Cass. Civ., II, ord., 08.10.2021, n. 27377
TESTO RILEVANTE DELLA SENTENZA
Il quarto motivo del ricorso principale denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 737 c.c. e segg.. La Corte d’appello ha attribuito ai due coeredi istituiti P.F. e P.V.M. quote uguali, nonostante i due figli avessero ricevuto in donazione beni di valore diverso. Il motivo è fondato. La Corte d’appello menziona l’esistenza di donazioni ricevute dai due figli; nondimeno, poi divide il relictum in parti uguali, in conformità alla istituzione testamentaria, pur dando atto che i figli erano stati gratificati in misura diversa. In questo modo la divisione è stata operata senza tenere conto delle donazioni fatte ai discendenti. Una simile conclusione può ritenersi legittima a patto che le donazioni fossero state elargite con dispensa da collazione. La dispensa opera in modo tale che la successione si svolge e la determinazione delle quote di eredità si attua come se la donazione non fosse stata fatta e il bene, che ne fu oggetto non fosse uscito dal patrimonio del de cuius a titolo liberale (Cass. n. 711/1966; n. 3045/1975). In assenza di dispensa, le donazioni fatte al coniuge e ai discendenti condizionano il riparto, perché, nei rapporti indicati nell’art. 737 c.c., il valore delle quote si commisura anche sulle donazioni. Si insegna infatti che funzione della collazione è di conservare fra gli eredi la proporzione stabilita nel testamento o nella legge, permettendo ai coeredi, che siano il coniuge o il discendente, di conteggiare il valore della quota non solo sui beni relitti, ma anche sui beni donati a taluno di loro (Cass. n. 3540/1971). Può anche avvenire che un medesimo soggetto si trovi a ricoprire, nello stesso tempo, la posizione di colui che ha diritto di pretendere la collazione delle donazioni altrui e la posizione di colui che sia tenuto a farla in relazione alle donazioni fatte dal defunto in proprio favore. In questi casi, se i donatari conferiscono per imputazione, potrà anche avvenire che le reciproche posizioni, attive e passive, si elidano a vicenda. L’ipotesi si verifica non quando le donazioni sono di pari valore, ma quando i coeredi sono stati gratificati nella stessa misura in proporzione della rispettiva quota. E’ ovvio che se le quote sono uguali, vantaggi e sacrifici saranno equivalenti quando di valore uguale sono le donazioni. Consegue che se i coeredi sono stati gratificati con donazione di diverso valore, il coerede donatario che ha ricevuto di meno, salvo (qualora consentito) il conferimento in natura da parte di chi ha ricevuto di più, deve recuperare la differenza sui beni relitti (artt. 724,725 c.c.) (Cass. n. 28196/2020). La Corte d’appello ha suddiviso il relictum in parti uguali fra i due figli, secondo l’istituzione testamentaria, non perché abbia riconosciuto che le donazioni fossero state fatte con dispensa, ma in base al rilievo che ciascuno dei coeredi donatari aveva avuto più della legittima. La considerazione è irrilevante, perché, fra i soggetti di cui all’art. 737 c.c., le donazioni sono soggette a collazione anche se non siano esse stesse lesive della legittima (Cass. n. 1481/1978; n. 28196/2020). Costituisce principio acquisito che per la collazione non esiste differenza tra disponibile e indisponibile e il riferimento che a tali concetti fa l’art. 737 c.c., non rende rilevante la distinzione ai fini della collazione, ma costituisce applicazione del principio stabilito dall’art. 556 c.c., giacché la dispensa da collazione non può mai risolversi in una lesione dell’altrui legittima: il che peraltro non significa che se il valore della donazione dispensata eccede la disponibile, l’eccedenza è soggetta a collazione, ma piuttosto che il donatario è esposto, per l’eccedenza, all’azione di riduzione (Cass. n. 12317/2019; Cass. n. 711/1966).
- Il quinto motivo del ricorso principale denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 667,686 e 733 c.c.. La disposizione testamentaria, riguardante la formazione della porzione del legittimatio N., doveva intendersi revocata per effetto di successivi comportamenti del testatore. Si sottolinea che non è privo di significato il raffronto con la disciplina dettata in materia di legato dall’art. 686 c.c., che deve intendersi revocato anche quando la cosa oggetto del legato sia stata trasformata dal testatore. Nella specie esistevano una pluralità di atti di disposizione, posti in essere dal de cuius nell’ampio lasso di tempo intercorso fra la formazione della scheda e l’apertura della successione, da cui risultava che il de cuius aveva dato al fondo una destinazione incompatibile con la volontà espressa nel testamento. Il motivo è fondato. Si può dare per acquisito che la disposizione in esame è stata intesa dalle parti e dalla Corte d’appello quale norma impartita dal testatore ex art. 733 c.c.: c.d. assegno divisionale semplice. In questa ipotesi, tutti i beni, inclusi quelli espressamente indicati dal testatore, cadono nella comunione ereditaria (Cass. n. 10761/2019; Cass. n. 4131/1986), e solo in sede di formazione delle porzioni divisorie gli eredi o il giudice nella divisione giudiziale sono tenuti a rispettare le indicazioni del testatore. Nel tentativo di attribuire al vincolo obbligatorio la sua esatta configurazione, si è fatto ricorso al concetto di legato obbligatorio o a quello di modus. Si registrano anche opinioni diverse, che qualificano la norma data dal testatore come disposizioni sui generis a contenuto normativo e preparatorio del riparto divisionale. Appare ancora oggi preferibile l’opinione secondo la quale le norme date dal testatore ai sensi dell’art. 733 c.c., devono inquadrarsi nella categoria dei legati obbligatori. Più precisamente l’assegno divisionale semplice è un legato obbligatorio a carico degli altri coeredi, i quali sono obbligati a lasciare che il bene, o la categoria di beni, indicati dal testatore, siano inclusi nella porzione ereditaria dell’onorato, anziché ripartiti fra tutti i condividenti o assegnati a sorte. La dottrina riconosce che la norma dell’art. 686 c.c., benché sia immediatamente riferita al legato di proprietà, deve trovare applicazione anche ai legati di credito aventi ad oggetto una cosa ereditaria. La giurisprudenza ammette l’applicabilità della norma ai legati di debito (Cass. n. 3101/1968) e alle disposizioni a titolo particolare in genere (Cass. n. 8780/1987), esclusi i legati di somme di denaro o di quantità o di cose indicate solo nel genere (Cass. n. 1768/2007). L’art. 686 c.c., prevede la presunzione di revoca non solo nel caso di alienazione, ma anche nel caso della trasformazione della cosa legata.Ex art. 686 c.c., comma 2, si ha trasformazione quando la cosa abbia perduto la precedente forma e la primitiva denominazione. Secondo la dottrina l’espressione legislativa va intesa nel senso che, per aversi presunzione di revoca, è necessario che la cosa legata abbia perso la sua individualità, anche nel senso del mutamento della sua funzione economico-sociale.
La trasformazione deve essere riconducibile alla volontà del testatore, non a cause naturali o ad opera di persona diversa dal testatore, senza mandato di costui o sua ratifica. Quando sia accertata l’integrazione dei requisiti oggettivi posti dall’art. 686 c.c., in relazione all’alienazione e trasformazione della cosa legata, opera la presunzione di revoca. Si tratta di presunzione iuris tantum, che può essere vinta da prova contraria. L’onere di provare una tale volontà viene ad incombere su chi voglia beneficiare del legato (Cass. n. 3129/1973). Non sembrano esserci ragioni per dubitare che l’ipotesi della trasformazione, intesa nel senso sopra indicato, possa verificarsi anche in relazione a una disposizione impartita dal testatore ai sensi dell’art. 733 c.c.; sempre che la trasformazione sia riconducibile alla volontà del testatore, di essa occorre tenere conto.
La sopravvenienza non vale in sé e per sé considerata, ma è configurata dalla legge causa di revocazione ex lege delle disposizioni testamentarie solo in casi tassativamente determinati (ex artt. 686 e 687 c.c.), fuori dei quali le disposizioni conservano piena efficacia, ad onta dei mutamenti verificatisi nella situazione tenuta presente dal testatore (Cass. n. 1950/1962).