Massima
Fatto tipico offensivo: accanto al principio di materialità (alla stregua del quale è punito un fatto, non un’intenzione) ed al principio di legalità (dovendosi trattare di un fatto additato come inadempimento penalmente rilevante dalla legge), si colloca il principio di offensività, onde un fatto tipico è punibile solo se lede o pone in pericolo un interesse costituzionalmente rilevante alla stregua di un canone di effettività. Accade spesso che ciò sia astrattamente concepibile (offensività astratta), ma concretamente disatteso (inoffensività concreta), e su questa sottile linea si colloca l’angusto confine tra il giudizio affidato in via accentrata alla Corte costituzionale e quello, diffuso, appannaggio del giudice di merito penale.
Crono-articolo
Nel diritto romano il principio di offensività non ha – come è ovvio – una esplicita sistematizzazione di carattere dogmatico. Non mancano tuttavia ipotesi nelle quali affiora la peculiare inoffensività della condotta, come tale non punita: nella Lex Iulia de adulteriis coercendis, del 18 a.C., viene incriminato sia lo stuprum (unione sessuale con fanciulli, con vergini o con vedove di onorevole condizione sociale: per quelle di condizione sociale non onorevole lo stuprum era dunque inoffensivo) che l’adulterium (unione sessuale con donne unite con altri uomini da iustae nuptiae). Per quanto più in specie riguarda l’adulterium, la pena veniva inflitta sia all’uomo che alla donna, ma riguardava il solo caso in cui adultera fosse la donna, potendone discendere figli illegittimi, mentre veniva considerato inoffensivo l’adulterio dell’uomo unito da iustae nuptiae con altre donne.
1889
La codificazione liberale Zanardelli non si occupa in modo diretto del principio di offensività e tuttavia ne coglie in nuce la portata sistematica e garantista laddove punisce, in sede di tentativo, i soli atti esecutivi del delitto, e non anche quelli meramente preparatori (art.61).
1930
Nel codice penale Rocco il principio di offensività trova un riconoscimento palese (seppure non esplicito) soprattutto nelle norme sul tentativo inidoneo (art.56) e sul reato impossibile (art.49), oltre che sull’accordo finalizzato a commettere un reato poi non commesso e sulla istigazione non accolta (art.115).
1948
Viene varata la Costituzione che prevede la natura personale della responsabilità penale, cui è connessa la funzione tendenzialmente rieducativa della pena (art.27): il condannato deve percepire la pena come tendenzialmente rieducativa per la commissione di un fatto (di “fatto commesso” parla l’art.25, comma 2, Cost.) penalmente rilevante che gli viene rimproverato, circostanza da escludersi in presenza di fattispecie inoffensive di interessi (costituzionalmente) tutelati. Un ruolo parimenti importante svolgono gli articoli 13 e 21 per motivazioni più specifiche ed articolate sulle quali si rinvia ultra..
1983
Il 12 settembre esce il decreto legge n. 463, che – in tema di omesso versamento di contributi previdenziali e rilevanza penale della condotta – non prevede specifiche soglie di punibilità, così assumendo punibili anche condotte sostanzialmente inoffensive.
1986
Il 26 marzo esce la sentenza della Corte costituzionale n.62 che, in tema di detenzione di armi ed esplosivi, vara una pronuncia interpretativa di rigetto che salva la norma censurata: secondo il giudice rimettente la norma (articolo 2 della legge 895.67) andrebbe dichiarata incostituzionale perché, nel sanzionare la detenzione di esplosivo, non integra tuttavia il quantitativo minimo idoneo ad integrare il reato, in tal modo violando anche il principio di eguaglianza laddove impedisce al giudice la corretta dosimetria della pena in ragione della gravità dei singoli fatti penalmente rilevanti. Per la Corte si tratta di un problema di natura interpretativa che va risolto dal giudice del merito sulla scorta del principio di offensività: è il giudice del merito a dover rileggere in modo sostanzialistico la fattispecie incriminatrice da applicare, muovendo dal sistema generale e dalla norma particolare da applicare al fine di individuare quale sia il bene protetto dalla fattispecie penale tipica e, con esso, la soglia minima di esplosivo superata la quale si entra nel penalmente rilevante.
Il 19 dicembre esce la sentenza della Corte costituzionale n.269 che dichiara la illegittimità costituzionale dell’art.5, comma 1, della legge 1278 del 1930 laddove incrimina chiunque con manifesti, circolari, guide e con qualsiasi mezzo di pubblicità eccita l’emigrazione dei cittadini: all’art.35, comma 4, la Costituzione garantisce la libertà di emigrazione, sicché la norma penale, nella sostanza, non ha un interesse giuridico da tutelare (e dunque – anche se la Corte non lo afferma espressamente – appare indirettamente lesiva del principio di offensività).
1987
Il 25 maggio viene pubblicata la sentenza della Corte costituzionale n. 189 che dichiara costituzionalmente illegittimi gli articoli 1 e 3 della legge n.1085 del 1929 laddove puniscono chi esponga bandiere di Stati esteri senza la preventiva autorizzazione dell’autorità politica locale: la Corte fa riferimento all’art.3 della Costituzione ma, nel corpo della pronuncia, afferma che il fatto tipico (l’esposizione non autorizzata in pubblico di bandiere estere) difetta “d’ogni significatività ed offensività”.
1990
Il 9 ottobre viene varato il D.P.R. n.309 in tema di sostanze stupefacenti, il cui art.73 sanziona – tra le altre condotte – in particolare la coltivazione di piantine dalle quali possono essere estratte, per l’appunto, sostanze stupefacenti: una fattispecie che sarà molto importante proprio in tema di affermazione del principio di offensività. Per quanto riguarda la detenzione di stupefacenti, la disciplina distingue tra la detenzione di un quantitativo superiore alla dose media giornaliera, penalmente sanzionato, e quella di un quantitativo pari o inferiore, sanzionata solo a livello amministrativo. Lo spartiacque è dato dal dato oggettivo della quantità di sostanza stupefacente detenuta. La norma di cui all’art.73 darà adito ad un ampio dibattito proprio in tema di offensività per quanto concerne l’ampio novero delle condotte punibili in essa esplicitate ed assunte lesive del bene giuridico tutelato dalla norma penale prescindendo tuttavia dal concreto superamento della soglia drogante.
1991
L’11 luglio esce la sentenza della Corte costituzionale n.333 in tema di detenzione di sostanze stupefacenti, con la quale vengono rigettate (per infondatezza) le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 71, 72 e 72-quater della legge 22 dicembre 1975 n. 685, come modificata dalla legge 26 giugno 1990 n. 162 (corrispondenti rispettivamente agli artt. 73, 75 e 78 del D.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309, Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope), sollevate in relazione agli artt. 3, 25, 27 e 32 della Costituzione. Ancora una volta, per la Corte si tratta di un problema di natura interpretativa che va risolto dal giudice del merito sulla scorta del principio di offensività: è il giudice del merito a dover rileggere in modo sostanzialistico la fattispecie incriminatrice da applicare, muovendo dal sistema generale e dalla norma particolare da applicare al fine di individuare quale sia il bene protetto dalla fattispecie penale tipica e, con esso, la soglia minima di sostanza stupefacente superata la quale si entra nel penalmente rilevante. Pur non intaccando la discrezionalità del legislatore in materia, la Corte nondimeno ritiene di dover affidare alla sensibilità del legislatore medesimo il compito essenziale di verificare sul concreto terreno applicativo, alla luce degli effetti provocati dal sistema normativo in questione, la bontà delle scelte di merito non sindacabili come tali dalla Corte e di individuare le linee di ogni possibile ed utile modifica migliorativa.
1993
Il 18 e 19 aprile si svolge una ampia consultazione referendaria che investe anche le norme del DPR 309.90 sulla detenzione di stupefacenti: l’esito, per quanto riguarda le droghe, è abrogativo, con spiccata propensione alla legalizzazione degli atti e delle condotte connesse agli stupefacenti e finalizzate non allo spaccio, ma all’uso personale.
Il 5 giugno viene varato il DPR n.171 che, dando seguito all’esito della tornata referendaria del precedente aprile, abroga talune norme del Testo unico in materia di sostanze stupefacenti n.309.90: segnatamente, si tratta delle norme che puniscono il procacciamento e la detenzione per uso personale; non solo ricevere e detenere sostanza stupefacente per uso personale non è più reato, ma neppure procacciarsela e detenerla, purché sempre per uso personale: può essere applicata solo una sanzione amministrativa. Altrettanto vale per i fatti di importazione, acquisto o illecita detenzione, che comportano sanzione penale solo ove la sostanza stupefacente sia destinata a terzi (e non al proprio personale consumo). Il nuovo spartiacque è costituito dalla detenzione per uso personale, rispetto alla destinazione a terzi (spaccio). Resta invece penalmente rilevante in ogni caso la coltivazione di piante con principio attivo stupefacente.
1995
Il 24 luglio esce la sentenza della Corte costituzionale n.360 che si occupa della questione di costituzionalità delle norme che prevedono in ogni caso la punizione per chi coltiva sostanze stupefacenti. Le censure del giudice rimettente si appuntano anche sulla concreta offensività delle condotte punite, e ciò in quanto la norma penale punisce in modo indipendente rispetto alla quantità di principio attivo contenuta nel singolo prodotto della coltivazione. Per la Corte nondimeno, ed ancora una volta, è il giudice di merito a dover valutare se – nel singolo caso concreto – la coltivazione è o meno idonea a vulnerare il bene giuridico tutelato dalla norma penale, con ciò individuando nel principio di offensività un canone interpretativo per il giudice del merito. Per la Corte non è peraltro irragionevole – con connessa violazione dell’art.3 Cost. – punire da un lato chi acquista e detiene droga solo se ciò è finalizzato allo spaccio a terzi, e punire invece in ogni caso chi coltiva sostanze stupefacenti: laddove vi sia contiguità tra condotta (mera detenzione) e consumo personale, il legislatore può ben essere meno rigoroso rispetto ad ipotesi, quali quella della coltivazione, dove tale contiguità appare meno evidente; ciò anche in ragione della circostanza onde è impossibile determinare a priori quanto sarà il prodotto stupefacente ricavabile dalla coltivazione, e ciò giustifica – sulla scorta di una evidente maggiore pericolosità della condotta – una connessa maggiore severità del trattamento sanzionatorio. Proprio la peculiare pericolosità della condotta di coltivazione consente alla Corte di affermare come in astratto il legislatore abbia rispettato il principio di offensività, avendo incriminato condotte che si palesano lesive o pericolose rispetto a beni giuridici meritevoli di tutela; discorso diverso va fatto per l’offensività in concreto, che è invece appannaggio – in termini di accertamento – del giudice penale del merito, dovendo questi optare per le ermeneusi che, nella singola fattispecie sottopostagli, siano più corerenti con la garanzia che il fatto da punire sia concretamente lesivo o pericoloso per il bene (interesse) protetto dalla norma penale. Ferma dunque la legittimità costituzionale in astratto delle norme che puniscono la coltivazione di sostanze stupefacenti a prescindere dalla relativa destinazione d’uso (personale o di spaccio), dovendosi presidiare il bene di rilevanza costituzionale della salute, è il giudice di merito – accertata la concreta quantità di sostanza stupefacente di volta in volta coltivata – a poter escludere la rilevanza penale del fatto per inoffensività (in concreto) dello stesso; una inoffensività che non va esclusa solo dalla acclarata destinazione della sostanza coltivata all’uso personale, dovendosi piuttosto accertare (stante proprio la necessità di tutelare il bene salute) se la coltivazione medesima coinvolga una quantità di sostanza stupefacente realmente non offensiva (anche) per chi la coltiva, non provocando una apprezzabile stato stupefacente. In sostanza, per la Corte costituzionale se la quantità di stupefacente coltivato è assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico tutelato (salute in primis) dalla norma incriminatrice all’esito dell’accertamento in concreto operato dal giudice di merito, va esclusa la sanzione penale perché il fatto è inoffensivo.
Il 28 dicembre esce la sentenza della Corte costituzionale n.519 che dichiara costituzionalmente illegittimo l’art.670, comma 1, c.p. laddove punisce la c.d. mendacità non invasiva: laddove la mendacità sia, per l’appunto, non invasiva – compendiando mere richieste di aiuto – essa non può assumersi lesiva dell’ordine pubblico, onde alla stregua del principio di ragionevolezza la relativa punizione deve intendersi incostituzionale. La Corte fonda dunque la declaratoria di incostituzionalità della norma sul principio di ragionevolezza, ma al decisum sembra piuttosto sotteso proprio il principio di offensività, palesandosi inesistente (o comunque non astrattamente ledibile) l’interesse giuridico tutelato dalla norma penale che, proprio come tale, si configura incostituzionale.
1997
Il 24 gennaio viene varata la legge costituzionale n.1 che istituisce la Commissione bicamerale per le riforme costituzionali.
Il 4 novembre la Commissione bicamerale per le riforme costituzionali vara, in vista del nuovo testo di Costituzione (che non vedrà mai la luce per il fallimento dei lavori della Commissione stessa), la espressa previsione del principio di offensività, onde “non è punibile chi ha commesso un fatto previsto come reato nel caso in cui esso non abbia determinato una concreta offensività”.
1998
Il 28 giugno esce la sentenza delle SSUU n. 9973 che – nell’assumere configurabile il delitto di cui all’art. 73 D.P.R. 309/90 nella ipotesi di spaccio di stupefacenti anche se la sostanza stupefacente non superi la cosiddetta “soglia drogante” – affermano che la ratio ultima del ridetto articolo 73 è quella di tutelare la salute pubblica, la sicurezza e l’ordine pubblico attraverso il contrasto alla circolazione della droga.
1999
Il 23 giugno esce la sentenza del Tribunale militare di Torino n.504 che, facendo applicazione del principio di offensività, assolve (perché il fatto non sussiste) un militare accusato di aver ricettato una brioche: si è al cospetto di una condotta non offensiva, stante anche lo scarsissimo valore economico della res oggetto dell’azione criminosa.
Il 25 giugno esce la legge n.205 che reca delega al Governo per la depenalizzazione dei reati minori e modifiche al sistema penale e tributario, ed il cui art.18 abroga, tra gli altri, l’art.670 del codice penale in tema di mendicità.
Il 30 dicembre viene varato il decreto legislativo n.507 recante depenalizzazione dei reati minori e riforma del sistema sanzionatorio, ai sensi dell’articolo 1 della legge delega 25 giugno 1999, n. 205, il cui art.54 depenalizza, riducendolo ad illecito amministrativo, il reato contravvenzionale di cui all’art.688, comma 1, c.p., che punisce chi viene colto in luogo pubblico o aperto al pubblico in stato di manifesta ubriachezza. Da questo momento il comma 2, fino ad allora circostanza aggravante (il soggetto agente è stato già condannato per delitto non colposo contro la vita o l’incolumità individuale), diviene ipotesi comune non aggravata.
2000
L’11 luglio esce la sentenza della Corte costituzionale n.263 che dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 120 del codice penale militare di pace (c.d. violazione di consegna). Secondo la Corte, nel caso di specie, la norma penale censurata risponde al requisito, invocato dal remittente, della offensività in astratto, che va intesa come limite di rango costituzionale alla discrezionalità legislativa in materia penale e che spetta alla Corte medesima rilevare (viene richiamata la sentenza n. 360 del 1995). Una volta accertato che il bene giuridico protetto dall’art. 120 del codice penale militare di pace è la funzionalità e l’efficienza di servizi determinati, che il legislatore ha inteso garantire rendendone rigide e tassative le modalità di esecuzione da parte del militare comandato, non vi è ragione per la Corte di dubitare che la violazione della consegna (segnatamente, operare in abiti civili piuttosto che in divisa) sia di per sé suscettibile di ledere interessi di rilievo costituzionale riconducibili ai valori espressi dall’art. 52 della Costituzione. Tanto premesso in astratto, l’accertamento in concreto della sussistenza dei presupposti che identificano la consegna è invece compito dell’autorità giudiziaria militare, alla quale spetta per la Corte valutare se tutte le prescrizioni impartite siano, nei singoli casi, finalizzate al corretto svolgimento del servizio comandato; se, cioè, l’eventuale inadempimento del militare ad alcuna di esse sia idoneo a pregiudicare l’integrità del bene protetto ed abbia quindi carattere di offensività anche in concreto. L’articolo 25 della Costituzione, quale risulta dalla lettura sistematica cui fa da sfondo l’insieme dei valori riconnessi alla dignità umana, postula infatti per la Corte un ininterrotto operare del principio di offensività dal momento della astratta predisposizione normativa a quello della applicazione concreta da parte del giudice, con conseguente distribuzione dei poteri conformativi tra giudice delle leggi e autorità giudiziaria, alla quale soltanto compete di impedire, con un prudente apprezzamento della lesività in concreto, una arbitraria ed illegittima dilatazione della sfera dei fatti da ricondurre al modello legale (vengono richiamate la sentenza n. 360 del 1995, nonché le sentenze nn. 247 del 1997; 133 del 1992; 333 del 1991, 144 del 1991). Appurato allora il duplice operare del principio di offensività sia sul piano della previsione normativa sia su quello dell’applicazione giudiziale, e chiarite le ragioni per le quali esulano dai compiti della Corte le valutazioni del fatto sollecitate dall’ordinanza di rimessione, non rileva per la Corte medesima la questione se l’offensività in concreto apprezzabile dal giudice (del merito) sia dotata di autonomia concettuale o se essa non sia nient’altro che il riflesso della non sussumibilità di singoli casi sotto la previsione della norma penale a causa del necessario concorrere dell’offensività con gli altri elementi che tipizzano il reato (in sostanza non rileva se l’offensività sia da intendersi come autonomo predicato della fattispecie penale o se essa – priva di autonomia – sia piuttosto da rintracciarsi attraverso uno scandaglio di tutti gli altri elementi della fattispecie medesima).
Il 21 novembre esce la sentenza della Corte costituzionale n.519 che, scrutinando la conformità a Costituzione degli articoli 182 e 183 del codice penale militare di pace, salva le norme che incriminano l’attività sediziosa del militare, purché le si interpreti (sentenza interpretativa di rigetto) in modo conforme al principio di offensività.
2002
Il 17 luglio esce la sentenza della Corte costituzionale n.354 che dichiara incostituzionale l’art.688, comma 2, c.p. laddove punisce (ormai a titolo di reato base e non più di circostanza aggravante) chi – già condannato per delitto non colposo contro la vita o l’incolumità individuale – sia colto in stato di manifesta ubriachezza in luogo pubblico o aperto al pubblico. Dal momento che non è più punibile in genere l’essere colti in stato di manifesta ubriachezza nei luoghi ridetti, la sanzione penale prevista è ormai esclusivamente avvinta alle qualità soggettive dell’autore della condotta: in sostanza rileva la sola qualità personale del soggetto, e non già le concrete modalità e circostanze che hanno presidiato ad un comportamento assunto penalmente rilevante, con palmare lesione del principio di offensività. Per la Corte la contravvenzione in parola finisce con l’assumere i tratti di una sorta di reato d’autore, in aperta violazione del principio di offensività del reato, che nella relativa accezione astratta, costituisce un limite alla discrezionalità legislativa in materia penale posto sotto il presidio della Corte medesima (vengono richiamate le precedenti sentenze n. 263 del 2000 e n. 360 del 1995). Tale limite, desumibile dall’articolo 25, secondo comma, della Costituzione, nel relativo legame sistematico con l’insieme dei valori connessi alla dignità umana, opera in questo caso nel senso di impedire che la qualità di condannato per determinati delitti possa trasformare in reato fatti che per la generalità dei soggetti non costituiscono illecito penale.
2004
Il 16 luglio esce la sentenza della sezione VI della Cassazione n. 31472, che abbraccia la tesi della coltivazione di sostanze stupefacenti come reato di pericolo astratto: anche poche piantine, o anche piantine con basso grado di tossicità, implicano coltivazione punibile, non potendosi neppure fare riferimento – per escludere la sanzione penale – al grado di maturazione della piantina: dal seme interrato alla raccolta, la coltivazione è penalmente proibita, potendo al più le ridette circostanze rilevare ai sensi dell’articolo 80 del TU 309.90, e dunque ai fini dell’applicazione dell’aggravante speciale della ingente quantità. Si tratta di un orientamento pretorio che contraddice le indicazioni della Corte costituzionale la quale, valutando le norme pertinenti compatibili con la Costituzione in termini di offensività astratta, ha invece richiesto al giudice del merito nel 1995 verifiche ermeneutiche caso per caso di compatibilità in concreto col detto principio. Si tratta di una presa di posizione che si scontra allora con altre pronunce tendenti ad escludere financo la tipicità della concreta condotta laddove sia coltivata una sola piantina di sostanza stupefacente (con conseguente opzione per la tesi che vede nella fattispecie un reato di pericolo concreto).
2005
Il 15 novembre esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n.150 che – sconfessando ancora la sentenza della Corte costituzionale del 1995 – ribadisce come la coltivazione di sostanze stupefacenti sia reato di pericolo astratto: anche poche piantine, o anche piantine con basso grado di tossicità, implicano coltivazione punibile, non potendosi neppure fare riferimento – per escludere la sanzione penale – al grado di maturazione della piantina: dal seme interrato alla raccolta, la coltivazione è penalmente proibita, potendo al più le ridette circostanze rilevare al fine dell’applicazione dell’articolo 80 del TU 309.90 (aggravante speciale della ingente quantità).
Il 30 dicembre viene varato il decreto legge n. 272, che ritocca la disciplina in tema di sostanze stupefacenti.
2006
Il 21 febbraio viene varata la legge n.49 che converte in legge, con modificazioni, il decreto legge n.272.05.
2007
Il 21 settembre esce la sentenza della sezione VI n.40712 che si occupa ancora del reato di coltivazione di sostanze stupefacenti, distinguendo la coltivazione di tipo organizzato ed imprenditoriale (c.d. coltivazione in senso tecnico agrario) dalla coltivazione puramente domestica: mentre la prima è connotata da elevato coefficiente organizzativo, che si desume dal tipo concreto di coltivazione riscontrato (in terreno o in vaso), dal tipo di semina e di governo della coltivazione, nonché dalla disponibilità di strutture, di attrezzi e di sostanze che fanno pensare, per l’appunto, ad una coltivazione di tipo imprenditoriale; la seconda sarebbe invece presuntivamente orientata al consumo personale dello stupefacente siccome coltivato in casa. Da questo punto di vista, la coltivazione domestica può essere assimilata alla detenzione per uso personale, andando esente da pena, mentre quella imprenditoriale e tecnico agraria si atteggia a concretamente offensiva e come tale soggetta a sanzione penale.
2008
Il 10 luglio escono le sentenze gemelle delle SSUU n.28605 e 28606 in tema di coltivazione di piantine con sostanze stupefacenti. La Corte sconfessa l’orientamento inteso a distinguere tra coltivazione “imprenditoriale” e “domestica”, assumendo in ogni caso, sul piano astratto, penalmente rilevante la condotta di coltivazione di sostanze stupefacenti. Dopo aver richiamato la sentenza della Corte costituzionale del 1995, le SSUU affermano come non vi sia nessun dato letterale nella legge (anche dopo la riforma del 2005-2006) che autorizzi a discriminare tra i due tipi di coltivazione a fini di punibilità della condotta, dovendosi assumere la coltivazione in ogni caso reato, in disparte le caratteristiche della coltivazione e la quantità di principio attivo da essa ricavabile. E’ ben vero che il TU del 1990 prevede ipotesi di autorizzazione alla coltivazione per usi di ricerca o didattici, ma questo non implica che sia per ciò solo punibile la coltivazione non autorizzata, ma comunque su larga scala, con esclusione della sanzione penale per la coltivazione domestica: anche quest’ultima contribuisce infatti ad accrescere la quantità stupefacente esistente ed in circolazione, non potendosi dunque assimilare tout court alla detenzione di sostanza stupefacente per uso personale e meritando come tale sanzione penale (perché capace di vulnerare il bene salute). Anche la coltivazione ad uso personale va dunque punita, anche se – proprio sul crinale del principio di offensività – sarà il giudice di merito del singolo processo, di volta in volta, a poter accertare la inoffensività della condotta perché assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico protetto dalla norma penale. Le SSUU appaiono tuttavia molto severe e rigorose sul punto della c.d. inoffensività in concreto: solo laddove la coltivazione non produca un effetto stupefacente in concreto rilevabile (non accrescendo dunque la quantità di sostanza stupefacente esistente ed in circolazione) può parlarsi di inoffensività, non dovendo essere leso né tampoco posto in pericolo, neppure in grado minimo, il bene tutelato dalla norma penale.
2010
L’8 luglio esce la sentenza della Corte costituzionale n.249 che si occupa dell’art.61, n.11..bis, del codice penale, laddove configura – in tema di immigrazione – la c.d. aggravante della clandestinità punendo più gravemente il fatto commesso da chi si trovi illegalmente sul territorio nazionale. Secondo la Corte si tratta di una disposizione incostituzionale, ponendosi in frizione tanto con l’art.3 della Costituzione, quanto con l’art.25, comma 2, della Carta (laddove parla di “fatto commesso”), riconducendo proprio a quest’ultima disposizione costituzionale il principio di offensività: un canone che rende inammissibile punire più gravemente un soggetto solo perché immigrato irregolare, come tale presunto più pericoloso, per qualsiasi violazione penalmente rilevante egli ponga in essere. Per la Corte si è al cospetto di una responsabilità penale d’autore che si pone del tutto fuori asse rispetto al principio di offensività: rispetto al fatto reato commesso, l’essere presente illegalmente sul territorio dello Stato è circostanza totalmente sganciata, onde – anche al fine di garantire il rispetto dei diritti inviolabili – un trattamento penale più severo deve assumersi incostituzionale perché legato alla sola qualità della persona.
2014
Il 25 febbraio esce la sentenza della Corte costituzionale n.32 che dichiara la illegittimità costituzionale della disciplina sugli stupefacenti di cui al DPR 309.90 (articoli 73 e 75) come novellata dal decreto legge n.272.05.
Il 28 aprile viene varata la legge n.67 con la quale vengono conferite talune deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio.
Il 21 maggio esce la sentenza della Corte costituzionale n. 139 che si occupa del reato di omesso versamento di contributi previdenziali, e segnatamente dell’art.2, comma 1.bis, del decreto legge 463.83, laddove non prevede soglie minime di punibilità e dunque collega la sanzione penale anche ad omissioni contributive di esiguo valore: secondo la Corte il principio di offensività della condotta penalmente rilevante ha rilevanza costituzionale (viene richiamato il precedente n.333 del 1991), e va rispettato dal legislatore anche laddove questo metta mano alla disciplina pertinente per deflazionare la giustizia penale (cosa che la Corte indirettamente sollecita). In ogni caso, il principio costituzionale di offensività ha rilevanza dal punto di vista interpretativo e, dunque, del concreto accertamento da parte del giudice del merito: il principio di necessaria offensività della condotta si atteggia infatti a canone ermeneutico, onde il giudice deve applicare la norma incriminatrice, avuto riguardo alla precipua ratio della medesima, solo laddove non si configuri concretamente la inidoneità lesiva dei beni giuridici (penalmente) tutelati.
2015
Il 10 marzo esce l’ordinanza della sezione I della Corte d’Appello di Brescia con la quale viene rimessa alla Corte costituzionale la questione in ordine alla offensività della coltivazione di sostanze stupefacenti allorché tale coltivazione sia finalizzata al consumo personale. La Corte richiama l’arresto delle SSUU n. 9973 del 1998 che – nell’assumere configurabile il delitto di cui all’art. 73 D.P.R. 309/90 nella ipotesi di spaccio di stupefacenti anche se la sostanza stupefacente non superi la cosiddetta “soglia drogante” – affermano come la ratio ultima del ridetto articoli 73 è quella di tutelare la salute pubblica, la sicurezza e l’ordine pubblico attraverso il contrasto alla circolazione della droga: muovendo da questo principio, si ritrae il corollario che qualora la coltivazione sia finalizzata non allo spaccio, ma al consumo personale, i ridetti interessi non possono ritenersi vulnerati, dovendosi assumere scongiurato lo stesso evento che la norma vuole evitare, vale a dire la circolazione della droga.
Il 16 marzo esce il decreto legislativo n.28 che, in attuazione della delega conferita al Governo con legge n.67.14, introduce nel codice penale il nuovo art.131.bis in tema di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, che intercetta il tema della necessaria offensività della condotta penalmente rilevante.
2016
Il 15 gennaio esce il decreto legislativo n.8 recante disposizioni in materia di depenalizzazione, a norma dell’articolo 2, comma 2, della legge delega 28 aprile 2014, n. 67, che depenalizza tra gli altri il reato di omissione contributiva (omesso versamento di contributi previdenziali) laddove l’importo omesso non superi una determinata soglia annua (10 mila euro).
Il 20 maggio esce la sentenza della Corte costituzionale n.109 che si occupa della coltivazione di sostanza stupefacente, con particolare riguardo all’ipotesi in cui tale coltivazione sia finalizzata al mero consumo personale, e non allo spaccio. La finalità personale – per la Corte – non può esimere dall’applicazione della sanzione penale (palesandosi offensiva in astratto), e tuttavia il singolo giudice del merito deve verificare in concreto se la condotta del soggetto agente è realmente offensiva, sia sulla scorta della disciplina del reato impossibile ex art.49 c.p., sia sulla scorta della stessa necessaria tipicità della fattispecie, onde il fatto è tipico solo se concretamente offensivo.
Il 16 giugno esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.25057 alla cui stregua, in tema di coltivazione di stupefacenti, l’offensività della condotta non è esclusa dal mancato compimento del processo di maturazione dei vegetali, neppure quando risulti l’assenza di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, se gli arbusti sono prevedibilmente in grado di rendere, all’esito di un fisiologico sviluppo, quantità significative di prodotto dotato di effetti droganti, e ciò in quanto “coltivare” è attività che si riferisce all’intero ciclo dell’organismo biologico.
*Il 15 dicembre esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n.53337 alla cui stregua, in tema di coltivazione di stupefacenti, l’offensività della condotta non è esclusa dal mancato compimento del processo di maturazione dei vegetali, neppure quando risulti l’assenza di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, se gli arbusti sono prevedibilmente in grado di rendere, all’esito di un fisiologico sviluppo, quantità significative di prodotto dotato di effetti droganti, e ciò in quanto “coltivare” è attività che si riferisce all’intero ciclo dell’organismo biologico.
2017
L’ 8 marzo viene varata la legge n. 24 recante disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie (c.d. legge Gelli-Bianco) che disciplina, tra le altre cose, i profili di responsabilità colposa nell’attività medico-chirurgica. Sul crinale penale, rileva in particolare l’art. 6, che introduce nel codice penale una nuova fattispecie incriminatrice, rubricata all’art. 590 sexies: “responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario” ed il cui comma 1 stabilisce che se i fatti di omicidio colposo e di lesioni personali colpose “sono commessi nell’esercizio della professione sanitaria, si applicano le pene ivi previste salvo quanto disposto dal secondo comma”; il quale ultimo (comma 2), a propria volta, prevede un’ipotesi di “esclusione della punibilità” (dalla configurazione dogmatica incerta, potendosi anche compendiare in un difetto di offensività in astratto della condotta) onde: “qualora l’evento si sia verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto” circostanza quest’ultima che richiama proprio il canone della offensività in concreto della condotta punibile. Viene anche abrogato l’art. 3, comma 1, D.L. 13 settembre 2012, n. 158, convertito, con modificazioni, da L. 8 novembre 2012, n. 189, meglio noto come “Decreto Balduzzi”, laddove esclude la penale responsabilità, per colpa lieve, dell’esercente la professione sanitaria, “che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica”.
L’11 maggio esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n.23093, onde il furto di un cartello stradale arrugginito non configura un reato. Nel caso di specie, il cartello stradale oggetto di appropriazione era stato fatto oggetto di sostituzione, trattandosi dunque di res derelicta, avendo l’ente proprietario deliberato la dismissione dell’oggetto, sostituito con un altro, in quanto ormai arrugginito. Secondo la Corte, stante questa configurazione fattuale, oggettivamente accertata e di cui la motivazione della sentenza impugnata dà atto, occorre interrogarsi sulla compatibilità, nel caso di specie, della declaratoria di responsabilità per il reato di furto con il principio di offensività, quale canone che ha trovato espresso riconoscimento sia nella giurisprudenza della Corte Costituzionale che in quella della Corte di cassazione medesima. Il giudice delle leggi ha infatti più volte affermato – prosegue la Corte – la rilevanza del principio di offensività e, pur non esprimendosi in ordine al relativo fondamento costituzionale, ha asserito che esso costituisce un canone ermeneutico di fondamentale importanza (vengono richiamate in tal senso, Corte cost. 19-26 marzo 1986, n. 62, Vo. De., in materia di armi ed esplosivi; Corte cost. 26 settembre -6 ottobre 1988 ,n. 957, Le., in tema di sottrazione di minorenni; Corte cost. 24-7-1995 n 360, Le. e Corte cost. 27-3-1992 n 133, Bizzarri, in materia di sostanze stupefacenti). L’applicazione di tale criterio interpretativo importa, secondo il giudice costituzionale, in primo luogo, l’individuazione del bene tutelato, argomentando “dal sistema tutto e dalla norma particolare” (così, letteralmente, Corte cost., 19-26 marzo 1986 n 62); e, in secondo luogo, la valutazione della effettiva lesività del fatto rispetto a tale bene (interesse) tutelato. In quest’ottica – prosegue ancora la Cassazione – la Corte costituzionale ha, più volte (Corte cost. n. 263 e n 519 del 2000; ord. n. 30 del 2007), additato al giudice la necessità di verificare la sussistenza non solo della formale tipicità del fatto ma anche della sua effettiva capacità di offendere il bene protetto. In questa prospettiva, si è affermato, in giurisprudenza, che il giudice di merito deve verificare se la condotta oggetto della contestazione risulti effettivamente e concretamente idonea a ledere o a porre in pericolo il bene giuridico tutelato, giacché, ove il comportamento posto in essere dall’agente risulti assolutamente inidoneo a porre a repentaglio il bene protetto, deve concludersi per l’inoffensività della condotta, con la conseguente applicazione della disciplina del reato impossibile (vengono richimate Cass., Sez. 4, n. 40819 del 21-10-2008; Cass. 2-5-2001, Pi.; Sez. 4, n. 37253 del 17-9-2002). Infine, la Corte richiama anche le Sezioni unite (Sez. U., 2- 4-1998, Kr.), che – pur esprimendosi nel senso onde integra il reato di cui all’art. 73 D.P.R. n. 309 del 1990 la cessione a terzi di sostanza stupefacente contenente un principio attivo così modesto da escluderne l’efficacia drogante, in quanto i beni oggetto della tutela penale, individuabili in quelli della salute pubblica, della sicurezza e dell’ordine pubblico, sono messi in pericolo anche dallo spaccio di dosi contenenti un principio attivo al di sotto della soglia drogante – si sono tuttavia richiamate al principio, affermato dalla giurisprudenza costituzionale, secondo il quale, ove la singola condotta sia assolutamente inidonea a porre in pericolo i beni giuridici tutelati, viene meno la riconducibilità della fattispecie concreta a quella astratta, le indispensabili connotazioni di offensività di quest’ultima implicando infatti, di riflesso, la necessità che anche in concreto l’offensività sia ravvisabile, almeno in grado minimo, nella singola condotta dell’agente. In difetto di ciò, la fattispecie verrebbe a refluire nella figura del reato impossibile.
Il 25 maggio esce la sentenza della IV sezione n.26276 che si occupa di una fattispecie in tema di guida in stato di ebbrezza (contravvenzione) e di particolare tenuità del fatto ex art.131.bis c.p., in un caso in cui il tasso alcolemico rilevato alla guida supera di poco la soglia che la legge prevede a fini di punibilità. La Corte rileva in premessa essere fuori discussione, per averlo chiarito le Sezioni Unite, che la causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto di cui all’art. 131.bis cod. pen. – in quanto applicabile in presenza dei presupposti e nel rispetto dei limiti fissati dalla norma – ad ogni fattispecie criminosa, è configurabile anche in relazione al reato di guida in stato di ebbrezza, non essendo in astratto incompatibile con il giudizio di particolare tenuità la presenza di soglie di punibilità all’interno della fattispecie tipica, rapportate ai valori di tassi alcolemici accertati, anche nel caso in cui, al di sotto della soglia di rilevanza penale, vi è una fattispecie che integra un illecito amministrativo, richiamando sul punto la sentenza delle Sez. Un., n. 13681 del 25/2/2016, Tushaj. Le stesse SS.UU Tushaj hanno chiarito – prosegue la Corte – che, ai fini della configurabilità della causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, prevista dall’art. 131 bis cod. pen., il giudizio sulla tenuità richiede una valutazione complessa e congiunta di tutte le peculiarità della fattispecie concreta, che tenga conto, ai sensi dell’art. 133, primo comma, cod. pen., delle modalità della condotta, del grado di colpevolezza da esse desumibile e dell’entità del danno o del pericolo.
Il 16 giugno esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n.30238 alla cui stregua, in materia di coltivazione di sostanze stupefacenti, ai fini della valutazione dell’offensività della condotta non bisogna considerare la quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, ma l’attitudine della pianta – anche per le modalità di coltivazione che la contraddistinguono – a giungere a maturazione e a produrre la sostanza stupefacente.
Il 21 luglio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.36037 alla cui stregua la condotta di coltivazione non autorizzata di una pianta conforme al tipo botanico, la quale abbia, se matura, raggiunto la soglia di capacità drogante minima, non è penalmente rilevante quando sia del tutto inidonea, in ragione del conclamato uso esclusivamente personale e della minima entità della coltivazione, a determinare sia un pericolo per la salute pubblica, sia la possibile diffusione della sostanza producibile.
Il 22 settembre esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n. 43849 che, nel pronunciarsi ancora una volta su di una fattispecie di coltivazione in casa di sostanza stupefacente, esclude il rilievo della c.d. minima offensività della condotta, affermando come l’illiceità penale della coltivazione di sostanze stupefacenti persista anche qualora questa sia destinata al solo uso personale ed indipendentemente dalla quantità di principio attivo prodotto, sussistendo in ogni caso, per l’appunto, un’offensività della condotta penalmente rilevante.
Il 20 ottobre esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.48352 che rappresenta, in termini generali, come ai fini della declaratoria di non punibilità prevista dall’art.131 bis c.p. occorra distinguere la tenuità del danno – che, descrivendo le conseguenze di una condotta criminosa sul piano patrimoniale, si esaurisce in una specifica connotazione del fatto – dalla tenuità dell’offesa, che invece riguarda la tipicità del fatto nella relativa globalità.
Il 13 novembre esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 51597 che si pronuncia in tema di omesso versamento di ritenute limitato tuttavia solo ad una somma esigua (poche centinaia di Euro), assumendo che in questo caso la punibilità può essere esclusa per particolare tenuità del fatto. Per la Corte, più in specie, la causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità dal fatto può trovare applicazione anche in riferimento ai reati tributari per i quali sia prevista una soglia di punibilità, tenendo conto di tutte le peculiarità del caso concreto.
Il 20 novembre esce la sentenza delle SSUU della Cassazione civile n.27434, che premette come. l’ingiustificata interferenza nell’attività giudiziaria costituisca illecito disciplinare del magistrato, ai sensi dell’art. 2, comma 1, lett. e, del d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, allorché la condotta interferente sia idonea, almeno astrattamente, a mettere in pericolo la libertà di determinazione e la serenità di giudizio del magistrato destinatario, onde lo stesso configura un illecito cosiddetto di pericolo che non va inteso come pregiudizio patrimoniale o non patrimoniale, ma come lesione o messa in pericolo del bene giuridico tutelato dalla norma. Le SSUU precisano nondimeno come in tema di illeciti disciplinari riguardanti i magistrati, la norma di cui all’art. 3 bis del d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, aggiunta dall’art. 1 della legge 24 ottobre 2006, n. 269, (secondo cui “l’illecito disciplinare non è configurabile quando il fatto è di scarsa rilevanza“), introduca nella materia disciplinare il principio di offensività, proprio del diritto penale, onde la sussistenza dell’illecito va comunque riscontrata alla luce della lesione o messa in pericolo del bene giuridico tutelato dalla norma, con accertamento in concreto, effettuato “ex post“, sicché – ai sensi dell’art. 3-bis del d.lgs. n. 109 del 2006 – la condotta disciplinare irrilevante va identificata, una volta accertata la realizzazione della fattispecie tipica, in quella che non compromette l’immagine del magistrato.
2018
Il 18 gennaio esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n.2030, alla cui stregua la coltivazione organizzata (a ciclo continuo) di cannabis nel seminterrato esclude di per sé la non punibilità per tenuità del fatto.
Il 16 marzo esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n.12226 alla cui stregua, laddove sia stata accertata la coltivazione di piantine di cannabis, non può darsi rilievo né alla scarsa consistenza del principio attivo contenuto nelle piantine, né alla destinazione personale, rimanendo il fatto pienamente offensivo.
Il 13 luglio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 32170 secondo cui è manifestamente infondata la questione di illegittimità costituzionale del reato di adescamento di minorenne previsto dall’art. 609 undecies, c.p. in relazione agli artt. 13, 25, 21, 27 Cost. perché, integrando un reato di pericolo concreto, volto a neutralizzare il rischio di commissione dei più gravi reati a sfondo sessuale lesivi del corretto sviluppo psicofisico del minore e della sua autodeterminazione, non contrasta con il principio di offensività; necessitando, ai fini della verifica del dolo specifico, del ricorso a parametri oggettivi, dai quali possa dedursi il movente sessuale della condotta, non viola il principio di determinatezza della fattispecie penale; punendo, con una cornice edittale equa proporzionatamente inferiore rispetto a quella prevista per i reati fine, comportamenti idonei a mettere in pericolo un bene giuridico primario, meritevole di intensa tutela, è compatibile con il principio della rieducazione della pena.
Il 24 agosto esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 38868 che richiama il consolidato orientamento secondo cui la coltivazione di piante da cui sono estraibili sostanze stupefacenti rientra tout court nell’ambito delle condotte di cui al d.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, in quanto i reati che puniscono le varie forme di detenzione di sostanze stupefacenti sono reati di pericolo astratto, sicché, laddove il fatto sia conforme alla fattispecie tipica, ricorre necessariamente l’astratta offensività della condotta. Tuttavia, ricorda la Corte, permane sempre la possibilità di verificare l’offensività in concreto della condotta che, nel caso della coltivazione, non ricorre soltanto se la sostanza ricavabile dalla coltivazione non sia idonea a produrre un effetto stupefacente in concreto rilevabile, ovvero allorquando la sostanza sia conforme al “tipo”, ma non abbia la qualità minima per svolgere la funzione di droga.
Il 31 ottobre esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n. 49845 che conferma l’orientamento secondo cui costituisce condotta penalmente rilevante qualsiasi attività non autorizzata di coltivazione di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, anche quando sia realizzata per la destinazione del prodotto ad uso personale.
L’8 novembre esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 50628 che fa proprio il granitico orientamento secondo cui costituisce condotta penalmente rilevante, ai sensi del citato art. 73 d.P.R. n. 309/1990, qualsiasi attività non autorizzata di coltivazione di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, anche quando tale attività sia realizzata per la destinazione del prodotto ad uso personale; risulta irrilevante la distinzione tra coltivazione “in senso tecnico-agrario” ovvero” imprenditoriale” e coltivazione domestica”, in quanto qualsiasi tipo di coltivazione è caratterizzato dal dato essenziale e distintivo- rispetto alla detenzione- di contribuire ad accrescere la quantità di sostanza stupefacente esistente; tuttavia, ai fini della punibilità, spetta al giudice verificare in concreto l’offensività della condotta riferita all’idoneità della sostanza ricavata a produrre un effetto drogante rilevabile; tale ultima affermazione risulta evidentemente imposta, pur avendo la fattispecie criminosa natura di reato di pericolo presunto, dall’esigenza di verificare in concreto l’offensività specifica della singola condotta accertata, secondo i principi affermati dalla consolidata giurisprudenza costituzionale sul punto.
Il 17 dicembre esce la sentenza della Vi sezione della Cassazione n. 56737 secondo la quale la legge n. 242 del 2016 (norme per il sostegno e la promozione della coltivazione e della filiera della canapa (Cannabis sativa L.), quale coltura in grado di contribuire alla riduzione dell’impatto ambientale in agricoltura, alla riduzione del consumo dei suoli e della desertificazione e alla perdita di biodiversità, nonché come coltura da impiegare quale possibile sostituto di colture eccedentarie e come coltura da rotazione) non ha comportato la ridefinizione dell’ambito di liceità delle diverse condotte di detenzione e cessione della marijuana e dell’hashish quali derivati dalle coltivazioni di cannabis sativa L. Pertanto, La cannabis sativa L, in quanto contenente il principio attivo Delta-9-THC, presenta natura di sostanza stupefacente sia per la previgente normativa che per l’attuale disciplina, costituita dall’art. 14 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, in cui l’allegata Tabella II prevede solo l’indicazione della Cannabis, comprensiva di tutte le sue possibili varianti e forme di presentazione, e riferibile a tutti i preparati che la contengano, rendendo così superfluo l’inserimento del principio attivo Delta-9-THC. L’introduzione della legge 2 dicembre 2016 n. 242 che, stabilendo la liceità della coltivazione della cannabis sativa L per finalità espresse e tassative, non prevede nel proprio ambito di applicazione quello della commercializzazione dei prodotti di tale coltivazione costituiti dalle infiorescenze (marijuana) e dalla resina (hashish) e – pertanto – non si estende alle condotte di detenzione e cessione di tali derivati che continuano ad essere sottoposte alla disciplina prevista dal d.P.R. n. 309/90, sempre che dette sostanze presentino un effetto drogante rilevabile.
2019
Il 1° febbraio esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n. 5009 che, in tema di applicabilità dell’art. 131 bis c.p. al reato di guida in stato di ebbrezza, ribadisce l’orientamento secondo cui la causa di non punibilità è configurabile – in presenza dei presupposti e nel rispetto dei limiti fissati dalla norma – ad ogni fattispecie criminosa, e pertanto anche in relazione al reato di guida in stato di ebbrezza, non essendo, in astratto, incompatibile, con il giudizio di particolare tenuità, la presenza di soglie di punibilità all’interno della fattispecie tipica, rapportate ai valori di tassi alcolemici accertati, anche nel caso in cui, al di sotto della soglia di rilevanza penale, vi è una fattispecie che integra un illecito amministrativo. Da ciò la Corte ne deduce che, la natura di reati autonomi delle diverse fattispecie dell’art. 186, co. 2 lett. b) e c) Cod. str., delimitate ‘internamente’ in virtù del grado alcolemico, implica che il giudizio di particolare tenuità va espresso considerando l’escursione di gravità interna alla singola fattispecie e non la complessiva scala di gravità definita dagli illeciti descritti da quelle disposizioni (e da quella di cui alla lettera a).
* * *
L’8 marzo esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 10360 onde ai fini dell’integrazione del delitto di violenza privata è necessario che la violenza o la minaccia costitutive della fattispecie incriminatrice comportino la perdita o, comunque, la significativa riduzione della libertà di movimento o della capacità di autodeterminazione del soggetto passivo, essendo, invece, penalmente irrilevanti, in virtù del principio di offensività, i comportamenti che, pur costituendo violazioni di regole deontologiche, etiche o sociali, si rivelino inidonei a limitarne la libertà di movimento, o ad influenzarne significativamente il processo di formazione della volontà.
* * *
Il 29 maggio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 23787 che si pone nel solco dell’orientamento secondo cui ai fini della configurabilità del reato di coltivazione di piante stupefacenti, non è sufficiente la mera coltivazione di una pianta conforme al tipo botanico vietato che, per maturazione, abbia raggiunto la soglia minima di capacità drogante, ma è altresì necessario verificare se tale attività sia concretamente idonea a ledere la salute pubblica e a favorire la circolazione della droga alimentandone il mercato, essendo stata ad esempio esclusa la sussistenza del reato per la minima estensione della coltivazione e per il “conclamato uso personale” di quanto prodotto.
* * *
Il 7 giugno esce la sentenza della Corte Costituzionale n. 141 che affronta la questione della legittimità delle norme incriminatrici in materia di prostituzione. Dopo un ampio excursus diacronico e comparato sui diversi sistemi legislativi in materia, la Corte rileva che nell’attuale momento storico, quando pure non si sia al cospetto di vere e proprie forme di prostituzione forzata, la scelta di “vendere sesso” trova alla sua radice, nella larghissima maggioranza dei casi, fattori che condizionano e limitano la libertà di autodeterminazione dell’individuo, riducendo, talora drasticamente, il ventaglio delle sue opzioni esistenziali. Può trattarsi non soltanto di fattori di ordine economico, ma anche di situazioni di disagio sul piano affettivo o delle relazioni familiari e sociali, capaci di indebolire la naturale riluttanza verso una “scelta di vita” quale quella di offrire prestazioni sessuali contro mercede.
Al riguardo, occorre considerare che, in questa materia, la linea di confine tra decisioni autenticamente libere e decisioni che non lo sono si presenta fluida già sul piano teorico – risultando, perciò, non agevolmente traducibile sul piano normativo in formule astratte – e, correlativamente, di problematica verifica sul piano processuale, tramite un accertamento ex post affidato alla giurisdizione penale.
A ciò si affiancano, peraltro, anche preoccupazioni di tutela delle stesse persone che si prostituiscono – in ipotesi – per effetto di una scelta (almeno inizialmente) libera e consapevole. Ciò in considerazione dei pericoli cui esse si espongono nell’esercizio della loro attività: pericoli connessi al loro ingresso in un circuito dal quale sarà poi difficile uscire volontariamente, stante la facilità con la quale possono divenire oggetto di indebite pressioni e ricatti, nonché ai rischi per l’integrità fisica e la salute, cui esse inevitabilmente vanno incontro nel momento in cui si trovano isolate a contatto con il cliente (pericoli di violenza fisica, di coazioni a subire atti sessuali indesiderati, di contagio conseguente a rapporti sessuali non protetti e via dicendo).
Riguardo, poi, alla concorrente finalità di tutela della dignità umana, è incontestabile che, nella cornice della previsione dell’art. 41, secondo comma, Cost., il concetto di «dignità» vada inteso in senso oggettivo: non si tratta, di certo, della “dignità soggettiva”, quale la concepisce il singolo imprenditore o il singolo lavoratore. È, dunque, il legislatore che – facendosi interprete del comune sentimento sociale in un determinato momento storico – ravvisa nella prostituzione, anche volontaria, una attività che degrada e svilisce l’individuo, in quanto riduce la sfera più intima della corporeità a livello di merce a disposizione del cliente.
Valutazioni tutte, quelle dianzi indicate, che spiegano e giustificano, dunque, sul piano costituzionale, la scelta del legislatore italiano – per nulla isolata, come si è visto, nel panorama internazionale – di inibire, con le norme denunciate, la possibilità che l’esercizio della prostituzione formi oggetto di attività imprenditoriale.
Richiamando poi la propria costante giurisprudenza, la Corte afferma che l’individuazione dei fatti punibili, così come la determinazione della pena per ciascuno di essi, costituisce materia affidata alla discrezionalità del legislatore. Gli apprezzamenti in ordine alla “meritevolezza” e al “bisogno di pena” – dunque, sull’opportunità del ricorso alla tutela penale e sui livelli ottimali della stessa – sono, infatti, per loro natura, tipicamente politici. Le scelte legislative in materia sono pertanto censurabili, in sede di sindacato di legittimità costituzionale, solo ove trasmodino nella manifesta irragionevolezza o nell’arbitrio.
Tali affermazioni appaiono tanto più valide in rapporto a un fenomeno come quello della prostituzione, il quale, per quanto rilevato in apertura di discorso, si presta a un’ampia varietà di differenti valutazioni e strategie d’intervento.
Per quel che attiene, poi, più specificamente, alla limitazione della discrezionalità legislativa che deriva, comunque sia, dall’esigenza di rispetto del principio di offensività, la giurisprudenza della Corte è granitica nell’affermare come tale principio operi su due piani distinti. Da un lato, come precetto rivolto al legislatore, il quale è tenuto a limitare la repressione penale a fatti che, nella loro configurazione astratta, presentino un contenuto offensivo di beni o interessi ritenuti meritevoli di protezione (cosiddetta offensività “in astratto”). Dall’altro, come criterio interpretativo-applicativo per il giudice comune, il quale, nella verifica della riconducibilità della singola fattispecie concreta al paradigma punitivo astratto, dovrà evitare che ricadano in quest’ultimo comportamenti privi di qualsiasi attitudine lesiva (cosiddetta offensività “in concreto”). Quanto al primo versante, il principio di offensività “in astratto” non implica che l’unico modulo di intervento costituzionalmente legittimo sia quello del reato di danno. Rientra, infatti, nella discrezionalità del legislatore l’opzione per forme di tutela anticipata, le quali colpiscano l’aggressione ai valori protetti nello stadio della semplice esposizione a pericolo, nonché, correlativamente, l’individuazione della soglia di pericolosità alla quale riconnettere la risposta punitiva: prospettiva nella quale non è precluso, in linea di principio, il ricorso al modello del reato di pericolo presunto. In tale ipotesi, tuttavia, affinché il principio in questione possa ritenersi rispettato, occorrerà “che la valutazione legislativa di pericolosità del fatto incriminato non risulti irrazionale e arbitraria, ma risponda all’id quod plerumque accidit”.
* * *
Il 10 luglio esce la sentenza della Sezioni Unite della Cassazione n. 30475 che interviene sulla rilevanza penale della coltivazione della cannabis all’indomani dell’entrata in vigore della L. 242 del 2016.
In primo luogo la Corte ricorda che, in base al T.U. stupefacenti, la coltivazione della cannabis e la commercializzazione dei prodotti da essa ottenuti, quali foglie, inflorescenze, olio e resina, secondo la testuale elencazione contenuta nella tabella II, in assenza di alcun valore soglia preventivamente individuato dal legislatore penale rispetto alla percentuale di THC, rientrano nell’ambito dell’art. 73, commi 1 e 4, T.U. stup..
Detta fattispecie, infatti, incrimina, oltre alla coltivazione, la produzione, la fabbricazione, l’estrazione, la raffinazione, la vendita, l’offerta o la messa in vendita, la cessione o la ricezione, a qualsiasi titolo, la distribuzione, il commercio, l’acquisto, l’esportazione, l’importazione, il trasporto, il fatto di procurare ad altri, l’invio, il passaggio o la spedizione in transito e la consegna per qualunque scopo o comunque l’illecita detenzione al di fuori dell’ipotesi dell’uso personale, delle sostanze stupefacenti di cui alla tabella II, dell’art. 14, T.U. stup.. E preme evidenziare che, rispetto al descritto piano repressivo delle attività illecite, il legislatore nell’anno 2014 ha espressamente previsto una sola «eccezione», riguardante la «canapa coltivata esclusivamente per la produzione di fibre o per altri usi industriali, diversi da quelli di cui all’art. 27, consentiti dalla normativa dell’Unione europea» (art. 26, comma 2, T.U. stup.); proprio in tale ambito sostanziale si inscrive la seguente novella del 2016, volta a promuovere la coltivazione della filiera agroindustriale della canapa.
Osservano le Sezioni Unite che il sintagma contenuto nell’art. 1, comma 2, legge n. 242 del 2016, ove è stabilito che le coltivazioni di cui si tratta «non rientrano nell’ambito di applicazione del testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza», delinea l’ambito dell’intervento normativo, che riguarda un settore dell’attività agroalimentare ontologicamente estraneo dall’ambito dei divieti stabiliti dal T.U. stup. in tema di coltivazioni.
Ciò consente di comprendere appieno, sul piano sistematico, la ragione per la quale la novella non ha effettuato alcuna modifica al dettato del T.U. stup., neppure nell’ambito delle disposizioni che inseriscono la cannabis e i prodotti da essa ottenuti nel delineato sistema tabellare. Infatti, la novella del 2016 non aveva necessità di effettuare alcuna modifica al disposto di cui all’art. 14, d.P.R. n. 309/1990 (che, come sopra rilevato, pure comprende indistintamente la categoria della cannabis) poiché il legislatore del 2016 ha disciplinato lo specifico settore dell’attività della coltivazione industriale di canapa, funzionale esclusivamente alla produzione di fibre o altri usi consentiti dalla normativa dell’Unione europea, attività che non è attinta dal generale divieto di coltivazione, come sancito dal T.U. stup., pure a seguito delle recenti modifiche introdotte all’art. 26, comma 2, T.U. stup., dal ricordato decreto-legge n. 36 del 2014. Rafforza il convincimento rilevare che l’originaria versione dell’art. 1 limitava l’applicazione della legge alle coltivazioni con percentuale di tetraidrocannabinolo inferiore allo 0,3 per cento e che l’art. 5 prevedeva l’introduzione di una modifica espressa del richiamato art. 14, comma 1, lett. a), n. 6, T.U. stup., con l’indicazione di un limite soglia di principio attivo, superiore allo 0,5 per cento: ma si tratta di previsioni che non si rinvengono nel testo della legge n. 242 del 2016, definitivamente approvato.
Dette considerazioni inducono di riflesso ad attribuire natura tassativa alle sette categorie di prodotti elencate dall’art. 2, comma 2, legge n. 242 del 2016, che possono essere ottenuti dalla coltivazione agroindustriale di cannabis sativa L.: tanto si afferma, atteso che si tratta di prodotti che derivano da una coltivazione che risulta consentita solo in via di eccezione, rispetto al generale divieto di coltivazione della cannabis, penalmente sanzionato. Rafforza il convincimento considerare che la stessa disposizione derogatoria, di cui all’art. 26, comma 2, cit., nel delimitare l’ambito applicativo della ricordata eccezione in cui si colloca l’intervento normativo del 2016, fa espresso riferimento alla finalità della coltivazione, che deve essere funzionale «esclusivamente» alla produzione di fibre o alla realizzazione di usi industriali, «diversi» da quelli relativi alla produzione di sostanze stupefacenti. Tanto chiarito, si richiama l’elenco dei prodotti che è possibile ottenere dalla coltivazione delle varietà di canapa di cui si tratta (cannabis sativa L.):
- a) alimenti e cosmetici prodotti esclusivamente nel rispetto delle discipline dei rispettivi settori;
- b) semilavorati, quali fibra, canapulo, polveri, cippato, oli o carburanti, per forniture alle industrie e alle attività artigianali di diversi settori, compreso quello energetico;
- c) materiale destinato alla pratica del sovescio;
- d) materiale organico destinato ai lavori di bioingegneria o prodotti utili per la bioedilizia;
- e) materiale finalizzato alla fitodepurazione per la bonifica di siti inquinati;
- f) coltivazioni dedicate alle attività didattiche e dimostrative nonché di ricerca da parte di istituti pubblici o privati;
- g) coltivazioni destinate al florovivaismo.
Rilevano le Sezioni Unite che merita condivisione l’orientamento giurisprudenziale che, muovendo dal rilievo che la legge 2 dicembre 2016, n. 242 ha previsto la liceità della sola coltivazione della cannabis sativa L. per le finalità espresse e tassativamente indicate dalla novella, ha affermato che la commercializzazione dei derivati della predetta coltivazione, non compresi nel richiamato elenco, continua a essere sottoposta alla disciplina del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Sez. 6, n. 56737 del 27/11/2018, Ricci, cit.). Invero, la coltivazione di cannabis sativa L. ad uso agroalimentare, promossa dalla legge n. 242 del 2016, è stata utilmente definita sia mediante l’indicazione della varietà di canapa di cui si tratta, sia in considerazione dello specifico ambito funzionale dell’attività medesima, che non contempla l’estrazione e la commercializzazione di alcun derivato con funzione stupefacente o psicotropa. Pertanto, dalla coltivazione di cannabis sativa L. non possono essere lecitamente realizzati prodotti diversi da quelli elencati dall’art. 2, comma 2, legge n. 242 del 2016 e, in particolare, foglie, inflorescenze, olio e resina.
Conclusivamente osservano le SU che non si rinviene alcun dato testuale, né alcuna indicazione di ordine sistematico, come chiarito, che possa giustificare la tesi – che pure è stata espressa – volta far rientrare le inflorescenze della canapa nell’ambito delle coltivazioni destinate al florovivaismo.
Pertanto, la commercializzazione di foglie, inflorescenze, olio e resina, derivanti dalla coltivazione di cannabis sativa L., integra la fattispecie di reato di cui all’art. 73, commi 1 e 4, T.U. stup., atteso che la tabella II richiama testualmente tali derivati della cannabis, senza effettuare alcun riferimento alle concentrazioni di THC presenti nel prodotto. Ed il fatto che la norma incriminatrice di cui all’art. 73, commi 1 e 4, T.U. stup., riguardante la circolazione delle sostanze indicate dalla Tabella II, non effettui alcun riferimento alle concentrazioni di THC presenti nel prodotto commercializzato, non risulta incoerente rispetto ai limiti di tollerabilità di cui all’art. 4, commi 5 e 7, legge n. 242 del 2016, stante la disomogeneità sostanziale dei termini di riferimento. La norma incriminatrice, infatti, riguarda la commercializzazione dei derivati della coltivazione – foglie, inflorescenze, olio e resina – ove si concentra il tetraidrocannabinolo; diversamente, la novella del 2016, nel promuovere la coltivazione agroindustriale della canapa a basso contenuto di THC, proveniente da semente autorizzata, pone dei limiti soglia rispetto alla concentrazione presente nella coltura medesima, rilevanti anche ai fini della erogazione dei benefici economici per il coltivatore ed elenca tassativamente i prodotti che è possibile ottenere dalla coltivazione, tra i quali non sono ricompresi foglie, inflorescenze, olio e resina.
A questo punto della trattazione le S.U. ricordano l’insegnamento giurisprudenziale che da tempo ha valorizzato il principio di concreta offensività della condotta, nella verifica della reale efficacia drogante delle sostanze stupefacenti, oggetto di cessione. Le Sezioni Unite hanno rilevato che, rispetto al reato di cui all’art. 73, d.P.R. n. 309/1990, non rileva il superamento della dose media giornaliera ma la circostanza che la sostanza ceduta abbia effetto drogante per la singola assunzione dello stupefacente (Sez. U, n. 47472 del 29/11/2007, Di Rocco, Rv. 237856). Successivamente, analizzando la specifica questione afferente alla eventuale inoffensività della cosiddetta coltivazione domestica di cannabis, le Sezioni Unite hanno affermato che è indispensabile che il giudice di merito verifichi la concreta offensività della condotta, riferita alla idoneità della sostanza a produrre un effetto drogante (Sez. U, n. 28605 del 24/04/2008, Di Salvia, Rv. 239920). Si tratta di principi recentemente ribaditi dalla Corte Costituzionale, chiamata ad occuparsi della legittimità del reato di coltivazione di piante stupefacenti, anche nel caso in cui la condotta sia funzionale all’uso personale delle sostanze ricavate (Corte cost., sent n. 109 del 2016). Il Giudice delle leggi, nel dichiarare non fondata la questione, ha ribadito la validità del canone ermeneutico fondato sul principio di offensività, operante anche sul piano concreto, nel momento in cui il giudice procede alla verifica della rilevanza penale di una determinata condotta.
Si tratta di coordinate interpretative di certo rilievo, nella materia in esame, posto che la cessione illecita riguarda inflorescenze e altri derivati ottenuti dalla coltivazione della richiamata varietà di canapa, che si caratterizza per il basso contenuto di THC. Come sopra chiarito, secondo il vigente quadro normativo, l’offerta a qualsiasi titolo, la distribuzione e la messa in vendita dei derivati dalla coltivazione della cannabis sativa L., infatti, integrano la fattispecie incriminatrice ex art. 73, d.P.R. n. 309/1990. Ciò nondimeno, si impone l’effettuazione della puntuale verifica della concreta offensività delle singole condotte, rispetto all’attitudine delle sostanze a produrre effetti psicotropi. Tanto si afferma, alla luce del canone ermeneutico fondato sul principio di offensività, che, come detto, opera anche sul piano concreto, di talché occorre verificare la rilevanza penale della singola condotta, rispetto alla reale efficacia drogante delle sostanze oggetto di cessione.
* * *
Il 2 agosto esce l’ordinanza della III sezione della Cassazione n. 35436 che rimette alle Sezioni Unite il seguente quesito “se, ai fini della configurabilità del reato di coltivazione di piante stupefacenti, è sufficiente che la pianta sia idonea, per grado di maturazione, a produrre sostanza per il consumo, non rilevando la quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, ovvero se è necessario verificare anche che l’attività sia concretamente idonea a ledere la salute pubblica ed a favorire la circolazione della droga alimentandone il mercato”.
Ricorda il collegio come costituisca principio consolidato quello secondo il quale la coltivazione di piante destinate alla produzione di sostanze stupefacenti integra il reato di cui all’art. 28, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, a prescindere dalla finalità della condotta e dalla natura domestica o meno della coltivazione. Quel che conta, ai fini dell’integrazione del reato, è che la condotta rechi in sé un nucleo minimo di offensività, anche potenziale.
Sulla declinazione del concetto di “offensività in concreto”, però, la giurisprudenza si è divisa seguendo due diversi filoni interpretativi pur gemmati dalla comune premessa che la pianta sia quantomeno conforme al modello botanico vietato.
Secondo un primo indirizzo, ai fini della configurabilità del reato di coltivazione di piante stupefacenti, non è sufficiente la mera coltivazione di una pianta conforme al tipo botanico vietato che, per maturazione, abbia raggiunto la soglia minima di capacità drogante, ma è altresì necessario verificare se tale attività sia concretamente idonea a ledere la salute pubblica ed a favorire la circolazione della droga alimentandone il mercato.
Secondo un diverso orientamento, ai fini della punibilità della coltivazione non autorizzata di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, l’offensività della condotta consiste nella sua idoneità a produrre la sostanza per il consumo, sicché non rileva la quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, ma la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre la sostanza stupefacente, nell’obiettivo di scongiurare il rischio di diffusione futura della sostanza stupefacente.
* * *
Il 20 dicembre esce la sentenza della Corte Costituzionale n. 278 che ribadisce le argomentazioni di cui alla precedente sentenza n. 141 dello stesso anno.
Le fattispecie criminose in discussione – anche nella parte in cui risultano riferibili alla prostituzione volontariamente esercitata – sono state ritenute compatibili con il principio di offensività, inteso come precetto che impone al legislatore di limitare la repressione penale a fatti che, nella loro configurazione astratta, presentino un contenuto offensivo di beni o interessi meritevoli di protezione (cosiddetta offensività “in astratto”): precetto che non esclude il ricorso al modello del reato di pericolo, anche presunto, a condizione che la valutazione legislativa di pericolosità del fatto non risulti irrazionale o arbitraria.
Di là dalle oscillazioni della giurisprudenza in ordine all’individuazione del bene protetto dalle norme penali della legge n. 75 del 1958, le previsioni punitive in discorso sono apparse rispettose dei canoni dianzi indicati, ove riguardate «nell’ottica della protezione dei diritti fondamentali dei soggetti vulnerabili e delle stesse persone che esercitano la prostituzione per scelta».
Anche nell’attuale momento storico, infatti, «quando pure non si sia al cospetto di vere e proprie forme di prostituzione forzata, la scelta di “vendere sesso” trova alla sua radice, nella larghissima maggioranza dei casi, fattori che condizionano e limitano la libertà di autodeterminazione dell’individuo, riducendo, talora drasticamente, il ventaglio delle sue opzioni esistenziali»: fattori non solo di ordine economico, ma legati anche a situazioni di disagio sul piano affettivo o delle relazioni familiari e sociali (sentenza n. 141 del 2019).
In questa materia, d’altra parte, «la linea di confine tra decisioni autenticamente libere e decisioni che non lo sono si presenta fluida già sul piano teorico […] e, correlativamente, di problematica verifica sul piano processuale, tramite un accertamento ex post affidato alla giurisdizione penale». A ciò si affiancano, peraltro, anche preoccupazioni di tutela delle stesse persone che si prostituiscono per effetto di una scelta (almeno inizialmente) libera e consapevole. «Ciò in considerazione dei pericoli cui esse si espongono nell’esercizio della loro attività: pericoli connessi al loro ingresso in un circuito dal quale sarà poi difficile uscire volontariamente, stante la facilità con la quale possono divenire oggetto di indebite pressioni e ricatti, nonché ai rischi per l’integrità fisica e la salute, cui esse inevitabilmente vanno incontro nel momento in cui si trovano isolate a contatto con il cliente (pericoli di violenza fisica, di coazioni a subire atti sessuali indesiderati, di contagio conseguente a rapporti sessuali non protetti e via dicendo)» (sentenza n. 141 del 2019).
In tale prospettiva, l’incriminazione delle cosiddette “condotte parallele” alla prostituzione, senza rappresentare una soluzione costituzionalmente imposta (potendo il legislatore fronteggiare anche in altro modo i pericoli insiti nel fenomeno considerato), rientra, però, «nel ventaglio delle possibili opzioni di politica criminale, non contrastanti con la Costituzione».
Resta ferma, in ogni caso, con riguardo alla disciplina vigente, l’operatività del principio di offensività nella sua proiezione concreta e, dunque, il potere-dovere del giudice comune di escludere la configurabilità del reato in presenza di condotte che, in rapporto alle specifiche circostanze, si rivelino concretamente prive di ogni potenzialità lesiva (sentenza n. 141 del 2019).
Le precedenti considerazioni, secondo la Corte, risultano estensibili anche alla fattispecie della tolleranza abituale dell’esercizio della prostituzione.
A mente dell’art. 3, primo comma, numero 3), della legge n. 75 del 1958, risponde di tale reato «chiunque, essendo proprietario, gerente o preposto a un albergo, casa mobiliata, pensione, spaccio di bevande, circolo, locale da ballo, o luogo di spettacolo, o loro annessi e dipendenze o qualunque locale aperto al pubblico od utilizzato dal pubblico, vi tollera abitualmente la presenza di una o più persone che, all’interno del locale stesso, si dànno alla prostituzione».
La previsione punitiva si colloca specificamente nell’ambito della terna di figure criminose poste a presidio del divieto di esercizio delle case di prostituzione. Il numero 1) dell’art. 3 punisce la costituzione di case di prostituzione; il numero 2), la cessione di un locale a tale scopo; il numero 3) il consentire, per acquiescenza abituale dell’esercente, che la prostituzione si svolga all’interno di un pubblico esercizio.
La norma incriminatrice censurata costituisce, pertanto, anch’essa espressione della strategia d’intervento, dianzi indicata, che ispira la legge n. 75 del 1958: strategia alla quale è globalmente riferibile la valutazione già operata da questa Corte, in punto di esclusione del contrasto con il principio di offensività.
2020
Il 4 febbraio esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n. 4666 che dichiara inammissibile un ricorso facendo richiamo al principio di diritto stabilito dalle Sezioni Unite il 19 dicembre 2019, di cui si attendevano le motivazioni, in base al quale “Il reato di coltivazione di stupefacenti è configurabile indipendentemente dalla quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, essendo sufficienti la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre sostanza stupefacente; devono però ritenersi escluse, in quanto non riconducibili all’ambito di applicazione della norma penale, le attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica, che, per le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell’ambito del mercato degli stupefacenti, appaiono destinate in via esclusiva all’uso personale del coltivatore”.
Questioni intriganti
Quali sono le caratteristiche che presidiano il c.d. principio di offensività?
- presuppone un bene giuridico o, meglio, un interesse giuridicamente rilevante tutelato dalla norma incriminatrice (c.d. oggetto giuridico del reato, differente dall’oggetto materiale);
- consiste nella messa in pericolo o nella lesione di tale interesse;
- implica che una mera condotta esistenziale, uno stile di vita o un semplice atteggiamento interiore non possono assumersi ex se offensivi dell’interesse penalmente tutelato;
- vincola sia il legislatore, sul piano della nomopoiesi penale, sia il giudice sul crinale dell’interpretazione;
- non è previsto in modo esplicito come i principi di legalità e di irretroattività, ma si ricava in ogni caso dal sistema;
Quali sono le norme costituzionali di riferimento in tema di offensività penale?
- l’13 della Costituzione: la condotta penalmente rilevante deve offendere un bene almeno equiordinato a quello, di valore assai elevato, della libertà personale che viene sovente conculcato in risposta a tale condotta penalmente illecita;
- l’21 (e l’art.2) della Costituzione: se si punisce un mero comportamento inoffensivo, si finisce col conculcare la stessa libertà di manifestazione del pensiero e, con essa, la libertà di sviluppo della personalità del soggetto agente;
- l’25 della Costituzione: la pena può svolgere la propria funzione di orientamento culturale solo laddove punisca “fatti” offensivi (il comma 2 parla appunto di punizione per un “fatto commesso”), e non già mere disobbedienze formali; inoltre, da un lato si è puniti (sanzione penale) e dall’altro si è sottoposti a misure di sicurezza, le pene atteggiandosi a repressive e le misure di sicurezza a preventive, circostanza che impone di punire solo laddove ci si trovi dinanzi ad un fatto offensivo da reprimere, e non già dinanzi a mere disobbedienze formali che al più potrebbero giustificare una misura di sicurezza;
- l’27 della Costituzione: solo se la pena viene percepita come giusta in quanto reazione dello Stato ad un fatto offensivo, essa può realmente spiegare – seppure in via tendenziale – una funzione rieducativa del condannato ai sensi del relativo comma 3.
Quali beni deve avere dinanzi il legislatore che procede ad incriminare una condotta offensiva?
- solo il catalogo dei beni esplicitamente evincibili dalla Costituzione, dovendo essere controbilanciato il valore particolarmente pregnante del bene “libertà personale”, sovente conculcato dalla repressione penale (tesi recessiva);
- il catalogo di tutti i beni esplicitamente ma anche implicitamente evincibili dalla Costituzione, anche alla stregua dell’evoluzione storica e della coscienza sociale, rimanendo altrimenti fuori dal presidio della tutela penale i c.d. beni “emergenti” (tesi più accreditata);
- più in generale, tutti i beni (rectius, interessi) non incompatibili con la Costituzione (tesi più estensiva).
Quali sono i due estremi rispetto ai quali trova collocazione il principio di offensività?
- una assetto politico di tipo democratico: in esso il diritto penale sanziona fatti tipici offensivi, nel contesto dei quali conta il fatto (e non l’intenzione: principio di materialità); il fatto deve essere tipico (principio di legalità); il fatto tipico deve essere offensivo (in quanto capace di vulnerare, in senso potenziale o attuale, un interesse a rilevanza giuridica: principio di offensività): in sostanza, senza offesa non vi è sanzione penale (nullum crimen sine iniuria);
- un regime totalitario: qui si tende a punire non già condotte lesive (potenzialmente o in atto) di interessi giuridicamente rilevanti, quanto piuttosto mere e formali disobbedienze normative che palesano una insofferenza rispetto all’ordine costituito.
In tema di coltivazione di sostanze stupefacenti, quali sono i due indirizzi giurisprudenziali che si sono affermati in tema di offensività / inoffensività della condotta?
- Indirizzo più rigoroso: se la coltivazione è idonea produrre la sostanza per il consumo essa è già da assumersi offensiva, e non bisogna porre attenzione alla quantità di principio attivo che appare ricavabile nell’immediatezza, quanto piuttosto la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la relativa attitudine (anche per come è coltivata) a giungere a maturazione e a produrre sostanza stupefacente; è il tipo di pianta coltivata e l’attitudine di essa a produrre sostanza drogante che fa affiorare l’offensività della condotta, al di là della concreta quantità di principio attivo ricavabile in un dato momento; secondo questo indirizzo la tipicità coincide con l’offensività della condotta del soggetto agente;
- Indirizzo meno rigoroso: in alcuni casi la coltivazione è caratterizzata da inoffensività, laddove affiori che da essa si ritrarrà un aumento di disponibilità irrilevante e comunque non è prospettabile alcuna ulteriore diffusione della sostanza drogante. La condotta tipica si compendia nella coltivazione di una pianta conforme al tipo botanico che, una volta matura, ha raggiunto la capacità drogante minima; non è detto che tale condotta tipica sia tuttavia anche in concreto offensiva, potendo rivelarsi del tutto inidonea all’uopo. Ciò si registra quando il giudice accerta il conclamato uso esclusivamente personale, e la entità minima della coltivazione, tale da escludere che la coltivazione stessa sia ampliabile o che comunque vi sia diffusione della sostanza drogante. In presenza di una capacità drogante, e tuttavia minima, la condotta è tipica ma inoffensiva, perché inidonea a ledere il bene giuridico penalmente tutelato.
Come viene declinato il principio di offensività dalla giurisprudenza della Corte costituzionale?
- offensività in astratto: deve essere garantita dal legislatore, che normalmente ottempera a questo precetto configurando norme conformi alla Costituzione;
- offensività in concreto: deve essere garantita in sede interpretativa dal giudice del merito che deve verificare se la fattispecie dipinta dal legislatore, astrattamente offensiva, lo sia anche in concreto perché lesiva dei beni giuridici tutelati dalla norma incriminatrice.