Cassazione Civile, sez. III, ordinanza 15 luglio 2024, n. 19340
PRINCIPIO DI DIRITTO
In materia di contratti agrari, l’erede legittimario che sia stato escluso dal testamento del genitore per aver ricevuto in vita un quantitativo di beni idonei a soddisfare la sua quota di legittima e si trovi, per tale ragione, nell’impossibilità di impugnare il testamento con l’azione di riduzione, ha titolo per esercitare l’azione di cui all’art. 49 della legge 3 maggio 1982 n. 203 e, ricorrendo le condizioni indicate da tale norma, può ottenere di continuare nella conduzione o coltivazione dei fondi agricoli anche per le porzioni ricomprese nelle quote degli altri coeredi e di essere considerato affittuario delle stesse”.
TESTO RILEVANTE DELLA PRONUNCIA
- Con il primo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione dell’art. 116 cod. proc. civ., degli artt. 2726, 2721 e 2729 cod. civ., per inammissibilità della prova per testi in quanto contraria al contenuto di un documento (le quietanze e contabili bancarie). Il ricorrente osserva che alle prove testimoniali invocate per provare l’effettuazione di un pagamento si applicano le stesse regole previste in materia contrattuale; dovrebbe quindi essere ritenuta inammissibile la prova testimoniale del padre D.D. in quanto volta “a contrastare il contenuto di un documento, ossia le ricevute di pagamento sottoscritte da D.D.”. Poiché erano state prodotte in causa le contabili di bonifico, la prova testimoniale doveva sul punto essere ritenuta inammissibile.
- Con il secondo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3), n. 4) e n. 5) cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., per vizio di travisamento della prova. Secondo il ricorrente, la Corte d’Appello sarebbe incorsa nel denunziato vizio per una serie di ragioni. Innanzitutto, per aver utilizzato ai fini della decisione la deposizione testimoniale di D.D. benché contraddetta dai documenti offerti in causa. Da questi ultimi risultava, infatti, che il padre aveva ricevuto bonifici già nell’anno 2006, cioè prima della morte di C.C., avvenuta nell’agosto 2011. Allo scopo di non riconoscere al documento n. 4) la giusta valenza di prova, la Corte di merito avrebbe poi svolto affermazioni contraddette dai documenti, in riferimento ai pagamenti ricevuti a titolo di affitto. Dai bonifici e dalle contabili prodotte emerge, secondo il ricorrente, che erano indicati i mappali in relazioni ai quali veniva effettuato il pagamento dei canoni, così come risulterebbe pure l’effettivo versamento della somma di Euro 4.000 all’anno a titolo di canone concordato per tutto il compendio immobiliare in questione.
- I primi due motivi, da trattare congiuntamente in considerazione dell’evidente connessione che li unisce, sono, quando non inammissibili, comunque privi di fondamento. Essi ruotano intorno alla deposizione testimoniale di D.D., da un lato contestandone l’ammissibilità e, dall’altro, sostenendo che la Corte d’Appello avrebbe compiuto un’errata valutazione delle prove a sua disposizione. Simile impostazione delle censure ne evidenzia, ictu oculi, la dubbia ammissibilità; sia perché (nel primo motivo) non si dice con chiarezza se e quando l’odierno ricorrente si sia opposto all’ammissione della prova (prima e dopo la sua assunzione) sia perché (nel secondo motivo) si finisce col censurare il merito di una complessiva valutazione delle prove operata dalla Corte d’Appello. Bisogna tenere presente che, a seguito della pronuncia di cassazione, il giudice di rinvio era chiamato, in via principale, ad accertare se vi fosse o meno la prova dell’esistenza di un contratto agrario. In vista di tale obiettivo la Corte di merito ha analizzato con grande scrupolo le prove a sua disposizione, confrontando quanto il padre aveva dichiarato nella sua deposizione con i documenti prodotti. Nel compiere questo riscontro, la sentenza in esame (pp. 14-15) ha compiuto una valutazione globale delle prove, non limitandosi solo a considerare i bonifici e le contabili di pagamento, ma inserendoli nel quadro complessivo. Ha ritenuto, pertanto, di dover svalutare la valenza del documento n. 4), evidenziando una serie di elementi contraddittori che non consentivano di ritenere provata l’esistenza del contratto; in particolare, il riferimento ai mappali di proprietà dell’altra sorella (E.E.) e il fatto che non vi fosse un riferimento sicuro all’entità del canone e agli anni di riferimento etc. sono elementi più che sufficienti a dare conto della decisione. Né a questa Corte è consentito sindacare simile valutazione senza oltrepassare i limiti del presente giudizio di legittimità. Le censure, d’altra parte, al di là del loro aspetto formale, nel quale vengono prospettate violazioni di legge, appaiono piuttosto rivolte proprio a sollecitare un diverso e non consentito esame del merito. In particolare, con specifico riferimento alla deduzione della violazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. Civ., non rispettano i criteri indicati a suo tempo da Cass. N. 11892 del 2016 e ribaditi, ex multis, da Cass., Sez. Un., n. 20867 del 2020. Né in esse viene realmente prospettato il c.d. travisamento della prova nel senso esaminato e chiarito dalla recentissima sentenza 5 marzo 2024, n. 5792, delle Sezioni Unite di questa Corte.
- Con il terzo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione degli artt. 437 e 394 cod. proc. civ., nonché vizio di motivazione in ordine alla mancata ammissione delle prove. Il motivo ha ad oggetto l’ammissione di nuove prove nel giudizio di rinvio. Il ricorrente sostiene, al riguardo, che la Corte d’Appello, nonostante egli avesse sollecitato l’ammissione di nuovi documenti allegati in comparsa di risposta nel giudizio di rinvio, avrebbe omesso ogni decisione sul punto. Si tratterebbe di omissione decisiva, perché da quegli estratti conto – ottenuti in seguito al decesso del padre avvenuto in pendenza del giudizio di cassazione – risulterebbero gli accrediti dei bonifici effettuati dal ricorrente a favore del padre, per somme incassate e mai restituite; per cui le deposizioni dei testi D.D. e E.E. sarebbero superate da quei documenti. D’altra parte, pur essendo indubbia la natura del giudizio di rinvio come giudizio chiuso, nel rito del lavoro il principio dispositivo deve essere contemperato con le esigenze di ricerca della verità materiale; e poiché, nel caso in esame, la pronuncia di cassazione aveva rimesso al giudice di rinvio la valutazione sull’esistenza o meno del contratto di affitto, l’ammissione della produzione dei documenti richiesti sarebbe stata decisiva per quell’obiettivo, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte d’Appello. L’omissione da parte di quest’ultima sarebbe priva di ogni motivazione.
4.1. il motivo non è fondato.
4.2. La giurisprudenza di questa Corte ha anche di recente ribadito che nel giudizio di rinvio, configurato dall’art. 394 cod. proc. civ. quale giudizio ad istruzione sostanzialmente “chiusa”, è preclusa l’acquisizione di nuove prove e, segnatamente, la produzione di nuovi documenti, salvo che la stessa sia giustificata da fatti sopravvenuti riguardanti la controversia in decisione, da esigenze istruttorie derivanti dalla sentenza di annullamento della Corte di cassazione o dall’impossibilità di produrli in precedenza per causa di forza maggiore (ordinanza 22 settembre 2022, n. 27736, in linea con la sentenza 30 settembre 2015, n. 19424). Nel caso di specie – anche tralasciando la genericità della censura, nella quale si parla di bonifici e di somme incassate e non restituite (senza ulteriori precisazioni), e il fatto che la richiesta di ammissione di documenti non risulta formulata nelle conclusioni trascritte nell’epigrafe della sentenza impugnata – resta il fatto, decisivo, che non è dato comprendere per quale ragione detti documenti non siano stati prodotti in precedenza. La circostanza, genericamente addotta dal ricorrente, secondo cui quei documenti sarebbero stati ottenuti dopo il decesso del padre non è sufficiente ad evidenziare in modo certo l’impossibilità di una precedente produzione e, pertanto,l’esistenza di una delle condizioni nelle quali è consentita, in base alla citata giurisprudenza, la produzione di nuovi documenti in sede di giudizio di rinvio. Ed è palese che anche il richiamo alle regole del rito del lavoro e alle esigenze di ricerca della verità materiale è troppo labile per consentire di accogliere il motivo in esame. Tanto è assorbente anche a prescindere da un’evidente violazione dell’art. 366, primo comma, n. 6), cod. proc. civ. sotto il profilo della riproduzione diretta od almeno indiretta del contenuto rilevante dei documenti.
- Con il quarto motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione dell’art. 1388 cod. civ. e dell’art. 116 cod. proc. civ. in relazione alla contemplatio domini. Il motivo si concentra sul problema della prova della sussistenza, in capo al padre, di un potere di rappresentanza della madre. Secondo il ricorrente, nei contratti a forma libera non sarebbe necessario l’utilizzo di formule sacramentali per dimostrare l’esistenza dei poteri in capo al rappresentante. Nella specie, la sentenza impugnata avrebbe escluso l’esistenza di tale potere in base ad una valutazione “sbilanciata esclusivamente sulla motivazione dell’assunto della mancata prova della spendita del nome della sig.ra C.C. da parte del sig. D.D.”; senza considerare che il potere rappresentativo del padre per conto della moglie si evinceva da una serie di elementi, fra cui la disponibilità che D.D. aveva dei terreni, il fatto che comunque l’amministrazione e la contabilità fossero in mano a C.C., la continuità dei bonifici, con la causale indicata, effettuati anche quando la madre era ancora in vita, nonché la mancata contestazione e restituzione delle somme ricevute.
5.1. Il motivo è inammissibile. La sentenza impugnata ha dato conto con una serie di argomentazioni, prive di vizi logici, del perché dovesse ritenersi esclusa l’esistenza di un potere di rappresentanza, in capo ad D.D., della moglie C.C. Ed è pervenuta a questa conclusione non soltanto per la mancanza di una “dichiarazione espressa ed univoca” in tal senso, anche se priva di “formule solenni”, ma anche in base ad altre considerazioni, quali l’assenza, nelle quietanze, di ogni riferimento alla C.C., il fatto che i presunti canoni non fossero mai confluiti su di un conto a lei intestato e la circostanza che fosse la C.C., di regola, ad occuparsi della contabilità e dei rapporti con le banche. Ne consegue che il motivo in esame si risolve nel palese tentativo di ottenere in questa sede un diverso e non consentito esame del merito. Quanto all’evocazione dell’art. 116 cod. proc. civ., valgono i rilievi già svolti a proposito dei primi due motivi.
- Con il quinto motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione dell’art. 49 della legge n. 203 del 1982 e degli artt. 553 e ss. cod. civ., per l’asserita mancata qualità di erede in capo al ricorrente. Sostiene A.A. che la Corte d’Appello avrebbe errato nel negare l’applicabilità dell’art. 49 cit. per l’asserita mancanza della qualità di erede in capo al ricorrente. Dopo aver richiamato il contenuto del testamento olografo della C.C., il ricorrente osserva che l’azione di riduzione di cui all’art. 553 cit. tende al soddisfacimento dei diritti dei legittimari nei limiti in cui siano lesi dalle disposizioni testamentarie; nel caso specifico, però, il A.A. non potrebbe ritenersi pretermesso a causa degli atti di disposizione compiuti in suo favore dalla madre, mentre era in vita. La sentenza impugnata avrebbe travisato la portata dell’art. 49 cit., norma “con la quale il legislatore ha inteso assicurare l’integrità e la continuità dell’azienda agricola insediata sui fondi di proprietà del de cuius, facendo prevalere l’interesse alla continuità di gestione ed alla conservazione dell’unità economica costituita dalla medesima azienda e ciò conduce a ritenere di poter operare una interpretazione estensiva della disposizione”. Poiché la finalità della citata norma è quella di mantenere, per quanto possibile, la concentrazione della titolarità dei fondi agricoli in capo ai soggetti titolari delle capacità necessarie per coltivarli, non vi sarebbe dubbio, nel caso di specie, sul fatto che il ricorrente possegga tali capacità. Egli, infatti, sostiene di essere un imprenditore agricolo e un coltivatore diretto, come emerso in corso di causa (la circostanza sarebbe incontestata); di talché dovrebbe considerarsi pacifica l’applicabilità in suo favore della norma dell’art. 49 della legge n. 203 del 1982. 6.1. Per esaminare questa censura occorre prendere le mosse da quanto ha deciso la Corte d’Appello nella sentenza impugnata. Come si è già detto, essa ha respinto il motivo di appello relativo all’applicazione dell’art. 49 richiamandosi, pur senza esplicita menzione, alla giurisprudenza di questa Corte secondo cui il legittimario totalmente pretermesso che impugna per simulazione un atto compiuto dal de cuius, a tutela del proprio diritto alla reintegrazione della quota di legittima, agisce, sia nella successione testamentaria che in quella ab intestato, in qualità di terzo e non in veste di erede, acquisendo quest’ultima qualità solo in conseguenza del positivo esercizio dell’azione di riduzione (v. le sentenze 23 dicembre 2011, n. 28632, e 19 novembre 2019, n. 30079, nonché l’ordinanza 7 febbraio 2020, n. 2914). E la più recente sentenza 17 agosto 2022, n. 24836, ha chiarito che, in caso di successione legittima, il legittimario, sebbene non possa ritenersi diseredato in senso formale, poiché chiamato per legge all’eredità, è considerato pretermesso qualora il de cuius abbia distribuito tutto il suo patrimonio mediante disposizioni a titolo particolare inter vivos. È opportuno tenere presente che, a norma dell’art. 457 cod. civ., l’eredità si devolve per legge o per testamento e che le disposizioni testamentarie “non possono pregiudicare i diritti che la legge riserva ai legittimari”. Come insegna anche la dottrina, non esiste un terzo tipo di successione (quella necessaria), perché la legge ne indica solo due. Nel caso in esame, siamo nell’ambito di una successione testamentaria, perché è pacifico in causa che C.C., madre di entrambi i fratelli oggi in lite, ebbe a lasciare non uno, ma due testamenti, il primo olografo e il secondo pubblico, coincidenti peraltro nel senso di escludere il figlio A.A. dalla chiamata all’eredità, avendo egli già ricevuto in vita molto di più della sua quota di legittima (così si esprime la Corte d’Appello, né vi sono contestazioni su questo punto).
6.2. Tanto premesso, la Corte osserva che nel caso in esame, come si è detto, non siamo in presenza di un legittimario totalmente pretermesso, perché nel testamento ora citato la madre dei fratelli (Omissis) ha ritenuto di dover escludere il figlio A.A. dall’eredità per avere egli già ricevuto in vita un quantitativo di beni idonei ad integrare e a superare ampiamente la quota di legittima. La questione di diritto sulla quale questa Corte è chiamata a pronunciarsi consiste, dunque, nello stabilire se un figlio, che in quanto tale è legittimario (art. 536 cod. civ.), il quale ha ricevuto in vita un certo quantitativo di beni, è stato poi escluso dal testamento materno e non ha ritenuto di dover esercitare l’azione di riduzione nei confronti degli altri eredi, abbia o meno diritto ad agire ai sensi dell’art. 49 della legge n. 203 del 1982. La questione – che non risulta essere stata oggetto di precedenti pronunce – è resa complessa dal fatto che non si può pervenire alla sua soluzione facendo semplicemente applicazione dei principi del diritto successorio; è invece necessario che questi siano contemperati e, per così dire, integrati e letti alla luce della norma speciale dell’art. 49 cit., che risponde ad una sua ben precisa logica. Questa norma dispone che, in caso di morte del proprietario di fondi rustici condotti o coltivati direttamente da lui o dai suoi familiari, “quelli tra gli eredi che, al momento dell’apertura della successione, risultino avere esercitato e continuino ad esercitare su tali fondi attività agricola”, quali imprenditori o coltivatori diretti, “hanno diritto a continuare nella conduzione o coltivazione dei fondi stessi anche per le porzioni ricomprese nelle quote degli altri coeredi e sono considerati affittuari di esse”. Tale rapporto, regolato dalla legge stessa, ha inizio dalla data di apertura della successione. Si tratta di una disposizione originale e innovativa contenuta nella legge del 1982, costruita sull’idea della costituzione coattiva di un rapporto di affitto tra gli eredi coltivatori diretti e gli altri successori (sentenza 22 marzo 2013, n. 7268). Gli eredi imprenditori agricoli o coltivatori diretti hanno, cioè, un diritto potestativo di costituzione del rapporto di affitto agrario anche in contrasto con la volontà degli altri. La disposizione, com’è noto, è stata accolta non senza riserve, soprattutto per quanto riguarda la possibilità di costituzione di una sorta di affitto coatto a discrezione degli eredi coltivatori diretti; ed è, peraltro, passata indenne al vaglio della Corte costituzionale la quale – con la risalente ma non superata ordinanza n. 597 del 1988 – ebbe a dichiarare la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 49 qui in esame, sollevata in riferimento agli artt. 3, 41 e 42 della Costituzione. Rilevò il Giudice delle leggi, in quella pronuncia, che “la ratio della norma di cui all’art. 49 della legge n. 203 del 1982 è da individuarsi nell’esigenza di assicurare, anche dopo la morte dell’imprenditore agricolo, l’integrità dell’azienda e la continuità e l’unità dell’impresa e, pertanto, la garanzia di continuità nella conduzione di un fondo data ad uno dei coeredi non può essere considerata nella prospettiva di un privilegio attribuito ad uno di essi a danno degli altri, bensì nel più ampio quadro dell’interesse pubblico alla conservazione di un’impresa produttiva”. Deve dunque rilevarsi, recependo l’insegnamento della Corte costituzionale, che la scelta compiuta dal legislatore è stata dettata dall’intento di favorire la conservazione e la continuità dell’attività di coltivazione, evitare la dispersione della forza-lavoro e incentivare la permanenza della coltivazione nell’ambito familiare; e di questo costituisce indiretta conferma il secondo comma dell’art. 49, a norma del quale l’alienazione della propria quota effettuata dagli eredi è causa di decadenza dal diritto di cui al primo comma. La giurisprudenza di questa Corte ha affermato, tra l’altro, che l’art. 49 cit. non si applica ove tra il de cuius ed uno degli eredi risulti in precedenza stipulato un regolare contratto agrario, poiché in tal caso l’erede stesso, in qualità di concessionario ex contractu, continua ad usufruire del godimento del fondo rustico ai sensi della (diversa e successiva) disposizione di cui al terzo comma del medesimo articolo, secondo cui “i contratti agrari non si sciolgono per la morte del concedente” (così la sentenza 4 aprile 2001, n. 4975, confermata dalle sentenze 20 agosto 2015, n. 17006, e 30 settembre 2016, n. 19412). Il fatto che, nella specie, la preesistenza di un contratto agrario tra A.A. e i suoi genitori non sia stata dimostrata dà conto, a maggior ragione, della decisività della questione che la Corte è chiamata a risolvere.
6.3. Così correttamente inquadrati i termini del problema, la Corte ritiene che il quinto motivo di ricorso sia fondato. Ed invero, pur essendo certo che l’art. 49 cit. fa continui richiami alla figura dell’erede, e tale deve ritenersi colui il quale è chiamato all’eredità, è altrettanto vero che, come si è visto, nel caso di specie A.A. fu menzionato nel testamento materno e fu escluso dai benefici con esso attribuiti in ragione del fatto di aver ricevuto in precedenza una serie di beni facenti comunque parte dell’asse ereditario. Ne consegue che, seguendo il percorso logico fatto proprio dalla Corte d’Appello, si viene a determinare la paradossale situazione di un soggetto legittimario, di fatto – e in tesi – imprenditore agricolo o coltivatore diretto del fondo appartenente alla famiglia, il quale non può esercitare l’azione di riduzione perché non c’è stata lesione della sua quota di legittima; e, nello stesso tempo, quel soggetto si vede preclusa per tale ragione la possibilità di esercitare il diritto di cui all’art. 49 cit., diritto che sarebbe esercitabile, invece, dal legittimario totalmente pretermesso. Né può essere taciuto che il legittimario totalmente o parzialmente pretermesso potrebbe, per ragioni personali di etica familiare, degne certamente di rispetto, preferire di non esercitare l’azione di riduzione pur avendone diritto, onde evitare l’aggravarsi dei dissapori all’interno della famiglia ristretta. Il legittimario, non totalmente pretermesso in quanto ha già ricevuto in vita una significativa parte del patrimonio familiare e nominato, come nella specie, nella disposizione testamentaria proprio con la considerazione di tanto, deve essere quindi ammesso ad agire ai sensi della norma qui in esame. Resta inteso, ovviamente, che il positivo esercizio dell’azione potrà aversi soltanto se si concluda con esito positivo per il ricorrente lo scrutinio sull’esistenza delle condizioni indicate dall’art. 49 della legge n. 203 del 1982. Su questo punto la giurisprudenza ha da tempo stabilito che la successione dell’erede all’affittuario coltivatore diretto nel contratto agrario, di cui era già parte il de cuius, è possibile, sempre che il preteso successore dimostri la ricorrenza delle condizioni richieste dalla legge. In caso di contestazione, perciò, chi intenda subentrare nel rapporto non solo deve dedurre la propria qualità di erede dell’affittuario, del mezzadro, del colono, del compartecipante o del soccidario, ma anche fornire la prova di essere imprenditore agricolo a titolo principale (ora qualificato imprenditore agricolo professionale dall’art. 1 del D.Lgs. 29 marzo 2004, n. 99), coltivatore diretto o, ancora, eventualmente, soggetto equiparato ai coltivatori diretti ex art. 7, secondo comma, della legge n. 203 del 1982, e di avere esercitato e di continuare ad esercitare, al momento dell’apertura della successione, attività agricola sui terreni coltivati dal de cuius (sentenza 31 gennaio 2013, n. 2254, e ordinanza 23 novembre 2022, n. 34411). Quest’accertamento, che la Corte bresciana non ha compiuto per le ragioni suindicate, è ora rimesso alla medesima, in qualità di giudice di rinvio.
- L’accoglimento del quinto motivo del ricorso determina l’assorbimento dei successivi motivi sesto, settimo e ottavo, i quali riguardano profili che risultano di conseguenza superati.
- In conclusione, sono rigettati i motivi di ricorso primo, secondo, terzo e quarto, è accolto il quinto, con assorbimento dei motivi sesto, settimo e ottavo.
- La sentenza impugnata è cassata in relazione e il giudizio è rinviato alla Corte d’Appello di Brescia, Sezione specializzata agraria, in diversa composizione personale, la quale deciderà attenendosi alle indicazioni della presente decisione. Al giudice di rinvio è demandato anche il compito di liquidare le spese del presente giudizio di cassazione, dei precedenti due giudizi di appello e del primo giudizio di cassazione.