietate indicate nel precedente art. 26 alla fabbricazione illecita di sostanze stupefacenti. Tale previsione è doppiata da quella dell’art. 73, comma 1, dello stesso d.P.R., che punisce espressamente la coltivazione di sostanze stupefacenti distinguendola dalla detenzione, di cui al successivo comma 1-bis, punita nei limiti in cui lo stupefacente appaia destinato ad uso non esclusivamente personale; limitazione non prevista per la coltivazione.
Anche dopo le modifiche introdotte dalla legge 21 febbraio 2006, n. 49, e i successivi interventi normativi sul sistema, il legislatore persiste, dunque, nell’intenzione di equiparare la coltivazione non autorizzata alla produzione o fabbricazione non autorizzate (in tal senso, anche il comma 3 dell’art. 73), per le quali l’eventuale destinazione ad uso personale non assume efficacia scriminante.
Il sistema è completato dal successivo art. 75 dello stesso d.P.R., che qualifica quali illeciti amministrativi, escludendoli dall’ambito di applicazione del diritto penale, l’importazione, esportazione, acquisto, ricezione, detenzione di stupefacenti ad uso personale, senza estendere tale esclusione alla coltivazione, produzione o fabbricazione (in tal senso, ampiamente, Corte cost., n. 109 del 2016). Ne consegue che la coltivazione non può essere ritenuta una sottospecie della detenzione, come tale punibile solo in quanto vi sia stata effettiva produzione di sostanza dotata di efficacia drogante, perché una tale interpretazione (fatta propria, tra le altre, dalla citata sentenza Sez. 6, n. 17983 del 2007, Notaro), oltre a scontrarsi con il tenore letterale di una pluralità di disposizioni normative, si pone in rotta di collisione con la chiara scelta del legislatore di punire ogni forma di produzione di stupefacenti, se necessario, anticipando la tutela al momento in cui si manifesta un pericolo ragionevolmente presunto per la salute.
4.2.2. Ferma restando la sua autonomia concettuale, la nozione giuridica di coltivazione deve, però, essere circoscritta, per dare spazio alla distinzione tra coltivazione “tecnico-agraria” e coltivazione “domestica”, seppure nell’ambito di una ricostruzione sistematica parzialmente diversa rispetto a quella proposta dalla giurisprudenza che ha valorizzato tale distinzione.
Non può essere, in particolare, condivisa, sul punto, l’affermazione (contenuta, ad esempio, nella richiamata sentenza n. 17983 del 2007), secondo cui la coltivazione domestica è riconducibile alla nozione di detenzione, la quale è penalmente irrilevante se finalizzata al consumo personale. Tale affermazione si basa, infatti, sul presupposto della commistione fra il concetto di coltivazione il concetto di detenzione, che deve essere esclusa sulla base delle considerazioni appena svolte.
L’irrilevanza penale della coltivazione di minime dimensioni, finalizzata esclusivamente al consumo personale, deve, in altri termini, essere ancorata, non alla sua assimilazione alla detenzione e al regime giuridico di quest’ultima, ma, più linearmente, alla sua non riconducibilità alla definizione di coltivazione come attività penalmente rilevante; dandosi, così, un’interpretazione restrittiva della fattispecie penale, che si giustifica tanto più per la sua natura di reato di pericolo presunto (su cui v. infra), nell’ottica garantista di un corretto bilanciamento fra ampiezza e anticipazione della tutela.
Deve essere dato rilievo, a tal fine, all’art. 27 del d.P.R. n. 309 del 1990, il quale, ai fini dell’autorizzazione alla coltivazione, fa riferimento anche alle “particelle catastali” e alla “superficie del terreno sulla quale sarà effettuata la coltivazione“, mentre i successivi artt. 28, 29 e 30 richiamano le modalità di vigilanza, raccolta e produzione delle “coltivazioni autorizzate” e le eccedenze di produzione “sulle quantità consentite”; elementi evocativi di una coltivazione “tecnico-agraria”, di apprezzabili dimensioni e realizzata per finalità commerciali, non limitata, dunque, all’ambito domestico.
D’altra parte, la stessa sentenza Di Salvia, nel sottolineare la distinzione ontologica fra coltivazione e detenzione, afferma che la coltivazione, a differenza della detenzione, è attività suscettibile di creare nuove e non predeterminabili disponibilità di stupefacenti; ma tale affermazione non si attaglia alle coltivazioni domestiche di minime dimensioni, intraprese con l’intento di soddisfare esigenze di consumo personale, perché queste hanno, per definizione, una produttività ridottissima e, dunque, insuscettibile di aumentare in modo significativo la provvista di stupefacenti.
La prevedibilità della potenziale produttività è, quindi, uno dei parametri che permettono di distinguere fra la coltivazione penalmente rilevante, dotata di una produttività non stimabile a priori con sufficiente grado di precisione, e la coltivazione penalmente non rilevante, caratterizzata da una produttività prevedibile come modestissima. Si tratta, però, di un parametro che, per poter operare con sufficiente certezza, deve essere ancorato a presupposti oggettivi – in parte già individuati dalla giurisprudenza (ex plurimis, Sez. 3, n. 21120 del 31/01/2013, Colamartino, Rv. 255427; Sez. 6, n. 6753 del 09/01/2014, M., Rv. 258998; Sez. 6, n. 33835 del 08/04/2014, Piredda, Rv. 260170 e Sez. 6, n. 8058 del 17/02/2016, Pasta, Rv. 266168) – che devono essere tutti compresenti, quali: la minima dimensione della coltivazione, il suo svolgimento in forma domestica e non in forma industriale, la rudimentalità delle tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, la mancanza di indici di un inserimento dell’attività nell’ambito del mercato degli stupefacenti, l’oggettiva destinazione di quanto prodotto all’uso personale esclusivo del coltivatore.
A contrario, la circostanza che la coltivazione sia intrapresa con l’intenzione soggettiva di soddisfare esigenze di consumo personale deve essere ritenuta da sola insufficiente ad escluderne la rispondenza al tipo penalmente sanzionato, perché – come appena visto – la stessa deve concretamente manifestare un nesso di immediatezza oggettiva con l’uso personale.
4.3. Venendo al versante dell’offensività dell’attività di coltivazione, vanno ribadite e rafforzate le conclusioni cui è giunta la più volte richiamata sentenza Di Salvia, riprendendo affermazioni della Corte costituzionale.
4.3.1. Ritengono, infatti, le Sezioni Unite che l’esclusione della punibilità delle attività di coltivazione domestica, che opera sul piano della tipicità, renda a fortiori condivisibili le considerazioni svolte dalla giurisprudenza maggioritaria circa la più spiccata pericolosità della coltivazione rispetto alla maggior parte delle altre condotte elencate nell’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 – ovvero, quelle diverse dalla fabbricazione e dalla produzione – perché l’attività di coltivazione è destinata ad accrescere indiscriminatamente i quantitativi di stupefacente disponibili.
E ciò, a tacere del fatto che, a differenza delle altre condotte “produttive”, l’attività colturale ha la peculiarità di non richiedere neppure la disponibilità di “materie prime” soggette a rigido controllo, ma normalmente solo di semi (C. cost., n. 109 del 2016). È, dunque, ampiamente giustificato l’esercizio della discrezionalità legislativa nella strutturazione della fattispecie penale, nel senso dell’anticipazione della tutela fino al pericolo presunto, in quanto corrisponde alla normalità della pratica agricola la conseguenza dell’incremento della provvista esistente di stupefacente, idoneo ad attentare al bene della salute collettiva e dei singoli, creando in potenza maggiori occasioni di spaccio.
In altri termini, deve essere ritenuta pienamente conforme con il principio di ragionevolezza la valutazione prognostica di potenziale aggressione al bene giuridico protetto, sottesa all’incriminazione della coltivazione, con la sola esclusione di quella domestica, alle condizioni sopra richiamate.
La riconosciuta anticipazione di tutela consente anche di risolvere la questione se l’oggettività giuridica del reato debba essere individuata solo nella salute individuale o collettiva (come in Sez. 4, n. 1222 del 28/10/2008, Nicoletti, Rv. 242371) o anche: nella sicurezza, nell’ordine pubblico, nella salvaguardia delle giovani generazioni (come nelle sentenze Sez. U., Di Salvia e Krenni), nell’impedimento dell’incremento del mercato degli stupefacenti (come nella ricostruzione operata nell’ordinanza di rimessione).
L’utilizzazione dello schema del reato di pericolo presunto rende superfluo, infatti, il richiamo a concetti come la sicurezza, l’ordine pubblico o il mercato clandestino, che, con riferimento alla fattispecie in esame, appaiono declinati in forma eccessivamente generica perché privi di un collegamento sufficientemente diretto con quello della salute, il quale trova un solido ancoraggio costituzionale nell’art. 32, che lo qualifica addirittura come diritto soggettivo.
Del pari, nessuna autonomia semantica può essere riconosciuta alla “salvaguardia delle giovani generazioni”; locuzione che, per evitare impropri sconfinamenti nel terreno dell’etica, deve intendersi ricompresa nel più generale concetto di salute, non potendo che essere interpretata come “salvaguardia della salute delle giovani generazioni”.
Al fine di individuare l’oggetto giuridico della tutela, è sufficiente, dunque, riferirsi alla salute, individuale e collettiva, proprio perché la particolare pregnanza di tale valore costituzionale consente che la sua protezione sia anticipata ad un momento precedente a quello dell’effettiva lesione.
4.3.2. La ricostruzione sistematica del reato di coltivazione di stupefacenti, in termini di pericolo presunto, trova adeguato temperamento nella valorizzazione dell’offensività “in concreto”, quale criterio interpretativo affidato al giudice, il quale è tenuto a verificare che il fatto abbia effettivamente leso o messo in pericolo il bene-interesse tutelato. Ne consegue che il reato non potrà essere ritenuto sussistente qualora si verifichi ex post che la coltivazione ha effettivamente prodotto una sostanza inidonea a produrre un effetto stupefacente in concreto rilevabile.
Dunque, la verifica dell’offensività in concreto deve essere diversificata a seconda del grado di sviluppo della coltivazione al momento dell’accertamento, nel senso che, qualora il ciclo delle piante sia completato, l’accertamento dovrà avere per oggetto l’esistenza di una quantità di principio attivo necessario a produrre effetto drogante. Invece, con riferimento a fasi pregresse di coltivazione, la previsione specifica della punibilità della coltivazione in quanto tale non consente di ritenere che si tratti di attività sostanzialmente libera fino a quando non si abbia la certezza dell’effettivo sviluppo del principio attivo.
Al contrario, per l’ampia dizione della legge, rileva penalmente la coltivazione a qualsiasi stadio della pianta che corrisponda al tipo botanico, purché si svolga in condizioni tali da potersene prefigurare il positivo sviluppo.
In conclusione, potranno rilevare, al fine di escludere la punibilità: a) un’attuale inadeguata modalità di coltivazione da cui possa evincersi che la pianta non sarà in grado di realizzare il prodotto finale; b) un eventuale risultato finale della coltivazione che non consenta di ritenere il raccolto conforme al normale tipo botanico, ovvero abbia un contenuto in principio attivo troppo povero per la utile destinazione all’uso quale droga (Sez. 6, n. 22459 del 15/03/2013, Cangemi, Rv. 255732).
Questa soluzione – lo si ribadisce – ha il duplice merito di rispettare l’autonomia concettuale della coltivazione rispetto alla detenzione (nel senso che può ontologicamente aversi coltivazione senza detenzione, cioè senza produzione in atto di sostanza stupefacente), e di venire incontro all’esigenza, che appartiene alla sfera della logica ancor prima che a quella della politica criminale, di evitare che l’effettiva sussistenza del reato dipenda dal dato, puramente contingente, rappresentato dal momento dell’accertamento.
Diversamente opinando, del resto, potrebbero essere ritenute penalmente irrilevanti coltivazioni industriali, anche di larghe dimensioni e potenzialmente molto produttive, per il solo fatto di trovarsi in un arretrato stadio di sviluppo (come ben evidenziato nella citata sentenza Sez. 3, n. 21120 del 31/01/2013, Cola martino).
4.3.3. Sul piano dell’offensività, deve dunque concludersi che il reato di coltivazione di stupefacenti è configurabile indipendentemente dalla quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, essendo sufficiente la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e produrre sostanza stupefacente. E per coltivazione dovrà intendersi l’attività svolta dall’agente in ogni fase dello sviluppo della pianta, dalla semina fino al raccolto.
- Le conclusioni raggiunte si pongono in armonia con ladecisione quadro 25 ottobre 2004, n. 2004/757/GAI(Decisione quadro del Consiglio riguardante la fissazione di norme minime relative agli elementi costitutivi dei reati e alle sanzioni applicabili in materia di traffico illecito di stupefacenti). Infatti, questa – dopo aver enumerato le condotte connesse al traffico di stupefacenti che gli Stati membri dell’Unione europea sono chiamati a configurare come reati (tra cui anche la coltivazione della cannabis: art. 2, paragrafo 1) – esclude dal proprio campo applicativo le condotte (coltivazione compresa) «tenute dai loro autori soltanto ai fini del […] consumo personale quale definito dalle rispettive legislazioni nazionali» (art. 2, paragrafo 2).
Sotto diverso profilo, la previsione di sanzioni per “la distribuzione di precursori, quando la persona che compie tali atti sia a conoscenza del fatto che essi saranno utilizzati per la produzione o la fabbricazione illecite di stupefacenti” dimostra che la punibilità si riferisce ad un momento precedente a quello in cui la sostanza viene ad esistenza.
E d’altra parte, la stessa fonte sovranazionale considera la punibilità anche di altre ipotesi in cui vi è il rischio di diffusione di stupefacente, anche se non ancora prodotto, da un lato prescrivendo, all’art. 3, che ciascuno Stato Membro provveda affinché siano qualificati come reato l’istigazione, la complicità o il tentativo di commettere uno dei reati di cui all’art. 2; dall’altro rimettendo alla discrezionalità legislativa degli stati membri l’opzione di non punire il tentativo di offerta o di preparazione di stupefacenti di cui all’art. 2, paragrafo 1, lettera a), nonché il tentativo di detenzione di stupefacenti di cui all’art. 2, paragrafo 1, lettera c), ma non pure le condotte di coltivazione e di distribuzione di precursori, per le quali permane il vincolo degli Stati membri a punire, anche se non si sia ancora prodotta sostanza di qualità adeguata, anticipandosi così la punizione all’inizio di dette attività (sul punto, Sez. 6, n. 22459 del 15/03/2013, Cangemi, Rv. 255732).
In ogni caso, come evidenziato dalla sentenza Corte cost. n. 109 del 2016 – che si confronta espressamente con tale atto normativo – si tratta di un testo che si limita a prevedere «norme minime» in tema di repressione penale delle condotte aventi ad oggetto sostanze stupefacenti e non obbliga, perciò, gli Stati membri a prevedere come reato la coltivazione per uso personale, ma neppure impedisce loro di farlo.
Infatti, nel quarto “considerando” afferma che «l’esclusione di talune condotte relative al consumo personale dal campo di applicazione della presente decisione quadro non rappresenta un orientamento del Consiglio sul modo in cui gli Stati membri dovrebbero trattare questi altri casi nella loro legislazione nazionale».
- Inconclusione, le Sezioni Unite ritengono che la soluzione da dare alla questione sollevata con l’ordinanza di rimessione debba basarsi sull’affermazione dellamancanza di tipicità – qualora ricorrano tutte le condizioni sopra specificate – della condotta di coltivazione domestica destinata all’autoconsumo; condotta in relazione alla quale non potrà trovare applicazione l’art. 75 del d.P.R. n. 309 del 1990, perché tale disposizione non si riferisce in nessun caso alla coltivazione, neanche a quella penalmente rilevante.
Qualora, però, la coltivazione domestica a fini di autoconsumo produca effettivamente una sostanza stupefacente dotata di efficacia drogante, le sanzioni amministrative dell’art. 75 richiamato potranno essere applicate al soggetto agente considerato non come coltivatore, ma come detentore di sostanza destinata a uso personale.
In presenza di una coltivazione penalmente rilevante, invece, la detenzione da parte del coltivatore dello stupefacente prodotto dovrà essere ritenuta assorbita nella coltivazione, secondo le indicazioni già fornite in tal senso da Corte cost. n. 109 del 2016, per cui la disponibilità del prodotto della coltivazione non rappresenta altro che l’ultima fase della coltivazione stessa, tale da poter essere qualificata come post factum non punibile, in quanto ordinario e coerente sviluppo della condotta penalmente rilevante.
Vi è, dunque, una graduazione della risposta punitiva rispetto all’attività di coltivazione di piante stupefacenti, nelle sue diverse accezioni: a) devono considerarsi lecite la coltivazione domestica, a fine di autoconsumo – alle condizioni sopra elencate – per mancanza di tipicità, nonché la coltivazione industriale che, all’esito del completo processo di sviluppo delle piante non produca sostanza stupefacente, per mancanza di offensività in concreto; b) la detenzione di sostanza stupefacente esclusivamente destinata al consumo personale, anche se ottenuta attraverso una coltivazione domestica penalmente lecita, rimane soggetta al regime sanzionatorio amministrativo dell’art. 75 del d.P.R. n. 309 del 1990; c) alla coltivazione penalmente illecita restano comunque applicabili l’art. 131-bis cod. pen., qualora sussistano i presupposti per ritenerne la particolare tenuità, nonché, in via gradata, l’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990, qualora sussistano i presupposti per ritenere la minore gravità del fatto.
- Si deve dunque affermare il seguente principio di diritto: “Il reato di coltivazione di stupefacenti è configurabile indipendentemente dalla quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, essendo sufficienti la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre sostanza stupefacente; devono però ritenersi escluse, in quanto non riconducibili all’ambito di applicazione della norma penale, le attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica, che, per le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell’ambito del mercato degli stupefacenti, appaiono destinate in via esclusiva all’uso personale del coltivatore”.