Corte di Cassazione, Sezioni Unite Penali, 11 luglio 2024, n. 27727
PRINCIPIO DI DIRITTO
In tema di concorso di persone nel reato di cessione di sostanze stupefacenti il medesimo fatto storico può configurare, in presenza dei diversi presupposti, nei confronti di un concorrente, il reato di cui all’art. 73, comma 1 ovvero comma 4, del D.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309 e nei confronti di altro concorrente il reato di cui all’art. 73, comma 5, del medesimo D.P.R
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
Motivi della decisione
- La questione di diritto per la quale il ricorso è stato rimesso alle Sezioni unite è la seguente: “Se, in tema di concorso di persone nel reato di cessione di sostanze stupefacenti, il medesimo fatto storico possa essere ascritto a un concorrente a norma dell’art. 73, comma 1, D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 e a un altro concorrente a norma dell’art. 73, comma 5, del medesimo D.P.R.”.
- Il tema della possibile differenziazione dei titoli di responsabilità tra concorrenti, a fronte di un medesimo fatto di reato in materia di detenzione e traffico di sostanze stupefacenti, affonda le sue radici nella ricostruzione dogmatica dell’istituto del concorso di persone nel reato, nonché nella natura, unitaria o differenziata, del fatto di reato realizzato plurisoggettivamente.
L’ordinanza di rimessione ha illustrato i due orientamenti che si contrappongono nella più recente giurisprudenza di legittimità, non prima di avere evidenziato che “la trasformazione della fattispecie del quinto comma da circostanza attenuante speciale ad effetto speciale a titolo autonomo di reato operata dal legislatore del 2013 sembrerebbe maggiormente calibrata sull’ipotesi della realizzazione monosoggettiva che non sulla eventualità che la condotta tipica sia frutto di un’attività in concorso ponendo, pertanto, problemi di compatibilità con la disciplina del concorso di persone nel reato“.
2.1. Secondo la prima opzione interpretativa, che richiama a sostegno una parte della dottrina e della giurisprudenza, il medesimo fatto storico non può essere qualificato in termini diversi nei confronti dei coimputati, stante l’unicità del reato nel quale si concorre: in questi termini si sono pronunciate Sez. 4, n. 37732 del 05/05/2022, D’Aiello, non mass.; Sez. 4, n. 7098 del 27/01/2022, Pace, non mass.; Sez. 3, n. 3327 del 16/12/2021, dep. 2022, Farka, non mass.; Sez. 4, n. 30233 del 07/07/2021, D’Agostino, Rv. 281836-01; Sez. 4, n. 34413 del 18/06/2019, Khess, Rv. 276676-02.
È quella che in dottrina viene definita “concezione monistica del reato concorsuale“, in ragione della quale Sez. 4, n. 30233 del 07/07/2021, D’Agostino, cit., ha ritenuto che non sia consentita una diversa qualificazione giuridica del medesimo fatto storico sul mero presupposto che, in relazione a taluni coimputati, il singolo episodio si iscriva come reato-fine in un programma criminoso di stampo associativo.
In base a tale orientamento, a favore di detta interpretazione militerebbero il dato letterale dell’art. 110 cod. pen., la volontà chiaramente espressa dal legislatore, di cui vi è traccia nella Relazione del Guardasigilli al Progetto definitivo del codice Rocco, nonché l’interpretazione sistematica delle regole sulla compartecipazione criminosa quali desumibili dagli artt. 116 e 117 cod. pen.
Nel caso di cui all’art. 116 cod. pen. il legislatore prescrive espressamente che il correo che non abbia avuto di mira né abbia materialmente perpetrato il reato più grave deve comunque risponderne, non potendosi consentire una differenziazione dei titoli di responsabilità tra i diversi compartecipi. L’art. 117 cod. pen., a sua volta, prevede che anche l’extraneus che non si sia prospettato la possibilità di perpetrare il reato “proprio” debba, comunque, risponderne.
Pertanto, secondo tale primo orientamento, in caso di concorso in un medesimo episodio di detenzione o cessione illecita di sostanza stupefacente, identificata l’unica condotta tipica ascritta a più persone, la relativa qualificazione non potrebbe essere diversa per i concorrenti; in altri termini, lo stesso fatto non potrebbe essere qualificato ai sensi dell’art. 73, commi 1 o 4, T.U. stup. nei confronti di alcuni concorrenti e contemporaneamente ricondotto nell’ambito dell’art. 73, comma 5, del medesimo T.U. nei confronti di altri (così Sez. 4, n.37732 del 05/05/2022, D’Aiello, non mass.; Sez. 4, n.7098 de 27/01/2022, Pace, non mass.).
Nel medesimo solco ermeneutico viene sottolineato che la lieve entità caratterizza in modo oggettivo e globale la fattispecie, sicché tale qualifica non può dipendere da peculiarità soggettive di uno dei concorrenti, né configurarsi in modo frammentario rispetto soltanto ad alcuni di essi, salva la diversa determinazione del trattamento sanzionatorio per il singolo sulla base dei criteri dettati dall’art. 133 cod. pen., dall’art. 114 cod. pen. o dalle disposizioni in materia di recidiva (Sez. 4, n. 34413 del 18/06/2019, Khess, cit.).
Gli stessi sostenitori della teoria monistica, tra l’altro, pongono in rilievo come una diversa qualificazione giuridica del fatto sarebbe preclusa non solo dal principio dell’unità del reato concorsuale, ma anche dalle stesse caratteristiche della fattispecie descritta nel quinto comma nell’articolo 73 T U. stup. che, secondo la giurisprudenza di legittimità – e, in primis, Sez. U, n. 51063 del 27/09/2018, Muralo, Rv. 274076-01 – richiede al giudice una valutazione unitaria e globale nella quale confluiscano tutte le caratteristiche del fatto atte ad identificarne il disvalore oggettivo. Di tal che, proprio perché alla realizzazione del fatto contribuirebbe ciascuno dei concorrenti con la propria condotta, sarebbe necessario che il giudizio di lieve entità fosse il medesimo per tutti.
2.2. Accanto a questo primo indirizzo ed in contrapposizione dialettica con il medesimo, come ricorda ancora l’ordinanza di rimessione, se n’è formato un altro, che pure ha trovato conforto in una parte della dottrina, secondo cui dalla combinazione delle norme di parte speciale con quelle sul concorso di persone nel reato discendono tante fattispecie plurisoggettive differenziate quanti sono i concorrenti, che avrebbero in comune il medesimo nucleo di accadimento materiale, ma si distinguerebbero tra loro per l’atteggiamento psichico dell’autore (per ciascuna di esse, quello proprio del compartecipe interessato) e per taluni dati esteriori inerenti soltanto alla condotta, dell’uno o dell’altro compartecipe; di conseguenza, sarebbe ammissibile anche l’affermazione di responsabilità a diverso titolo per due o più dei diversi concorrenti.
È quella che la dottrina definisce “teoria della fattispecie plurisoggettiva eventuale o differenziata“, o concezione pluralistica del reato concorsuale, che avrebbe il pregio di essere calibrata sulla persona dell’autore piuttosto che sul fatto tipico di concorso.
Tale orientamento è stato sostenuto da Sez. 3, n. 20234 del 04/02/2022, Marcarini, Rv. 283203-01, Sez. 3, n. 16598 del 20/02/2020, Graziani, Rv. 27894501 e Sez. 6, n. 2157 del 09/11/2018, dep. 2019, Sarr, Rv. 274961-01, che hanno concordemente statuito che lo stesso fatto storico può essere ascritto a titolo diverso ai diversi concorrenti, qualora le condotte assumano connotazioni peculiari per ciascun correo: dunque, l’art. 110 cod. pen. avrebbe la funzione di disciplinare il fenomeno concorsuale rendendo applicabile ai concorrenti il regime delle circostanze del concorso e quello dell’estensione delle cause di giustificazione, essendo le condotte di alcuni partecipi già di per sé tipiche.
A favore di questo indirizzo interpretativo viene richiamato, tra gli altri, l’art. 112, ultimo comma, cod. pen., in base al quale le circostanze aggravanti previste dai numeri 1), 2) e 3) del primo comma del medesimo articolo “si applicano anche se taluno dei partecipi al fatto non è imputabile o non è punibile“. Si è osservato che tale norma, non specificando le ragioni per cui taluno dei concorrenti non sia imputabile o punibile, sembrerebbe ammettere la configurabilità del concorso di persone anche nel caso della non punibilità relativa e di una punibilità per un titolo diverso di reato che, unendosi a quello degli altri concorrenti, contribuisca alla produzione della medesima offesa tipica (Sez. 6, n. 2157 del 09/11/2018, dep. 2019, Dia, non mass).
Secondo i fautori di tale tesi la configurabilità di diversi titoli di responsabilità per i diversi concorrenti può trovare ulteriore conferma muovendo da implicazioni desumibili dai medesimi artt. 116 e 117 cod. pen. invocati da chi propende per la concezione monistica.
Ed invero, quanto all‘art. 116 cod. pen., tale orientamento individua nell’ipotesi ivi prevista una smentita del dogma dell’unitarietà del reato concorsuale, rilevando che la norma in questione introduce una ipotesi di carattere eccezionale per raggiungere un risultato che, ove dovesse trovare applicazione la generale disciplina del concorso di persone nel reato, non potrebbe essere raggiunto.
Ciò perché, in assenza dell’art. 116 cod. pen., il concorrente c.d. anomalo dovrebbe essere chiamato a rispondere del diverso delitto per colpa, ovviamente nella sola ipotesi in cui si tratti di fatto previsto dalla legge come delitto colposo: si avrebbe, così, l’imputazione del medesimo fatto ai coimputati sulla base di titoli di reato diversi.
Dunque, in tale ottica, la disciplina del concorso c.d. anomalo, lungi dall’essere riprova dell’esistenza di una generale regola di imputazione necessariamente unitaria del fatto concorsuale, introduce un’eccezione alla regola generale: regola generale che, contrariamente a quanto sostenuto dalla dottrina tradizionale, ed in armonia con il principio costituzionale di personalità della responsabilità penale, vuole che ai diversi coimputati, in presenza di aspetti peculiari che ne abbiano caratterizzato il contributo dal punto di vista dell’elemento materiale o di quello soggettivo, possano essere contestati diversi titoli di reato.
Quanto all’art. 117 cod. pen., si sottolinea che la giurisprudenza ha più volte evidenziato che la parificazione prevista da tale norma – applicabile solo quando il concorrente c.d. extraneus non abbia consapevolezza delle condizioni o delle qualità personali del concorrente c.d. intraneus, o dei rapporti fra questi e l’offeso, in presenza delle quali o dei quali muta il titolo di reato, perché altrimenti sarebbe configurabile il concorso per entrambi a norma dell’art. 110 cod. pen. – trova fondamento nella necessità di evitare che alcuni concorrenti siano puniti per un reato e altri per un diverso titolo unicamente perché hanno interferito particolari qualità di uno di essi o particolari rapporti di costui con la persona offesa (così, ad esempio, sin da epoche risalenti, Sez. 1, n. 7624 del 09/06/1981, Cerentino, Rv. 153500-01 e Sez. 3, n. 3557 del 22/12/1965, dep. 1966, Pugnoli, Rv. 100336-01).
Di conseguenza, quando il mutamento del reato è determinato da circostanze diverse da quelle costituite dalle condizioni o dalle qualità personali del colpevole, o dai rapporti fra il colpevole e l’offeso, e il soggetto a carico del quale è configurabile la responsabilità per la fattispecie meno grave non ha consapevolezza degli elementi qualificanti la vicenda in modo deteriore per l’altro concorrente, la “parificazione” del titolo di responsabilità non può verificarsi a norma dell’art. 110 cod. pen., né ex art. 117 cod. pen.; sarà semmai applicabile la disciplina di cui all’art. 116 cod. pen., sempre che ne sussistano i necessari presupposti, anche con riferimento al profilo soggettivo.
In tale ottica, l’inapplicabilità della disciplina di cui agli artt. 116 e 117 cod. pen., che ha la funzione di “aggravare” la responsabilità per uno o più dei concorrenti anche in deroga agli ordinari principi in tema di colpevolezza, non potrebbe, salvo l’ipotesi di diversa indicazione normativa, comportare addirittura una “parificazione” in mitius a vantaggio di uno o più di essi.
Le due disposizioni appena citate risulterebbero escludere, in linea generale, che l’istituto del concorso di persone nel reato possa dare luogo ad una mitigazione della responsabilità penale, e renderebbero, quindi, ragionevole, in caso di loro inapplicabilità, correlare il titolo della stessa, per ciascun agente, al fatto al medesimo riferibile oggettivamente e soggettivamente, nel rispetto del principio di cui all’art. 27, primo comma, Cost.
In base a tale orientamento, quindi, in tema di concorso di persone nel reato di cessione di stupefacenti, il medesimo fatto storico può essere ascritto a un imputato ai sensi dell’art. 73, comma 1, T.U. stup. e a un altro a norma dell’art. 73, comma 5, del medesimo T.U., qualora il contesto complessivo nel quale si colloca la condotta assuma caratteri differenti per ciascun coimputato (Sez. 3, n. 16598 del 20/02/2020, Graziani, Rv. 278945-01 e Sez. 6, n. 2157 del 09/11/2018, dep. 2019, Sarr, Rv. 274961-01).
Aderendo a tale impostazione Sez. 3, n. 20234 del 04/02/2022, Marcarmi, Rv. 283203-01, ha di recente affermato che il medesimo fatto storico può, dunque, essere ascritto a titolo diverso, qualora, tenendo conto della quantità di stupefacente trattato, nonché dei mezzi, delle modalità e delle circostanze dell’azione, la condotta assuma caratteri differenti per ciascun correo.
Il medesimo fatto di spaccio o di detenzione, dunque, si presta, in tale prospettiva, a essere qualificato diversamente per ciascun concorrente nel caso in cui le condotte di ogni partecipe siano apprezzabili in termini differenti. E in tal caso l’art. 110 cod. pen. ha la funzione di disciplina del fenomeno concorsuale, rendendo applicabile ai concorrenti il regime delle circostanze del concorso e quello dell’estensione delle cause di giustificazione, essendo le condotte di alcuni partecipi già di per sé tipiche.
A favore di tale conclusione deporrebbe il consolidato orientamento di legittimità che, in tema di riciclaggio, riconosce la configurabiiità di responsabilità a diverso titolo tra più concorrenti in relazione al medesimo fatto storico, rilevando che il soggetto non concorrente nel reato presupposto, il quale contribuisca alla realizzazione, da parte dell’autore di quest’ultimo, di condotte di autoriciclaggio, risponde di riciclaggio e non di concorso nel delitto di autoriciclaggio (Sez. 2, n. 17245 del 17/01/2018, Tucci, Rv. 272652-01).
- Così sinteticamente ricostruiti i due indirizzi esegetici, il Collegio rileva che i lavori preparatori del codice penale (ove può leggersi che “per aversi l’istituto del concorso, è necessario che tutti rispondano dello stesso reato”) e il tenore letterale dell’art. 110 ss. cod. pen., secondo cui si concorre “nel medesimo reato”, costituiscono altrettanti indici indicativi dell’adesione legislativa ad una concezione monistica del reato concorsuale.
Il “concorso” non è una nozione in sé conclusa dal punto di vista logico, ma è un concetto di relazione che ha bisogno di essere integrato da un preciso termine di riferimento, individuato dal legislatore nel reato, al quale fanno riferimento le più significative disposizioni comprese nel capo terzo del titolo quarto della parte generale del codice penale (non solo l’art. 110 cod. pen., del quale si è appena detto, ma anche le norme successive, laddove si parla di determinazione “a commettere un reato”, di “cooperazione nel delitto”, di istigazione “a commettere un reato”, di “reato commesso”, e così via).
Tuttavia, tali norme vanno lette e interpretate alla luce della giurisprudenza costituzionale che, come ricorda il più recente dibattito penalistico, propende per una responsabilità penale sempre più sviluppata in senso personalistico, al fine di ricondurre la condotta dei singoli al loro effettivo disvalore, ritenendo che ciò sia più conforme al modello costituzionale delineato dall’art. 27, primo comma, Cost.
Si tratta di un percorso ermeneutico inaugurato con la sentenza n. 42 del 1965 della Corte costituzionale che, nel dichiarare infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 116 cod. pen., in riferimento all’art. 27, primo comma, Cost., ebbe ad affermare come base della responsabilità ex art. 116 cod. pen. la sussistenza non soltanto del rapporto di causalità materiale, ma anche di un rapporto di causalità psichica, concepito nel senso che il reato diverso o più grave commesso dal concorrente deve potersi rappresentare alla psiche dell’agente, nell’ordinario svolgersi e concatenarsi dei fatti umani, come uno sviluppo logicamente prevedibile di quello voluto.
Si affermò in tal modo la necessità anche di un coefficiente di colpevolezza. Per tale motivo ebbe ad escludere “che l’art. 116 del codice penale importi una violazione del principio della personalità della responsabilità penale: principio che nella partecipazione psichica dell’agente al fatto trova la sua massima affermazione”.
Tali principi sono stati successivamente ribaditi ccn la sentenza n. 364 del 1988 cod. pen. laddove si è affermata la centralità e la insostituibilità del principio della colpevolezza che richiede come “essenziale requisito subiettivo (minimo) d’imputazione” uno specifico rapporto tra soggetto e fatto considerato nel suo integrale disvalore antigiuridico. Tale pronuncia ha riconosciuto la costituzionalizzazione del principio di colpevolezza, ponendone in primo piano la funzione di garanzia delle libere scelte d’azione, ed ha evidenziato che esso “più che completare, costituisce il secondo aspetto del principio di legalità”.
La sentenza della Corte costituzionale n. 1085 del 1988, nello stesso solco, ha affermato che, affinché “la responsabilità penale sia autenticamente personale, è indispensabile che tutti e ciascuno degli elementi che concorrono a contrassegnare il disvalore della fattispecie siano soggettivamente collegati all’agente (siano, cioè, investiti dal dolo o dalla colpa) ed è altresì indispensabile che tutti e ciascuno dei predetti elementi siano allo stesso agente rimproverabili”.
La recente pronuncia della Corte costituzionale n. 322 del 2007 pone in rilievo, a sua volta, che “il principio di colpevolezza non può essere sacrificato dal legislatore ordinario in nome di una più efficace tutela penale di altri valori, ancorché essi pure di rango costituzionale”, in quanto garanzia di “libere scelte d’azione sulla base di una valutazione anticipata (calcolabilità) delle conseguenze giuridico-penali della propria condotta”, cosicché “punire in difetto di colpevolezza, al fine di dissuadere i consociati dal porre in essere le condotte vietate (prevenzione generale negativa) o di neutralizzare il reo (prevenzione speciale negativa), implicherebbe… una strumentalizzazione dell’essere umano per contingenti obiettivi di politica criminale, contrastante con il principio personalistico affermato dall’art. 2 Cost.“.
- I principi generali sinora illustrati devono essere calati nel contesto della normativa in tema di stupefacenti, che ha subito nel tempo significativi mutamenti anche per quanto riguarda l’ipotesi disciplinata dall’art. 73, comma 5, che assume specifico rilievo in relazione al quesito sottoposto alle Sezioni Unite.
4.1. Con la legge 18 febbraio 1923, n. 396 recante “Provvedimenti per la repressione dell’abusivo commercio di sostanze velenose avente azione stupefacente” il legislatore inserì nell’ordinamento le disposizioni contenute nella Convenzione dell’Aja del 1912 (ratificata e posta in esecuzione dall’Italia con r.d. 9 febbraio 1922, n. 355). Poiché il bene giuridico tutelato era l’ordine sociale, non veniva sanzionato penalmente il mero uso di sostanze stupefacenti, e il consumatore di droga veniva sanzionato solo se avesse “preso parte 3 convegni in fumisterie”. Il regolamento di esecuzione varato con il r.d. 11 aprile 1929, n. 1086 definì più specificamente le varie ipotesi concernenti il commercio abusivo, inscrivendo nell’area sanzionatoria, oltre alla vendita vera e propria, l’importazione, l’esportazione, la fabbricazione e la ricezione in transito di sostanze stupefacenti.
4.2. Nel 1930, alle disposizioni già vigenti in forza della legge n. 396 del 1923 ne vennero affiancate altre quattro, inserite nel Codice Rocco: l’art. 446 cod. pen. puniva il commercio clandestino o fraudolento di sostanze stupefacenti; l’art. 447 cod. pen. l’agevolazione dolosa dell’uso di stupefacenti; l’art. 729 cod. pen. l’abuso delle sostanze stupefacenti, qualora il consumatore fosse stato colto a partecipare “a convegni in fumisterie” o in luoghi pubblici o equiparati in stato di grave alterazione psichica cagionata dall’uso di sostanze stupefacenti; l’art. 730 cod. pen., infine, sanzionava la somministrazione a minori di anni sedici di sostanze droganti o velenose da parte di soggetti non autorizzati alla vendita o al commercio di medicinali. Gli aspetti non penali rimanevano regolati dal Testo Unico delle leggi sanitarie, approvato con r.d. 27 luglio 1934 n. 1265.
Vennero, quindi, emanati il r.D.L. 15 gennaio 1934, n. 151, convertito dalla legge 7 giugno 1934, n. 1145 (che abrogò la legge n. 396 del 1923, ma non il relativo regolamento del 1929) e il Testo Unico delle leggi sanitarie (r.d. 27 luglio 1934, n. 1265), che regolò aspetti sottratti alla sanzione penale, per la quale, quindi restarono a regolare la materia le sopra indicate norme del codice penale.
4.3. Con la legge 22 ottobre 1954 n. 1041 vennero introdotte nuove figure di reato e la condotta del consumatore di droga venne equiparata a quella dello spacciatore. La normativa in questione prevedeva che sulla produzione, sul commercio e in relazione all’impiego delle sostanze e preparati ad azione stupefacente fosse esercitato un ampio ed approfondito controllo da parte dell’Alto Commissariato per l’igiene e la sanità (che sarebbe poi divenuto Ministero della sanità), oltre che a mezzo di un Ufficio centrale (che aveva per altro il compito di compilare ed aggiornare l’elenco delle sostanze stupefacenti previa pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale) e degli organi periferici quali i prefetti, le capitanerie di porto e i comandi di aeroporto. Le diverse fattispecie (“l’acquisto, la vendita, la cessione, l’esportazione, l’importazione, il passaggio in transito, il procurare ad altri, l’impiego o comunque la detenzione di uno dei preparati inclusi nel suddetto elenco”) venivano sanzionate ai sensi dell’articolo 6 senza distinzione tra qualità della sostanza e quantità della stessa.
4.4. Il legislatore rimise mano alla materia, con la legge 22 dicembre 1975, n. 685, connotata da maggiore organicità e completezza.
La nuova legge, superando la discussa equiparazione tra consumatore e spacciatore, dichiarò non punibile il consumatore o l’utilizzatore di droghe a fini terapeutici e non. L’art. 80 previde, infatti, che: “Non è punibile chi illecitamente acquista o comunque detiene sostanze stupefacenti o psicotrope di cui alle prime quattro tabelle dell’articolo 12, allo scopo di farne uso personale terapeutico, purché la quantità delle sostanze non ecceda in modo apprezzabile le necessità della cura, in relazione alle particolari condizioni del soggetto.
Del pari non è punibile chi illecitamente acquista o comunque detiene modiche quantità delle sostanze innanzi indicate per farne uso personale non terapeutico, o chi abbia a qualsiasi titolo detenuto le sostanze medesime di cui abbia fatto uso esclusivamente personale. Tuttavia, nel caso indicato dal primo comma, le quantità di sostanze eccedenti le immediate necessità curative debbono essere sequestrate e confiscate. Sono sempre soggette a sequestro ed a confisca le sostanze, nel caso indicato nel secondo comma”.
Con specifico riguardo alle attività di traffico di sostanze stupefacenti l’intervento legislativo s’incentrò sugli artt. 71 e 72.
Il primo puniva “chiunque, senza autorizzazione, produce, fabbrica, estrae, offre, pone in vendita, distribuisce, acquista, cede o riceve a qualsiasi titolo, procura ad altri, trasporta, importa, esporta, passa in transito o illecitamente detiene, fuori delle ipotesi previste dagli articoli 72 e 80”. Differenziava le sanzioni in base alle tabelle di classificazione delle sostanze stupefacenti (tabelle I e III dell’art. 12 per le c.d. droghe pesanti, tabella IV dell’art. 12 per quelle c.d. leggere). Il secondo e il terzo comma dell’art. 71 equiparavano le sanzioni per “chiunque, essendo munito dell’autorizzazione di cui all’articolo 15, illecitamente cede, mette o procura che altri metta in commercio le sostanze o le preparazioni indicate nel precedente comma” e “chiunque fabbrica sostanze stupefacenti o psicotrope diverse da quelle stabilite nel decreto di autorizzazione”.
L’articolo 72 prevedeva, a sua volta, un trattamento sanzionatorio meno severo, sempre differenziata tra “droghe pesanti” e “droghe leggere” nei confronti di: “Chiunque, fuori dalle ipotesi previste dall’articolo 80, senza autorizzazione o comunque illecitamente, detiene, trasporta, offre, acquista, pone in vendita, vende, distribuisce o cede, a qualsiasi titolo, anche gratuito, modiche quantità di sostanze stupefacenti o psicotrope…”.
4.5. L’indeterminatezza della nozione di modica quantità e i significativi spazi di discrezionalità attribuiti all’interprete motivarono l’ulteriore intervento normativo ad opera della legge 26 giugno 1990, n. 162 che apportò sensibili mutamenti alla legge n. 685 del 1975 e, preso atto della molteplicità delle fonti normative e animata dall’intento di delineare un assetto organico e coordinato della disciplina in materia di stupefacenti, previde la delega al Governo per l’elaborazione di un testo unico, compendiato nel D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309.
Nel nuovo testo unico le sostanze stupefacenti furono divise in quattro tabelle, previste agli artt. 13 e 14, che classificavano le c.d. droghe leggere (tabelle II e IV) e le c.d. droghe pesanti (tabelle I e III). Anche il regime sanzionatorio previsto era differente a seconda del tipo di droga: per le droghe c.d. pesanti erano prevista la reclusione da otto a venti anni e la multa da cinquanta a cinquecento milioni di lire; per le droghe c.d. leggere, invece, la reclusione era da due a sei anni e la multa da dieci a centocinquanta milioni di lire.
La più importante novità della novella legislativa del 1990 fu l’eliminazione della nozione di “modica quantità” e la sua sostituzione con quella di “dose media giornaliera” (art. 73), quale criterio distintivo tra le condotte penalmente rilevanti e quelle idonee ad integrare soltanto un illecito amministrativo (art. 75). La “dose media giornaliera” venne individuata in un quantitativo variabile a seconda della natura e della tipologia di sostanza stupefacente oggetto dell’attività criminosa.
Le condotte, in precedenza disciplinate dagli artt. 71 e 72, vennero ricomprese in un’unica disposizione (l’art. 73) che sanzionava “chiunque senza l’autorizzazione di cui all’articolo 17, coltiva, produce, fabbrica, estrae, raffina, vende, offre o mette in vendita, cede o riceve a qualsiasi titolo, distribuisce, commercia, acquista, trasporta, esporta, importa, procura ad altri, invia, passa o spedisce in transito, consegna per qualunque scopo o comunque illecitamente detiene, fuori dalle ipotesi previste dagli articoli 75 e 76, sostanze stupefacenti o psicotrope”. Il primo comma della citata disposizione prevedeva una sanzione maggiormente afflittiva per le c.d. droghe pesanti di cui alle tabelle I e III ed il quarto comma una più lieve per le c.d. droghe leggere di cui alle tabelle II e IV. Il quinto comma prevedeva una circostanza attenuante, comportante una pena ancora una volta differenziata in relazione alla diversa tipologia delle sostanze stupefacenti, quando “per i mezzi, per la modalità o le circostanze dell’azione ovvero per la qualità e quantità delle sostanze” i fatti previsti fossero “di lieve entità“.
Il concetto di dose media giornaliera fu, da subito, oggetto di vivaci critiche in sede dottrinaria, attesa la presunzione assoluta di detenzione ai fini di spaccio, in caso di superamento del limite tabellare.
Il criterio della dose media giornaliera, tuttavia, fu ritenuto legittimo dalla Corte costituzionale che lo definì “utile strumento di contrasto al traffico illecito di stupefacenti, idoneo quantomeno a rallentarlo se non a paralizzarlo” (Corte cost. sent. n. 133 del 1992).
La disciplina introdotta nel 1990 fu oggetto di un referendum abrogativo di iniziativa popolare, i cui esiti furono recepiti con il successivo D.P.R. 5 giugno 1993, n. 71 che eliminò la nozione di “dose media giornaliera”, rimettendo all’interprete la valutazione circa la destinazione all’uso personale oppure alla cessione a terzi del quantitativo di droga detenuto.
La giurisprudenza elaborò gli indici sintomatici alla cui stregua effettuare la valutazione prognostica della destinazione della sostanza alla cessione a terzi.
Sez. U, n. 4 del 28/05/1997, Iacolare, Rv. 208217-01, preso atto che, per effetto dell’esito referendario (D.P.R. 5 giugno 1993, n. 171), era caduta “qualsiasi limitazione quantitativa come distinzione tra l’ambito penale e quello amministrativo per le ipotesi di importazione, acquisto e detenzione di sostanze stupefacenti per uso personale” chiarirono che la valutazione prognostica della destinazione della sostanza, ogni qual volta la condotta non fosse correlabile al consumo in termini di immediatezza, dovesse essere effettuata dal giudice “tenendo conto di tutte le circostanze soggettive ed oggettive del fatto, cori apprezzamento di merito sindacabile in sede di legittimità solo in rapporto ai vizi di cui alla lett. e) dell’art. 606 cod. proc. pen”.
Nell’affermare detto principio Sez. U. Iacolare precisarono che indici sintomatici della finalità di spaccio – da apprezzarsi parimenti sia nella detenzione individuale che in quella di gruppo – potevano essere rappresentati dalla quantità, qualità e composizione della sostanza, anche in relazione alle condizioni di reddito del detentore e del suo nucleo familiare, nonché dalla disponibilità da parte dell’agente di attrezzature per la pesatura o di mezzi per il confezionamento delle dosi.
4.6. Con il successivo D.L. 30 dicembre 2005 n. 272, convertito con modificazioni dalla legge 21 febbraio 2006, n. 49, che novellò gli artt. 73 e 75 del D.P.R. n. 309 del 1990, vennero nuovamente ridefiniti gli elementi costitutivi del delitto di cui all’art. 73, inasprite le sanzioni relative alle condotte di produzione, traffico, detenzione illecita ed uso di sostanze stupefacenti e fu abolita la distinzione tra le c.d. droghe pesanti e le c.d. droghe leggere, equiparate quanto a trattamento sanzionatorio.
Tale equiparazione comportò un severo inasprimento ex lege per le condotte illecite aventi ad oggetto le c.d. droghe leggere, punite con la pena della reclusione ricompresa tra un minimo di sei anni ed un massimo di venti, oltre che con la multa da 26.000 a 260.000 euro; viceversa, le condotte aventi ad oggetto le c.d. droghe pesanti subirono un’attenuazione del trattamento sanzionatorio, passando da un minimo di otto anni ed un massimo di venti anni di reclusione, oltre la multa da 25.822 a 309.874 euro, ad una pena edittale minima di sei anni e massima di venti anni di reclusione, oltre la multa da 26.000 a 260.000 euro.
La legge n. 49 del 2006 introdusse la distinzione tra condotte la cui rilevanza penale prescindeva da ogni considerazione finalistica della condotta stessa (coltivazione, produzione, estrazione, fabbricazione, raffinazione, vendita, offerta, messa in vendita, cessione, distribuzione, commercializzazione, trasporto, procacciamento ad altri, invio, consegna, passaggio, spedizione in transito: art. 73, comma 1), e condotte c.d. neutre (in primis, la detenzione di stupefacente oltre un determinato quantitativo, parametrato ex lege al principio attivo), in cui il fatto veniva ritenuto penalmente rilevante solo se lo stupefacente non fosse destinato esclusivamente ad uso personale, e per le quali, necessitava la prova concreta della destinazione, almeno in parte, a terzi (art. 73, comma 1 -bis).
Con la nuova disciplina si assistette alla normativizzazione (art. 73, comma 1 lett. a)) dei criteri già in precedenza utilizzati dalla giurisprudenza per discernere le finalità illecite di una detenzione “destinata ad un uso non esclusivamente personale”: la quantità della sostanza (con particolare riferimento al peso complessivo), le modalità di confezionamento della stessa e il frazionamento in dosi e tutte le circostanze dell’azione. Tra queste, pacificamente, venivano valutate anche quelle di natura soggettiva, quali, ad esempio, le condizioni economiche dell’imputato o la sua tossicodipendenza (cfr. ex multis Sez. 4 n. 22643 del 21/05/2008, Frazzitta, Rv. 240854-01; Sez. 6, n. 17899 del 29/01/2008, Cortucci, Rv. 23993201).
4.7. La riforma del 2006, con la discussa equiparazione in termini di sanzione tra ed. droghe pesanti e c.d. droghe leggere, sollevò unanimi critiche da gran parte della dottrina che la ritenne confliggente con il diritto dell’Unione europea. In particolare, se ne sottolineò la distonia con la Decisione Quadro 2004/757/GAI del Consiglio europeo del 25 ottobre 2004, riguardante la fissazione di norme minime relative agli elementi costitutivi dei reati e alle sanzioni applicabili in materia di traffico illecito di stupefacenti, che suggeriva il rispetto della proporzionalità delle pene (art. 4) che comportava un trattamento sanzionatorio più severo solo per le condotte illecite aventi ad oggetto grandi quantitativi di stupefacenti o connotate dall’utilizzo di sostanze particolarmente dannose per la salute.
La legge n. 49 del 2006 venne dichiarata incostituzionale dalla Corte costituzionale (sentenza n. 32 del 2014) che ritenne gli artt. 4-bis e 4-vicies ter, del decreto-legge 30 dicembre 2005, n. 272, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 21 febbraio 2006, n. 49. in contrasto con l’art. 77, secondo comma, Cost., in quanto la nuova disciplina era stata introdotta nell’ambito di un provvedimento normativo riguardante la sicurezza e i finanziamenti per le Olimpiadi. Fu, quindi, ritenuta palese la profonda distonia di contenuto, finalità e ratio del decreto-legge rispetto alle citate nuove norme introdotte in sede di conversione.
La Corte rilevò, infatti, che “nel caso di specie, l’unica previsione del decreto-legge alla quale potrebbero riferirsi le disposizioni impugnate introdotte dalla legge di conversione, è l’art. 4, che mira a impedire l’interruzione del programma di recupero di determinate categorie di tossicodipendenti recidivi”.
Evidenziò, tuttavia, che “l’art. 4 contiene norme di natura processuale, attinenti alle modalità di esecuzione della pena, il cui fine è quello di impedire l’interruzione dei programmi di recupero dalla tossicodipendenza”, mentre “non così ‘e impugnate disposizioni di cui agli artt. 4-bis e 4-vicies ter, introdotte dalla legge di conversione, le quali invece riguardano gli stupefacenti e non la persona del tossicodipendente… sono norme a connotazione sostanziale, e non processuale, perché dettano la disciplina dei reati in materia di stupefacenti”. La conclusione fu, dunque, che si trattava “di fattispecie diverse per materia e per finalità, che denotano la evidente estraneità delle disposizioni censurate, aggiunte in sede di conversione, rispetto ai contenuti e alle finalità del decreto-legge in cui sono state inserite”.
La Corte costituzionale, in termini espliciti, indicò che, una volta dichiarata l’illegittimità costituzionale delle disposizioni impugnate, tornava ad applicarsi la disciplina in materia di stupefacenti contenuta nel D.P.R. n. 309 del 1990, nella versione precedente alla novella del 2006, non essendosi validamente verificato l’effetto abrogativo.
In tal modo si profilava, però, un inasprimento di pena per le c.d. droghe pesanti, in quanto la disposizione contenuta nella legge del 1990 prevedeva per tali fattispecie la reclusione da otto a venti anni (oltre la multa), mentre la disposizione contenuta nella legge del 2006 dichiarata incostituzionale) prevedeva la reclusione da sei a venti anni (oltre la multa).
La Corte costituzionale, nella citata sentenza n. 32 del 2014, ribadì in proposito che gli eventuali effetti in malam partem di una decisione della Corte non precludono l’esame nel merito della normativa impugnata. Con riguardo agli effetti sui singoli imputati, evidenziò che spettava al giudice comune, quale interprete delle leggi, “impedire che la dichiarazione di illegittimità costituzionale andasse a detrimento della loro posizione giuridica, tenendo conto dei principi in materia di successione di leggi penali nel tempo ex art. 2 cod. pen., che implica l’applicazione della norma penale più favorevole al reo”.
Con la successiva sentenza n. 40 del 2019, la Corte costituzionale dichiarò l’illegittimità costituzionale dell’art. 73, comma 1, T.U. stup. nella parte in cui in cui prevedeva la pena minima edittale della reclusione nella misura di otto anni anziché di sei anni. Il giudice delle leggi osservò che era “rimasto inascoltato il pressante invito rivolto al legislatore affinché procedesse a soddisfare il principio di necessaria proporzionalità del trattamento sanzionatorio, risanando la frattura che separa le pene previste per i fatti lievi e per i fatti non lievi”.
- Per quello che rileva in questa sede, occorre, a questo punto, soffermarsi sul “fatto di lieve entità”, introdotto, come detto, nell’ordinamento dal legislatore del 1990, all’art. 73, comma 5, T.U. stup., quale circostanza attenuante ad effetto speciale (Sez. U., n. 35737 del 24/06/2010, Rico, Rv. 207917-01; Sez. 4 n. 4240 del 16/04/1997, Bettoschi, Rv. 207917-01).
Nella originaria formulazione (legge n. 162 del 1990) la norma prevedeva anche per i casi in cui “per i mezzi, la modalità o le circostanze dell’azione ovvero per la qualità o quantità delle sostanze” i fatti previsti dall’art. 73 T.U. stup. fossero “di lieve entità” una diversificazione di pena tra c.d. droghe leggere e c.d. droghe pesanti, stabilendo la reclusione da uno a sei anni e la multa da cinque a centocinquanta milioni di Lire per le prime e da sei mesi a quattro anni e da due a venti milioni di Lire per le seconde.
Anche per il “fatto lieve” tale distinzione fu superata dal D.L. 30 dicembre 2005 n. 272, convertito con modificazioni dalla legge 21 febbraio 2006, n. 49 che previde un’unica sanzione, indipendente dal tipo di sostanze stupefacenti, da uno a sei anni di reclusione e da 3.000 a 26.000 Euro di multa.
L’articolo 73, comma 5, T.U. stup. fu trasformato in ipotesi autonoma di reato dall’art. 2 D.L. 24 dicembre 2013, n. 146, convertito, con modificazioni, dalla legge 21 febbraio 2014, n. 10, che incise anche sui limiti edittali massimi (ridotti da sei a cinque anni di reclusione), lasciando inalterata sia la pena detentiva minima (un anno di reclusione) che quella pecuniaria.
Tale intervento normativo si rese necessario per adempiere all’obbligo – prescritto dalla sentenza della Corte EDU, 8 gennaio 2013, Torreggiai e altri c. Italia – di adottare incisive riforme per ridurre la presenza, fra la popolazione carceraria, dei soggetti tossicodipendenti, assai spesso detenuti a seguito della commissione di reati in materia di stupefacenti di contenuta gravità e assicurare migliori condizioni di vita penitenziaria.
La natura di reato autonomo della fattispecie è desumibile: 1) dalla Relazione di accompagnamento alla legge di conversione, ove si legge che “a fronte di ipotesi di allarme sociale generalmente contenuto, quali, a titolo esemplificativo, quelle riconducibili al cosiddetto ‘piccolo spaccio di strada’, che, in base all’esperienza giudiziaria, nella maggior parte dei casi è praticato dagli stessi consumatori, si ritiene ragionevole e conforme al principio di proporzionalità della pena, prevedere una fattispecie di reato con una disciplina sanzionatoria autonoma rispetto alle ipotesi tipizzate nei primi quattro commi dell’art. 73 del Testo Unico”; 2) dalla rubrica dell’art. 2 del D.L. n. 146 del 2013 (“delitto di condotte illecite in tema di sostanze stupefacenti o psicotrope di lieve entità”); 3) dalla clausola di riserva contenuta nel quinto comma, che, facendo riferimento ad un “più grave reato”, presuppone che il fatto di lieve entità sia esso stesso un reato; 4) dalla tecnica di formulazione della norma, che, prevedendo un soggetto attivo (“chiunque”) ed una condotta (“commette”), mutua il lessico proprio delle disposizioni autonomamente incriminatrici; 5) dall’intervenuta modifica, in sede di conversione del decreto legge, di alcune norme richiamanti quella novellata (ad esempio, l’art. 380, comma 2, lett. h), cod. proc. pen., nel quale l’inciso “salvo che ricorra la circostanza prevista dal comma 5 del medesimo articolo” è stato sostituito dall’inciso “salvo che per il caso dei delitti di cui al comma 5 del medesimo articolo”).
La giurisprudenza di questa Corte, sulla base degli argomenti in precedenza riassunti, ritiene pacificamente che, dopo la novella del 2013, l’art. 73, comma 5, T.U. stup. costituisca una figura autonoma di reato (cfr. ex multis Sez. 4, n. 36078
del 06/07/2017, Dubini, Rv. 270806-01; Sez. 4, n. 7363 del 09/01/2014, Fazio, Rv. 259280-01).
Come rilevano in motivazione Sez. U, n. 51063 del 27/09/2018, Murolo, Rv. 274076-01 la norma in argomento è divenuta fondamentale “strumento di ‘riequilibrio’ e ‘riproporzionamento’ del sistema sanzionatorio in materia di stupefacenti in relazione a casi concreti nei quali, per la complessiva non gravità della condotta, il principio di offensività verrebbe sostanzialmente ‘tradito’ applicando le più severe pene previste per le ipotesi diverse dal comma 5 dello stesso art. 73 T.U. stup.”.
L’avvenuta trasformazione da circostanza attenuante ad ipotesi autonoma di reato non ha comportato alcun mutamento nei caratteri costitutivi del fatto di lieve entità, che continua ad essere configurabile nelle ipotesi di minima offensività penale della condotta, deducibile sia dal dato qualitativo e quantitativo, sia dagli altri parametri richiamati dalla disposizione (mezzi, modalità, circostanze dell’azione).
Sottraendo il fatto di lieve entità al giudizio di comparazione il legislatore ha voluto assicurare all’imputato che la cornice edittale di partenza, sulla quale operare aumenti e/o diminuzioni per aggravanti, attenuanti e riti speciali, sia sempre e comunque quella del quinto comma della norma incriminatrice, oltre che preservare la possibilità di ottenere – ricorrendone i presupposti – la sostituzione della pena con il lavoro di pubblica utilità.
Dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 32 del marzo 2014, di poco successiva alla novella di cui alla legge n. 10 del 2011, ci si era domandati se anche il “fatto lieve” di cui all’art. 73, comma 5, T.U. stup. potesse essere interessato dalla pronuncia del giudice delle leggi, in considerazione della sua sopravvenuta disomogeneità rispetto alle condotte previste nei commi precedenti: mentre, infatti, le prime si basano nuovamente sulla distinzione tra droghe c.d. leggere e droghe c.d. pesanti e prevedono un trattamento sanzionatorio fortemente differenziato sulla base di questo presupposto, il nuovo quinto comma ignora tale distinzione, uniformando il trattamento sanzionatorio per tutte le condotte.
La lettura delle motivazioni della sentenza n. 32 del 2014 ha consentito, tuttavia, di fugare ogni dubbio, imponendo di concludere per la sopravvivenza di tale disposizione. Secondo la Corte costituzionale, infatti, le norme successive alla legge n. 49 del 2006 destinate a cadere per effetto della dichiarazione di illegittimità sono solo quelle che siano “divenute prive del loro oggetto, in quanto rinviano a disposizioni caducate”.
E tale non è stato ritenuto il quinto comma, per il quale manca quel carattere di dipendenza dalla norma dichiarata incostituzionale, che il giudice delle leggi pone a base dell’effetto di “caducazione a cascata”. Ciò viene affermato espressamente dalla Corte costituzionale, che nella sentenza n. 32 del 2014 argomenta che “gli effetti del presente giudizio di legittimità costituzionale non riguardano in alcun modo la modifica disposta con il decreto legge n. 146 del 2013… in quanto stabilita con disposizione successiva a quella qui censurata e indipendente da quest’ultima”.
Il D.L. 16 maggio 2014, n. 79, convertito, con modificazioni, dalla legge 16 maggio 2014, n. 79 ha successivamente ridotto per l’art. 73, comma 5, T.U. stup. sia la pena detentiva (prevedendo una pena da sei mesi a quattro anni di reclusione) che quella pecuniaria (con una pena da 1.032 a 10.329 euro).
Il D.L. 15 settembre 2023, n. 123, convertito, con modificazioni, dalla legge 13 novembre 2023, n. 159, è intervenuto, infine, sulla pena detentiva edittale massima, ricondotta al medesimo livello (cinque anni di reclusione) già previsto dal D.L. n. 146 del 2013, ed ha aggiunto un periodo finale al testo della disposizione, che prevede un trattamento sanzionatorio più grave per le condotte “non occasionali”.
Il testo attualmente vigente dell’art. 73, comma 5, T.U. stup. è, pertanto, il seguente: “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque commette uno dei fatti previsti dal presente articolo che, per i mezzi, la modalità o le circostanze dell’azione ovvero per la qualità e quantità delle sostanze, è di lieve entità, è punito con le pene della reclusione da sei mesi a cinque anni e della multa da Euro 1.032 a Euro 10.329. Chiunque commette uno dei fatti previsti dal primo periodo è punito con la pena della reclusione da diciotto mesi a cinque anni e della multa da Euro 2.500 a Euro 10.329, quando la condotta assuma caratteri di non occasionalità”.
Nessuna delle descritte novelle ha inciso sui presupposti applicativi dell’istituto, rimasti inalterati fin dalla originaria formulazione della norma: i parametri che l’art. 73, comma 5, T.U. stup. considera sintomatici di un’offesa attenuata agli interessi protetti dalla norma, ovvero la salute collettiva e l’ordine e la sicurezza pubblici, continuano, così, a riguardare, per un verso, l’oggetto materiale del reato (quantità e qualità delle sostanze), e, per altro verso, l’azione, e dunque i mezzi, le modalità e le altre circostanze della stessa.
La scelta del reato autonomo si è palesata come irreversibile con il D.L. n. 123 del 2023, cit., che ha inteso ritagliare all’interno della fattispecie (autonoma) di lieve entità una fattispecie circostanziata di reato nel “fatto lieve non occasionale”, in quanto, a fronte dell’identica descrizione del fatto, sostanzialmente operata per relationem, unico elemento circostanziale è appunto la non occasionalità della condotta (dei criteri adottati da giurisprudenza e dottrina per accertare la volontà legislativa in ordine alla qualificazione circostanziale o costitutiva di una fattispecie, quando essa non sia espressamente manifestata, danno conto Sez. U, n. 26351 del 26/06/2002, Fedi, Rv. 221663-01, sub par. 7 della motivazione).
Peraltro, secondo la giurisprudenza di legittimità formatasi in epoca precedente la modifica del 2023, la non occasionalità non è ostativa alla qualificazione del fatto ai sensi dell’art. 73, comma 5, T.U. stup., come desumibile anche – in presenza di tutti i presupposti – dalla previsione di cui all’art. 74, comma 6, T.U. stup. (si vedano la recente Sez. 6, n. 11896 del 20/2/2023, Bile, non mass.; Sez. 3, n. 14017 del 20/02/2018, Caltabiano, Rv. 272706-01 che ha affermato che il fatto di lieve entità non è in astratto incompatibile con lo svolgimento di attività di spaccio non occasionale e continuativa; Sez. 6, n. 46627 del 20/10/2016, Bare, non mass.; Sez. 3 n. 20410 del 27/03/2015, Marangione, non mass, che ha chiarito che la minima attività rudimentale sinonimo di una non occasionalità della condotta di spaccio o detenzione dello stupefacente non è di per sé ostativa ad una valutazione del fatto in termini di minima offensività).
Deve essere evidenziato che la previsione di cui all’art. 73, comma 5, T.U. stup. quale reato autonomo costituisce un unicum rispetto ad un sistema di diritto penale sostanziale in cui tutte le altre fattispecie di lieve entità del fatto (si pensi all’art. 648, comma 4, cod. pen. in materia di ricettazione; all’art. 5 legge 2 ottobre 1967, n. 895 in materia di armi; all’art. 609-bis comma 3 cod. pen. in tema di violenza sessuale; all’art. 311 cod. pen. in materia di delitti contro la personalità dello Stato; all’art. 323-bis cod. pen. in materia di reati contro la pubblica amministrazione) sono costruite come ipotesi circostanziali.
Con gli interventi susseguitisi a partire dal 2013 il legislatore ha creato una peculiare ipotesi di reato autonomo, che vive di elementi accessori circostanziali. Mentre il primo e il quarto comma dell’art. 73 hanno un nucleo comune attinente alla violazione più grave, il quinto comma della medesima disposizione individua una serie di elementi secondari e accidentali (qualità e quantità delle sostanze, mezzi, modalità, circostanze dell’azione) che, come osservato da una parte della dottrina, non definiscono normalmente la struttura del reato.
È stata, dunque, la trasformazione dell’art. 73, comma 5, T.U. stup. da circostanza in ipotesi autonoma di reato a rendere necessaria la rielaborazione dei principi tradizionalmente affermati in materia di condotte concorsuali aventi ad oggetto sostanze stupefacenti. Prima di quel momento, si era ritenuto possibile riconoscere la circostanza attenuante del fatto lieve solo ad alcuni dei concorrenti nel medesimo reato, in applicazione del principio consolidato (cfr. Sez. 1, n. 10233 del 18/12/1987, dep. 1988, Berardi; Rv. 179471-01; Sez. 2, ordinanza n. 3866 del 29/11/1977, dep. 1978, Betti, Rv. 138014-01) in base al quale attenuanti e diminuenti possono avere riconoscimento differenziato tra coimputati a seconda della specifica posizione personale, senza determinare alcuna disparità di trattamento, spettando al giudice verificare la sussistenza delle condizioni stabilite dalla legge e riconoscerle, in presenza dei relativi presupposti, in favore della persona che le invoca.
La nuova natura dell’art. 73, comma 5, T.U. stup. ha, quindi, portato giurisprudenza e dottrina ad interrogarsi sulla possibilità che, in caso di realizzazione plurisoggettiva del delitto contemplato da tale norma, il fatto possa essere ritenuto “lieve” soltanto nei confronti di alcuni concorrenti.
- La soluzione della questione controversa deve tenere conto dei caratteri strutturali dell’art. 73 T.U. stup. che disciplina ben ventidue diverse condotte, tra loro alternative, come univocamente sostenuto da dottrina e giurisprudenza, e come ribadito da Sez. U, n. 51063 del 27/09/2018, Murolo, Rv. 274076-01.
Non si tratta di una disposizione a più norme, in quanto, come affermato da Sez. U, n. 51063 del 27/09/2018, Murolo, cit. “ognuno dei primi cinque commi contiene… una norma a più fattispecie, atteso che negli stessi vengono tipizzate modalità alternative di realizzazione di un medesimo reato, come pacificamente riconosciuto dalla consolidata giurisprudenza di legittimità che esclude la configurabilità di una pluralità di reati nel caso di realizzazione da parte dello stesso agente, nel medesimo contesto e con riguardo allo stesso oggetto materiale, di più condotte tra quelle descritte dalle singole disposizioni”.
Sez. U, Murolo, indipendentemente dalla realizzazione mono o plurisoggettiva, hanno, quindi, precisato che “non è dubbio che condotte consumate in contesti diversi – e che non abbiano ad oggetto il medesimo quantitativo di stupefacente o una sua partizione – realizzano fatti autonomi e che, qualora uno di essi possa essere qualificato di lieve entità, i reati rispettivamente integrati concorrono e, sussistendone i presupposti, possono essere unificati ai fini ed ai sensi dell’art. 81, secondo comma, cod. pen., anche a prescindere dalla omogeneità od eterogeneità delle sostanze che ne costituiscono l’oggetto”.
Hanno, altresì, chiarito che: “La consumazione in tempi diversi ma in unico contesto di più condotte tipiche (inevitabilmente diverse tra loro) in riferimento al medesimo oggetto materiale (inteso nella sua identità naturalistica) integra… un unico fatto di reato, atteso che… quelle contenute nei commi 1 e 4 dell’art. 73 T.U. stup. sono norme miste alternative.
La loro eventuale convergenza con la disposizione del comma 5 sull’unico fatto configurabile determina poi un concorso apparente tra norme incriminatrici che, come pure si è già illustrato, deve essere risolto in favore di quest’ultimo qualora il fatto medesimo venga ritenuto di lieve entità“.
Dunque, tenuto fermo il principio che in caso di realizzazione da parte dello stesso soggetto di più condotte tra quelle alternativamente delineate dall’art. 73 T.U. stup. prevale quella che contiene logicamente le altre, a diverse conclusioni si deve pervenire allorquando le diverse ed alternative condotte siano poste in essere da plurimi soggetti concorrenti.
Sul punto la giurisprudenza consolidata di questa Corte riconosce la possibilità di una diversa qualificazione giuridica delle condotte dei concorrenti: “Soccorre la natura di reato a più condotte tipiche in cui si sostanzia l’ipotesi delittuosa disciplinata dall’art. 73 T.U. stup., cosicché si può ritenere possibile individuare distinti reati quante volte le differenti azioni tipiche (acquisto, trasporto, detenzione, vendita, offerta in vendita, cessione ecc.) siano distinte sul piano ontologico, cronologico, psicologico e funzionale. Solo in questo caso sarà possibile attribuire alle condotte poste in essere dai coimputati nell’ambito di un medesimo contesto una diversa qualificazione giuridica” (Sez. 4, n. 30233 del 07/07/2021, D’Agostino, Rv. 281836-01).
E, nello stesso solco, Sez. 4, n. 6648 del 26/01/2022, Pintore, non mass., afferma che “è possibile individuare distinti reati quante volte le differenti azioni tipiche (acquisto, trasporto, detenzione, vendita, offerta in vendita, cessione ecc.) siano distinte sul piano ontologico, cronologico, psicologico e funzionale“.
Conseguenzialmente, come afferma Sez. 4, n. 22212 del 03/03/2021, Comes, non mass, “la condotta del venditore, soggetto dotato di maggiori contatti e canali di approvvigionamento, il quale svolge professionalmente e reiteratamente la sua attività, può essere ritenuta più grave, mentre quella dell’acquirente, in quanto limitata a quantitativi singoli, più sporadica nel tempo e sganciata da stabili rapporti con i grandi canali di approvvigionamento della criminalità organizzata, può essere qualificata di minore gravità“.
- Il reale perimetro del contrasto concerne, invece, quelle ipotesi – come quella in esame – in cui la contestazione ponga a carico dei concorrenti, spesso in termini generici, la medesima condotta tipica.
È il caso dei capi d’imputazione Al), A14) e U2) nei quali, agli imputati si contesta di avere, in concorso tra loro, rispettivamente detenuto un imprecisato quantitativo e tipo di stupefacente destinato allo spaccio al dettaglio (Al), ceduto del non meglio precisato stupefacente a P.P. (A14), ceduto 6,3 grammi lordi di cocaina a V.V. (U2).
A giudizio delle Sezioni Unite, in relazione al delitto di cui all’art. 73, commi 1 e 4, T.U. stup., il medesimo fatto ascritto a diversi imputati può essere contestualmente suscettibile di qualificazioni giuridiche diverse, quando, all’esito di una valutazione complessiva, emerga che le condotte di alcuni compartecipi esprimono un diverso grado di disvalore oggettivo e soggettivo.
Dunque, quando il contributo fornito da uno dei coimputati si caratterizzi per mezzi, modalità e/o altre circostanze rivelatore di un più tenue livello di offesa ai beni giuridici protetti, per lui solo potrà intervenire la derubricazione del fatto nell’ipotesi lieve di cui all’art. 73, comma 5, T.U. stup.
Tale conclusione non mette in discussione la persistente validità, in termini sistematici generali, della concezione unitaria del reato concorsuale, in quanto le norme di cui al primo e al quarto comma, da un lato, e quella di cui al quinto comma dell’art. 73, dall’altro, si pongono tra loro in rapporto di specialità ai sensi dell’art. 15 cod. pen., nel senso che le prime due hanno carattere di norma generale e la terza di norma speciale.
La norma speciale è concordemente individuata in “quella che contiene tutti gli elementi costitutivi della norma generale e che presenta uno o più requisiti propri e caratteristici, che hanno appunto funzione specializzante, sicché l’ipotesi di cui alla norma speciale, qualora la stessa mancasse, ricadrebbe nell’ambito operativo della norma generale” (Sez. U, n. 22225 del 19/01/2012, Micheli, Rv. 252453-05; Sez. U, n. 1235 del 28/10/2010, dep. 2011, Giordano, Rv. 24886401).
Tuttavia, nel tempo la giurisprudenza di questa Corte ha differenziato i criteri alla cui stregua effettuare la preliminare operazione di raffronto tra le norme onde ricavare, o meno, appunto, la “ricomprensione” dell’una nell’altra.
In alcune iniziali pronunce si è fatto riferimento alla necessità di guardare alla identità del bene giuridico tutelato (Sez. U, n. 9568 del 21/04/1995, La Spina, Rv. 202011-01), mentre successivamente si è affermata la necessità di avere riguardo al confronto tra le fattispecie astratte.
Secondo gli approdi da considerare ormai stabilizzati e reiteratamente espressi dalle Sezioni Unite, il criterio di specialità è da intendersi in senso logico formale: il presupposto della convergenza di norme, necessario perché risulti applicabile la regola relativa alla individuazione della disposizione prevalente, può ritenersi integrato “solo in presenza di un rapporto di continenza tra le stesse alla cui verifica deve procedersi attraverso il confronto strutturale tra le fattispecie astratte rispettivamente configurate mediante la comparazione degli elementi costitutivi che concorrono a definire le fattispecie stesse” (Sez. U. n. 20664 del 23/02/2017, Stalla, Rv. 269668-01; Sez. U, n. 1235 del 28/10/2010, dep. 2011, Giordano; Sez. 5, n. 2121 del 17/11/2023, Sioli, Rv. 285843-01; Sez. 1, n. 12340 del 15/11/2022, dep. 2023, Baldassarre, Rv. 284504-01).
Anche la Corte costituzionale, in più occasioni, ha affermato la natura strutturale del principio di specialità ex art. 15 cod. pen., che implica la “convergenza su di uno stesso fatto di più disposizioni, delle quali una sola è effettivamente applicabile, a causa delle relazioni intercorrenti tra le disposizioni stesse”, dovendosi confrontare “le astratte, tipiche fattispecie che, almeno a prima vista, sembrano convergere su di un fatto naturalisticamente unico” (Corte cost., sent. n. 97 del 1987). I giudici delle leggi hanno poi aggiunto che “per aversi rapporto di specialità ex art. 15 cod. pen. è indispensabile che tra le fattispecie raffrontate vi siano elementi fondamentali comuni, ma una di esse abbia qualche elemento caratterizzante in più che la specializzi rispetto all’altra” (Corte cost., ord. n. 174 del 1994).
La giurisprudenza di questa Corte ha altresì stabilito che l’art. 15 cod. pen. si riferisce alla sola “specialità unilaterale”, giacché le altre tipologie di relazioni tra norme, quali la “specialità reciproca” o “bilaterale”, non evidenziano alcun rapporto di genus a speciem (tra le tante, Sez. 4, n. 21522 del 02/03/2021, Bossi, non mass, sul punto; Sez. 5, n. 27949 del 18/09/2020, Di Gisi, non mass, sul punto; Sez. 4, n. 29920 del 17/01/2019, Padricelli, Rv. 276583-01, tutte ricollegabili al dictum di Sez. U, n. 41588 del 22/06/ 2017, La Marca, non mass, sul punto).
Ha, poi, sottolineato la eccentricità dei criteri di “sussidiarietà”, “assorbimento” e “consunzione”, suscettibili di opposte valutazioni da parte degli interpreti, e la loro estraneità all’unico criterio legale previsto, ovvero quello di specialità positivizzato dall’art. 15 cod. pen. (Sez. U, n. 20664 del 23/02/2017, Stalla, cit., non. mass, sul punto; Sez. 1, n. 12340 del 15/11/ 2022, dep. 2023, Baldassarre, cit.). Sez. U. n. 20664 del 23/02/2017, Stalla, cit. hanno espresso in proposito il condivisibile principio secondo cui: “Nella materia del concorso apparente di norme non operano criteri diversi da quelli stabiliti all’art. 15 cod. pen., che si fonda sulla comparazione della struttura astratta delle fattispecie, al fine di apprezzare l’implicita valutazione di correlazione tra norme, effettuata dal legislatore“.
In applicazione di tali principi, l’art. 73, comma 5, T.U. stup. è, dunque, da ritenersi norma speciale, in quanto contiene, da un lato, tutti gli elementi costitutivi dell’art. 73, commi 1 e 4, T.U. stup., che hanno valenza di norme generali, e presenta, dall’altro, quali requisiti propri e caratteristici, con funzione specializzante, i “mezzi, modalità o circostanze dell’azione” ovvero la “qualità e quantità delle sostanze”, che portano a ritenere il fatto di lieve entità.
Non osta a tale ricostruzione la clausola di riserva iniziale del comma 5 (“salvo che il fatto costituisca più grave reato”), che sembrerebbe configurare un’ipotesi sussidiaria e sovvertire il criterio della prevalenza della fattispecie unilateralmente speciale.
In proposito, Sez. U, n. 51063 del 27/09/2018, Murolo, cit., hanno evidenziato come un’interpretazione in tal senso apparirebbe irragionevole ed incompatibile con la volontà del legislatore e con la stessa scelta di trasformare la fattispecie da circostanza attenuante in reato autonomo. Hanno, poi, significativamente chiarito che, al fine di rispettare la chiara intenzione del legislatore, deve ritenersi che la clausola di riserva espressa sia stata introdotta “per disciplinare l’eventuale o futuro concorso con altre fattispecie più gravi, ma diverse da quelle contenute nell’art. 73 T.U. stup., con le quali già si instaura una relazione di genere a specie” (così in motivazione, a pag. 11).
Va, inoltre, significativamente sottolineato che proprio tale ultima affermazione, pur resa in un contesto che non richiedeva in quel momento alcuna analisi della questione oggi all’esame delle Sezioni Unite, già prefigurava nella specialità il rapporto intercorrente tra le fattispecie dei commi primo e quarto, da un lato, e la fattispecie del quinto comma, dall’altro.
Dunque, qualora il medesimo fatto, contestato a diversi imputati in concorso tra loro, contenga elementi tali da fare ritenere integrata solo per taluni la fattispecie di cui all’art. 73 comma 5, T.U. stup. e per altri quella di cui all’art. 73, comma 1, T.U. stup., si versa al di fuori di un’ipotesi di concorso nel medesimo reato, essendosi in presenza di due reati diversi legati tra loro da un rapporto di specialità nei termini appena ricordati.
Deve aggiungersi come, in prospettiva, una tale configurazione del rapporto tra dette fattispecie possa anche riverberarsi sulla stessa formulazione dei capi d’imputazione, laddove, a fronte dei presupposti fattuali, sia già possibile distinguere, in nuce, tra le condotte dei “concorrenti”, quelle connotate da lieve entità.
- Tale conclusione si presenta coerente tanto con la ratio che ha ispirato il legislatore nel 2013 che con il quadro costituzionale di riferimento.
Ed invero, ai fini di una corretta ermeneusi dell’art. 73, comma 5, T.U. stup., costituzionalmente orientata, si deve tenere conto, primariamente, delle ragioni che hanno indotto il legislatore del 2013 a trasformare la norma in ipotesi di reato autonomo. In primis, sussisteva la ricordata necessità – per evitare possibili censure sotto il profilo della compatibilità con i principi della personalità della responsabilità penale o della proporzionalità della pena – di sottrarne l’applicazione al giudizio di comparazione tra circostanze. A fronte, infatti, di prevalenza o equivalenza di concorrenti circostanze aggravanti o della recidiva, un imputato resosi responsabile di fatti di lieve entità sarebbe stato assoggettato alle più severe pene previste per il primo o per il quarto comma.
In secondo luogo, si poneva l’esigenza di recuperare in prospettiva costituzionale la personale imputabilità all’agente di comportamenti realmente espressivi di un suo atto di determinazione.
La possibilità o meno per taluno dei concorrenti di vedere ricondotta la propria azione delittuosa alla previsione di cui all’art. 73 comma 5 T.U. stup., piuttosto che a quelle di cui all’art. 73, commi 1 e 4, del medesimo T.U., deve discendere, in altri termini, da comportamenti a lui direttamente riconducibili e al coefficiente psicologico rispetto alla fattispecie criminosa posta in essere.
Proprio in considerazione del fatto che la norma del comma 5 dell’art. 73 è speciale, il giudice, nell’ambito della valutazione complessiva della condotta e selezionando tutti gli indicatori previsti da tale disposizione (Sez. U, n. 51063 del 27/09/2018, Murolo, Rv. 274076-01) deve considerare gli elementi che “accomunano” il singolo agli altri correi e, contestualmente, quelli solo a lui strettamente pertinenti che, nella struttura della norma speciale, esprimono il necessario quid pluris rispetto alla norma generale.
- Occorre, allora, verificare, in concreto, quali tra gli elementi tipici specializzanti presenti nella fattispecie di cui all’art. 73, comma 5, T.U. stup., pur nel contesto della valutazione complessiva richiesta da Sez. U. Murolo, possono essere valutati in senso diversificato per i concorrenti nel medesimo fatto.
Non paiono valorizzabili in tal senso “quantità e qualità delle sostanze”, cui si riferisce la norma, di regola uguali per tutti i concorrenti (se fossero diversificate si avrebbero già, ab origine, come detto sopra, singoli e diversi reati ascrivibili a ciascuno).
Vengono in rilievo, invece, “mezzi, modalità e circostanze dell’azione“, aspetti per i quali, tuttavia, s’impone una chiarificazione della portata applicativa.
Con riguardo alle circostanze dell’azione, va ricordato che Sez. U, n. 35737 del 24/06/2010, Rico, cit., hanno ricompreso tra le “circostanze dell’azione” anche le “circostanze soggettive tutte”. Tale principio, pur se affermato in un momento in cui la norma del quinto comma era ancora di previsione circostanziale, mantiene intatta la sua validità, attesa, come visto, la invariata struttura morfologica della fattispecie al di là del nomen iuris ad essa oggi attribuibi e per effetto della riforma del 2013.
Sotto tale profilo la Corte ha, del resto, nel tempo affermato che potranno essere valorizzate le finalità dell’attività delittuosa (si pensi al caso di una cessione occasionale), ovvero lo stato di tossicodipendenza del reo (che è, naturalmente, onere dell’imputato provare: come recentemente ribadito da Sez. 3, n. 23082 del 22/02/2022, Radicchi, Rv. 283235-01), che si ponga in “rapporto diretto” con la condotta, come quando, ad esempio, si accerti che l’imputato ha svolto una piccola attività di spaccio al fine di destinarne i proventi “all’acquisto di droga per uso personale” (Sez. 3, n. 32695 del 27/03/2015, Genco, Rv. 264490-01).
Al contrario, l’aspetto relativo alla tossicodipendenza non dovrebbe assumere pregnante rilievo in presenza di sistematiche cessioni operate in favore di un indiscriminato novero di acquirenti (Sez. 3, n. 16028 del 15/02/2018, Huillca, non mass., secondo cui “lo stato di tossicodipendente può rilevare sole se si accerti che lo spaccio non ha dimensioni ragguardevoli, sì da fare apparire verosimile che l’imputato ne destini i proventi all’acquisto di droga per uso personale“; Sez. 6, n. 44697 del 08/10/2013, Rizza, non mass.).
Sono stati, invece, ritenuti del tutto irrilevanti e non valorizzabili l’eventuale comportamento collaborativo serbato post delictum (Sez. 6, n. 3616 del 15/11/2018, dep. 2019, Capurso, Rv. 275044-01) ed i precedenti penali dell’imputato, che, a rigore, non afferiscono all’azione la cui “lievità” si intende apprezzare (Sez. 3, n. 13120 del 06/02/2020, Ilardi, Rv. 279233-01), a meno che non si evidenzi un collegamento oggettivo tra i fatti criminosi per i quali la persona è già stata condannata con sentenza irrevocabile e quelli oggetto del nuovo giudizio.
Potrà e dovrà essere valutato, come avvenuto nel presente processo per la posizione di B.B., se l’attività di spaccio sia stata svolta in un contesto di tipo organizzato.
A diverse conclusioni, come motivatamente avvenuto nel processo che ci occupa per i coimputati di B.B., A.A. e C.C., si dovrà e si potrà pervenire in relazione a quei soggetti che, pur consapevoli della natura organizzata dell’attività delittuosa, non abbiano fatto parte dell’associazione ex art. 74 T.U. stup., tenuto anche conto del numero di volte in cui ciascun imputato ha partecipato a tali condotte.
- In risposta al quesito rivolto alle Sezioni Unite va dunque affermato il principio di diritto per cui: “In tema di concorso di persone nel reato di cessione di sostanze stupefacenti il medesimo fatto storico può configurare, in presenza dei diversi presupposti, nei confronti di un concorrente, il reato di cui all’art. 73, comma 1 ovvero comma 4, del D.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309 e nei confronti di altro concorrente il reato di cui all’art. 73, comma 5, del medesimo D.P.R.”.
[…]
13.1. Quanto all’esistenza del sodalizio criminoso (Ji cui al capo F2), capeggiato da D.D., di cui al primo motivo di ricorso di A.A. e B.B., meramente ripropositivi dei rispettivi motivi di appello sul punto, alle pagg. 113 ss., i giudici del gravame del merito danno conto delle acquisizioni probatorie e a pagg. 114, in particolare, delle conversazioni intercettate dopo l’arresto di Q.Q. A pag. 116 della sentenza impugnata si delineano le gerarchie del gruppo, su cui già il primo giudice si era ampiamente soffermato, e si dà conto dei servizi di osservazione e pedinamento effettuati.
Tale compendio probatorio – secondo la concorde valutazione dei giudici di merito – consente di provare l’esistenza di un gruppo associativo finalizzato allo spaccio di sostanze stupefacenti articolato in due sottogruppi (le c.d. “batterie”), nonché di individuare la piazza dedicata allo spaccio e la base operativa nel “bar (Omissis)”.
La sentenza impugnata evidenzia come, a delineare il contesto associativo, ed in particolare il settore facente capo al I.I., siano state decisive le conversazioni successive all’arresto di Q.Q., soggetto deputato alla custodia dello stupefacente.
Il provvedimento della Corte territoriale fa buon governo della costante giurisprudenza di questa Corte di legittimità circa gli elementi che caratterizzano l’associazione di cui all’art. 74 T.U. stup., per la configurabilità della quale non è richiesta la presenza di una complessa ed articolata organizzazione, dotata di notevoli disponibilità economiche, ma è sufficiente l’esistenza di una struttura, anche rudimentale, desumibile dalla predisposizione di mezzi e dalla suddivisione dei ruoli, per il perseguimento del fine comune, idonea a costituire un supporto stabile e duraturo alla realizzazione delle singole attività delittuose (cfr., ex plurimis, Sez. 2, n. 19146 del 20/02/2019, Di Pisa, Rv. 275583 – 01; Sez. 6, n. 46301 del 30/10/2013, Corso, Rv. 258165 – 01; Sez. 1, n. 30463 del 07/07/2011, Cali, Rv. 251011-01; Sez. 1, n. 4967 del 22/12/2009, dep. 2010, Galioto, Rv. 246112-01).
In proposito Sez. 6, n. 2394 del 12/10/2021, dep. 2022, Napoli Rv. 282677-01 ha precisato che l’assenza di una c.d. “cassa comune” non è ostativa al riconoscimento dell’associazione, essendo sufficiente, anche nell’ipotesi di una gestione degli utili non paritaria né condivisa tra i vari sodali, che tra questi sussista un comune e durevole interesse ad immettere nel mercato sostanza stupefacente, nella consapevolezza della dimensione collettiva dell’attività e dell’esistenza di una sia pur minima organizzazione. Non è neppure necessaria l’esistenza di una struttura gerarchica con specifici ruoli direttivi e la dotazione di disponibilità finanziarie e strumentali per un’estesa attività di commercio di stupefacenti, ma è sufficiente anche un’elementare predisposizione di mezzi, sempre che gli stessi siano in concreto idonei a realizzare in modo permanente il programma delinquenziale oggetto del vincolo associativo (Sez. 3, n. 9457 del 06/11/2015, dep. 2016, Salvatori, Rv. 266286-01; Sez. 6, n. 25454 del 13/02/2009, Mammoliti e altri, Rv. 244520).
L’elemento aggiuntivo e distintivo del reato associativo rispetto alla contigua fattispecie del concorso di persone nel reato continuato (di detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti) è stato correttamente ravvisato nel carattere dell’accordo criminoso che contempla la commissione di una serie non previamente determinata di delitti, con permanenza del vincolo associativo tra i partecipanti che, anche al di fuori dell’effettiva commissione dei singoli reati programmati, assicurano la propria disponibilità duratura e indefinita nel tempo al perseguimento del programma criminoso proprio del sodalizio (in tal senso ex multis Sez. 6, n. 28252 del 06/04/2017, Di Palma, Rv. 270564-01; Sez. 4, n. 51716 del 16/10/2013, Amodio, Rv. 257906-01; Sez. 5, n. 42635 del 04/10/2004, Collodo ed altri, Rv. 229906-01).
Ai fini della configurabilità di un’associazione finalizzata al narcotraffico, è dunque necessario che: a) almeno tre persone siano tra loro vincolate da un patto associativo (sorto anche in modo informale e non contestuale) avente ad oggetto un programma criminoso nel settore degli stupefacenti, da realizzare attraverso il coordinamento degli apporti personali; b) il sodalizio abbia a disposizione, con sufficiente stabilità, risorse umane e materiali adeguate per l’attuazione del programma associativo; c) ciascun associato sia a conoscenza, quanto meno, dei tratti essenziali del sodalizio, e si metta stabilmente a disposizione di quest’ultimo (in tali termini, ex multis, Sez. 4, n. 39022 del 28/09/2022, Castoro, non mass.; Sez. 4, n. 34754 del 20/11/2020, Abbate, Rv. 280244-02, non mass, sul punto Sez. 6, n. 7387 del 03/12/2013 dep. 2014, Y.Y., Rv. 258796-01).
Le argomentazioni spese sul punto dalla Corte territoriale sono complete, non contraddittorie né manifestamente illogiche, conformi ai principi di diritto illustrati e, pertanto, idonee a resistere ai rilievi dei ricorrenti.
Dai colloqui intercorsi tra gli associati, soprattutto successivamente agli arresti, dalle testimonianze e dalle immagini videoregistrate, dalla ripetitività degli episodi criminosi di cui si dà conto alle pagg. 113 ss. la Corte territoriale desume coerentemente la sussistenza di una struttura organizzata, con una serie di sodali costantemente a disposizione del gruppo associativo, con una capacità di rifornimento continuo della piazza di spaccio, avendo a disposizione le necessarie risorse umane e materiali.
[…]
13.3. Manifestamente infondato è il terzo motivo di ricorso di A.A., con cui si censura il provvedimento impugnato laddove non ha ritenuto l’associazione ex art. 74 T.U. stup. di cui al capo F2) riconducibile all’ipotesi meno grave contemplata dalla norma al sesto comma.
Ed invero, costituisce ius receptum che la fattispecie associativa prevista dall’art. 74, comma 6, T.U. stup., è configurabile a condizione che i sodali abbiano programmato esclusivamente la commissione di fatti di lieve entità, predisponendo modalità strutturali e operative incompatibili con fatti di maggiore gravità e che, in concreto, l’attività associativa si sia manifestata con condotte tutte rientranti nella previsione dell’art. 73, comma 5, T.U. stup. (Sez. 6, n. 1642 del 09/10/2019, dep. 2020, Degli Angioli, Rv. 278098-01).
Si è anche precisato che, ai fini della configurabilità del reato di associazione finalizzata al traffico di stupefacenti di lieve entità, non è sufficiente considerare la natura dei singoli episodi di cessione accertati in concreto, ma occorre valutare il momento genetico dell’associazione, nel senso che essa deve essere stata costituita per commettere cessioni di stupefacente di lieve entità, e le potenzialità dell’organizzazione, con riferimento ai quantitativi di sostanze che il gruppo è in grado di procurarsi (Sez. 3, n. 44837 del 06/02/2018, Caprioli, Rv. 274696-01).
Ebbene, nel caso in esame la sentenza impugnata si è attenuta ai principi elaborati sul punto dalla giurisprudenza di legittimità enucleando puntualmente una pluralità di elementi ritenuti ostativi all’inquadramento della fattispecie nei termini richiesti ovvero: 1) il dato ponderale rilevante in vari episodi accertati di detenzione a fini di spaccio; 2) la reiterazione delle condotte di spaccio; 3) l’esistenza di una cassa comune; 4) l’utilizzo di peculiari modalità idonee ad evitare possibili controlli; 5) la disponibilità di canali di sicuro approvvigionamento; 6) la gestione di una piazza di spaccio implicante il controllo del territorio. Sulla base di tali elementi ha, pertanto, concluso che si deve escludere che l’associazione in esame, sul piano programmatico e progettuale, fosse stata concepita solo per la commissione di fatti di lieve entità.
In particolare, alle pagg. 122 ss. il provvedimento impugnato si sofferma analiticamente sull’articolazione della consorteria e sulle notevoli quantità di sostanze stupefacenti movimentate.
Per contro, le censure proposte in ricorso sul punto omettono un reale confronto critico con la complessiva motivazione del provvedimento impugnato.
[…]