Massima
Assecondando posizioni dottrinali orientate a valorizzare il connotato “minimo” (e solo sussidiario) del diritto penale, è stata di recente introdotta una causa di non punibilità che – pur non escludendo la natura criminosa della fattispecie posta in essere dal soggetto attivo – la assume, per l’appunto, non penalmente sanzionabile a cagione dell’accertata “tenuità dell’offesa” siccome concretamente arrecata all’interesse giuridico protetto; ne è scaturita la necessità di chiarire i rapporti tra il nuovo art.131 bis c.p. e la c.d. concezione “realistica” del reato, oltre che di coordinare l’istituto di nuovo conio con altri, da esso lambiti, più o meno tradizionalmente presenti nell’ambito ordinamentale penalistico.
Crono-articolo
Nel diritto romano il principio di offensività non ha – come è ovvio – una esplicita sistematizzazione di carattere dogmatico. Non mancano tuttavia ipotesi nelle quali affiora la peculiare inoffensività della condotta, come tale non punita: nella Lex Iulia de adulteriis coercendis, del 18 a.C., viene incriminato sia lo stuprum (unione sessuale con fanciulli, con vergini o con vedove di onorevole condizione sociale: per quelle di condizione sociale non onorevole lo stuprum era dunque inoffensivo) che l’adulterium (unione sessuale con donne unite con altri uomini da iustae nuptiae).
Per quanto più in specie riguarda l’adulterium, la pena veniva inflitta sia all’uomo che alla donna, ma riguardava il solo caso in cui adultera fosse la donna (con un uomo “terzo”), potendone discendere figli illegittimi, mentre veniva considerato inoffensivo l’adulterio dell’uomo unito da iustae nuptiae con altre donne.
1889
La codificazione liberale Zanardelli non si occupa in modo diretto del principio di offensività e tuttavia ne coglie in nuce la portata sistematica e garantista laddove punisce, in sede di tentativo, i soli atti esecutivi del delitto, e non anche quelli meramente preparatori (art.61).
1930
Nel codice penale Rocco il principio di offensività trova un riconoscimento palese (seppure non esplicito) soprattutto nelle norme sul tentativo inidoneo (art.56) e sul reato impossibile (art.49), oltre che sull’accordo finalizzato a commettere un reato poi non commesso e sulla istigazione non accolta (art.115).
Più in particolare, stando all’art.49 (rubricato “reato supposto erroneamente e reato impossibile”) non è punibile chi commette un fatto non costituente reato, nella supposizione erronea che esso costituisca reato (comma 1), la punibilità venendo altresì esclusa quando, per la inidoneità dell’azione o per l’inesistenza dell’oggetto di essa, è impossibile l’evento dannoso o pericoloso (comma 2); nei casi preveduti dalle ridette disposizioni peraltro, se concorrono nel fatto gli elementi costitutivi di un reato diverso, si applica la pena stabilita per il reato effettivamente commesso (comma 3); infine nel caso indicato nel primo capoverso (inidoneità dell’azione o inesistenza del pertinente oggetto), il giudice può ordinare che l’imputato prosciolto sia sottoposto a misura di sicurezza (comma 4).
Alla stregua del successivo art.56 sul delitto tentato, chi compie atti idonei, diretti in modo non equivoco a commettere un delitto, risponde di delitto tentato, se l’azione non si compie o l’evento non si verifica (comma 1). Il colpevole di delitto tentato è punito: con la reclusione da ventiquattro a trenta anni, se dalla legge è stabilita per il delitto la pena di morte; con la reclusione non inferiore a dodici anni, se la pena stabilita è l’ergastolo; e, negli altri casi, con la pena stabilita per il delitto, diminuita da un terzo a due terzi (comma 2); se poi il colpevole volontariamente desiste dall’azione, soggiace soltanto alla pena per gli atti compiuti, qualora questi costituiscano per sé un reato diverso (comma 3), mentre se volontariamente impedisce l’evento, soggiace alla pena stabilita per il delitto tentato, diminuita da un terzo alla metà (comma 4).
Ai sensi dell’art.115 (Accordo per commettere un reato. Istigazione), salvo che la legge disponga altrimenti, qualora due o più persone si accordino allo scopo di commettere un reato, e questo non sia commesso, nessuna di esse è punibile per il solo fatto dell’accordo (comma 1); nondimeno, nel caso di accordo per commettere un delitto, il giudice può applicare una misura di sicurezza (comma 2); le stesse disposizioni si applicano nel caso di istigazione a commettere un reato, se l’istigazione è stata accolta, ma il reato non è stato commesso (comma 3); nondimeno, qualora l’istigazione non sia stata accolta, e si sia trattato d’istigazione a un delitto, l’istigatore può essere sottoposto a misura di sicurezza (comma 4).
1948
Viene varata la Costituzione che prevede la natura personale della responsabilità penale, cui è connessa la funzione tendenzialmente rieducativa della pena (art.27): il condannato deve percepire la pena come tendenzialmente rieducativa per la commissione di un fatto (di “fatto commesso” parla l’art.25, comma 2, Cost.) penalmente rilevante che gli viene rimproverato, circostanza da escludersi in presenza di fattispecie inoffensive di interessi (costituzionalmente) tutelati.
1975
Il 22 maggio viene varata la legge n.152, recante disposizioni a tutela dell’ordine pubblico, il cui art.15 modifica l’art.648 c.p. in tema di ricettazione, prevedendo al comma 2 una pena della reclusione fino a 6 anni e della multa sino a 500 mila lire se il fatto è di particolare tenuità.
Si tratta di una circostanza attenuante non “comune” che lascia il limite edittale massimo molto elevato rispetto alla fattispecie base, per la quale è prevista la reclusione da 2 a 8 anni e la multa da 500 mila lire a 10 milioni di lire.
1988
Il 22 settembre viene varato il D.p.R. n.448, recante approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni, secondo il cui art.27 – significativamente rubricato “sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto” – durante le indagini preliminari, se risulta la tenuità del fatto e l’occasionalità del comportamento, il PM chiede al giudice sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto quando l’ulteriore corso del procedimento pregiudica le esigenze educative del minorenne (comma 1).
Il giudice provvede con sentenza, sentiti il minorenne, l’esercente la potestà dei genitori e la persona offesa dal reato; quando non accoglie la richiesta dispone con ordinanza la restituzione degli atti al PM (comma 2); contro la sentenza possono proporre appello o ricorso immediato per cassazione a norma dell’art.569 c.p.p. il minorenne e il procuratore generale presso la corte di appello; sull’appello decide la corte d’appello con le forme previste dall’art.127 del c.p.p.
1990
Il 7 febbraio viene varata la legge n.127, il cui art.2 inserisce nell’art.62 del codice penale la nuova circostanza attenuante comune compendiantesi nell’avere – nei delitti contro il patrimonio, o che comunque offendono il patrimonio – cagionato alla persona offesa dal reato un danno patrimoniale di speciale tenuità, ovvero – nei delitti determinati da motivi di lucro – l’avere agito per conseguire o l’avere comunque conseguito un lucro di speciale tenuità, quando anche l’evento dannoso o pericoloso sia di speciale tenuità.
1991
Il 6 giugno esce la sentenza della Corte costituzionale n.250, che dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 27 del testo delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni approvato con d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448 nonché, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l’illegittimità costituzionale dell’art. 32, primo comma, del medesimo testo approvato col d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448, come modificato dall’art. 46 del decreto legislativo 14 gennaio 1991, n. 12, limitatamente alle parole “o per irrilevanza del fatto a norma dell’art. 27” e l’illegittimità costituzionale degli artt. 26 e 30, primo comma, del testo delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448, testo approvato con decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 272.
Con la norma censurata, principia la Corte – come è stato messo in luce dalla dottrina e dalla giurisprudenza dei giudici di merito -, è stato introdotto nel sistema penale minorile un nuovo istituto: non si procederà contro l’imputato minorenne “per irrilevanza del fatto” quando si verifichino due condizioni, una oggettiva, vale a dire che il fatto sia tenue ed il comportamento occasionale, l’altra soggettiva e cioè che l’ulteriore corso del procedimento pregiudichi le esigenze educative del minorenne.
Il testo dell’art. 27 delle disposizioni approvate col citato d.P.R. n. 448 del 1988 presenta notevoli differenze rispetto alla redazione del progetto preliminare. Quest’ultimo aveva previsto, all’art. 23, la pronuncia di un decreto di archiviazione del giudice su richiesta del pubblico ministero, quando “per la tenuità del fatto e per l’occasionalità del comportamento, l’ulteriore corso del procedimento non risponde alle esigenze educative del minorenne e a quelle di tutela della collettività“.
La relazione al progetto preliminare – precisa ancora la Corte – sottolineava in proposito: “Il meccanismo processuale prescelto non incide sulla fattispecie sostanziale del reato, (cioè sui suoi elementi costitutivi o sulle condizioni di punibilità), e quindi non esclude il promovimento dell’azione penale, ma si limita a consentire l’anticipata conclusione del processo con una pronuncia fondata sulla valutazione comparativa degli effetti positivi e negativi dello svolgimento del normale iter processuale, in considerazione delle concrete caratteristiche del fatto e della personalità del minore imputato“.
Nel testo definitivo, divenuto art. 27, la pronuncia ha luogo con sentenza, e la condizione “quando l’ulteriore corso del procedimento non risponde alle esigenze educative del minorenne e a quelle di tutela della collettività” è divenuta “(quando) pregiudica le esigenze educative del minorenne“, essendo stato eliminato il riferimento alla “tutela della collettività“.
La relazione chiarisce che è stato accolto il suggerimento della Commissione parlamentare, prevedendosi la sentenza anziché il decreto di archiviazione, “tenuto conto delle perplessità da alcune parti manifestate circa la compatibilità dell’archiviazione con il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale sancito dall’art. 112 della Costituzione“.
È appena il caso di aggiungere – precisa a questo punto la Corte – che, in forza dell’art. 32 del testo delle disposizioni approvate col d.P.R. n. 448 del 1988 – ora modificato dall’art. 46 del decreto legislativo 14 gennaio 1991, n. 12 – e dell’art. 26 del testo delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie, approvato con decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 272, la sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto può essere pronunciata o dal giudice per le indagini preliminari su richiesta del PM se “fin dalle prime indagini risulta che sussistono le condizioni previste dall’art. 27“, o dal giudice dell’udienza preliminare (nella composizione collegiale prevista dall’art. 50-bis, secondo comma, del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12, introdotto dall’art. 14 del d.P.R. 22 settembre 1988, n. 449).
Così sommariamente richiamato l’iter legislativo della norma, risultano del tutto evidenti per il Collegio le caratteristiche del nuovo istituto: si tratta in sostanza di una sorta di depenalizzazione che, sul presupposto della tenuità del fatto e dell’occasionalità del comportamento, è condizionata alla verifica, da valutarsi necessariamente in rapporto al singolo soggetto, del pregiudizio che l’ulteriore corso del procedimento rechi alle esigenze educative del minore.
Quest’ultimo aspetto è stato posto in particolare evidenza dalla dottrina, che ha identificato la ratio della norma nella estromissione immediata, o quanto meno la più possibile sollecita, dal circuito penale di condotte devianti, le quali siano prive di allarme sociale per la loro tenuità ed occasionalità ed appaiano destinate a rimanere nella vita del minore un fatto episodico e ad essere autonomamente riassorbite.
In simili casi le dottrine criminologiche e psicologiche ritengono il contatto del minore con la giustizia non soltanto privo di ogni utilità sociale, ma anzi foriero di possibili danni, di guisa che sarebbe preferibile, evitando ogni forma di intervento, che il sistema della giustizia penale rimanga assolutamente inerte.
La medesima dottrina ha rilevato – prosegue la Corte – come questi principi e finalità, che troverebbero fondamento in dichiarazioni e raccomandazioni internazionali (Regole minime per l’amministrazione della giustizia minorile, o “regole di Pechino“, approvate nel 1985 dall’Assemblea delle Nazioni Unite, e Raccomandazione sulle “reazioni sociali alla delinquenza minorile” approvata nel 1987 dal Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa), siano stati solo in parte applicati nella norma in esame.
Infatti l’intento di estromettere rapidamente il minore dal circuito processuale è sostanzialmente vanificato, una volta che la improcedibilità per irrilevanza del fatto deve essere pronunciata, anziché con decreto di archiviazione, con sentenza – soggetta ovviamente ad impugnazione – previa audizione del minore, dell’esercente la potestà dei genitori e della parte offesa.
Sulla base degli elementi sopra richiamati sui quali la dottrina è concorde, – del resto essi si ricavano senza alcuna incertezza dalla lettura testuale della norma, a partire dal progetto preliminare fino alla formulazione definitiva, – emergono chiaramente per la Corte due essenziali connotazioni.
La prima è che l’istituto della “irrilevanza del fatto” è assolutamente nuovo nel nostro sistema penale; la seconda è che esso, pur presentando, – e non potrebbe essere altrimenti -, implicazioni di carattere processuale, attiene al diritto sostanziale, in quanto viene a dar vita ad una causa di non punibilità, mai fino ad ora prevista né in linea generale, né limitatamente agli imputati minorenni.
In ordine logico – chiosa a questo punto il Collegio – la questione va in primo luogo esaminata sotto il profilo della prospettata violazione dell’art. 76 della Costituzione, in riferimento a tale parametro rivelandosi fondata.
Il giudice a quo dubita in sostanza che il Governo abbia ecceduto la sfera di delegazione conferitagli emanando una norma che non attiene alla materia processuale bensì a quella sostanziale. Inoltre – sempre secondo il Tribunale remittente – la legge di delegazione non conteneva “determinazione di principi e criteri direttivi esprimenti scelte di politica criminale“.
Prendendo in esame l’oggetto della delega, la cui definizione, secondo il dettato dell’art. 76 della Costituzione, è indicata come un limite necessario per la delegazione al Governo della funzione legislativa, si rileva dalla lettura della legge 16 febbraio 1987 n. 81 che il Governo è stato delegato con l’art. 1 “ad emanare il nuovo codice di procedura penale“, e con l’art. 3, che qui più direttamente interessa, “a disciplinare il processo a carico di imputati minorenni al momento della commissione del reato“.
È chiaro quindi che dalla definizione dell’oggetto la delega contenuta nella citata legge n. 81 è limitata alla riforma del processo penale, sia nella relativa disciplina generale, sia nelle norme particolari che regolano specificamente il processo minorile.
A tale constatazione – rileva il Collegio – l’Avvocatura dello Stato ha opposto che nel sistema penale la distinzione fra norme e istituti di natura sostanziale e norme e istituti di natura processuale non è così rigida, e che nei principi direttivi enunciati nell’art. 2 e nell’art. 3 della citata legge di delegazione sussistono previsioni di natura sostanziale: di conseguenza, il fatto che la norma emanata dal legislatore delegato abbia una prevalente valenza di diritto sostanziale non autorizzerebbe a ritenere che siano stati travalicati i limiti della delega così da integrare una violazione dell’art. 76 della Costituzione.
Siffatte argomentazioni sono per la Corte da ritenersi valide quando, a prescindere dalla definizione dell’oggetto della delega, la norma adottata dal legislatore delegato sia sorretta da una esplicita previsione enunciata nei principi direttivi, o trovi quanto meno in essi una indicazione cui la norma stessa possa riferirsi, così da esserne considerata il coerente sviluppo e la concreta applicazione. E ciò è tanto più vero, in quanto il Parlamento, approvando una legge di delegazione, non è certo tenuto a rispettare regole metodologicamente rigorose, e può bene con la espressa enunciazione di un determinato principio direttivo estendere la delega ad una normativa che altrimenti non sarebbe di per sé compresa nella definizione dell’oggetto.
Orbene – prosegue il Collegio – la norma in esame, che, come si è visto, ha posto in essere una nuova causa di non punibilità dell’imputato minorenne, non trova di per sé collocazione all’interno dell’oggetto della legge-delega in ragione della relativa, preminente natura di diritto sostanziale.
Tuttavia, come si è detto sopra, il vizio di eccesso di delega per esorbitanza dall’oggetto non sussisterebbe ove la norma delegata trovasse il proprio supporto nei principi direttivi. Che vi sia questo supporto è stato affermato in dottrina ed è pure quanto sostiene nel proprio atto di intervento l’Avvocatura generale dello Stato. Occorre dunque procedere ad una attenta disamina dei principi stessi, a partire da quelli contenuti nell’art. 3 che si riferisce alla disciplina del processo a carico di imputati minorenni.
In tale articolo, riprende la Corte, è enunciata, dalla lettera a) alla lettera p), una serie di criteri formulati in modo dettagliato: fra questi non si trova alcuna previsione di una nuova causa di non punibilità, né alcun elemento indicativo da cui tale istituto possa trovare derivazione.
Vi è poi un ulteriore rilievo: alla lettera l) la delega prevede espressamente che “il giudice nell’udienza preliminare possa prosciogliere anche per la non imputabilità, ai sensi dell’articolo 98 del codice penale, e per la concessione del perdono giudiziale“. Ove perciò il legislatore avesse voluto, sconfinando per così dire dall’oggetto, prevedere una ipotesi quale quella della non punibilità per irrilevanza del fatto, avrebbe dovuto in questa sede inserire una specifica indicazione; poiché non ve n’è traccia, si deve dedurne che la norma emanata dal legislatore delegato fuoriesce dai limiti della delega, a meno che non si trovi in altra parte della legge un principio cui ancorarla.
In tal senso – chiosa ancora la Corte – si sostiene che il legislatore delegato avrebbe correttamente usato dei propri poteri fondando la previsione del nuovo istituto sulla prima parte dell’art. 3 della legge di delegazione, la quale enuncia, prima dei criteri contenuti sotto le lettere dall’ a) alla p), il principio direttivo, per così dire generale, in base al quale il processo minorile deve essere disciplinato “secondo i principi generali del nuovo processo penale, con le modificazioni ed integrazioni imposte dalle particolari condizioni psicologiche del minore, dalla sua maturità e dalle esigenze della sua educazione“.
Ora, è agevole osservare che il principio anzidetto si riduce alla enunciazione sintetica delle ragioni stesse che giustificano la peculiarità del processo penale a carico di imputati minorenni, e la conseguente esigenza di una normativa speciale.
Tale processo deve comunque essere ancorato al nuovo processo penale cui possono essere apportate le opportune modificazioni ed integrazioni; vale a dire che la normativa regolatrice del processo minorile, per rimanere nell’ambito della delega, va sempre collegata alle norme del nuovo processo penale. Del nuovo istituto della non punibilità dell’imputato per irrilevanza del fatto – precisa la Corte – non è tuttavia dato rinvenire alcuna traccia nei principi e criteri del nuovo processo penale, enunciati del resto quasi sempre in forma dettagliata dal numero 1 al 105 dell’art. 2.
Quanto alla prima parte del citato art. 2, essa menziona soltanto “i principi della Costituzione” e le “norme delle convenzioni internazionali ratificate dall’Italia e relative ai diritti della persona e al processo penale“, nonché “i caratteri del sistema accusatorio” da attuarsi secondo i principi ed i criteri successivamente specificati.
Le regole minime delle Nazioni Unite per l’amministrazione della giustizia minorile (le cosiddette regole di Pechino) e la raccomandazione n. 20/87 del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa – cui la dottrina si richiama – non rientrano certamente nel novero delle convenzioni internazionali ratificate; né peraltro di esse o di atti internazionali in genere concernenti i minori vi è cenno nell’art. 3 della legge-delega.
Sarebbe quindi inutile verificare se poi in effetti la norma in esame possa trovare in tali documenti un adeguato supporto.
Si deve perciò, prosegue il Collegio, necessariamente concludere per la sussistenza del vizio di eccesso di delega prospettato dal Tribunale remittente.
Siffatta conclusione è in armonia con la giurisprudenza della Corte, ed in particolare con le recenti sentenze che hanno avuto per oggetto questioni di eccesso di delega relative a norme del nuovo codice di procedura penale e del nuovo processo minorile. In tale materia – che incide su diritti fondamentali della persona – le scelte del legislatore delegato sono state ritenute costituzionalmente illegittime ogni qual volta si sono poste in contrasto con i principi direttivi della legge delega – enunciati come si è detto in forma di criteri che il più delle volte sono vere e proprie norme di dettaglio -, o comunque al di fuori da ogni previsione in essi contenuta (v. sentt. nn. 435, 496 e 529 del 1990, 68 e 176 del 1991).
Per quanto attiene invece al processo minorile, la sent. n. 182 del 1991 ha escluso l’illegittimità costituzionale per eccesso di delega dell’art. 37, secondo comma, del testo approvato con d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448, in materia di applicazione di misure di sicurezza, in quanto il legislatore aveva adottato la norma impugnata applicando i criteri enunciati in via generale per il processo minorile dall’art. 3 prima parte, e in particolare dalla lett. e) dello stesso articolo, ancorandola alla direttiva n. 96 dell’art. 2 della legge di delegazione.
Ma, come si è visto sopra, non è dato rinvenire un supporto analogo per l’istituto della non punibilità per irrilevanza del fatto, istituto che costituisce oltre tutto – vale la pena di ricordarlo – un’assoluta novità nel nostro sistema penale, sia dal punto di vista sostanziale che da quello processuale.
Va quindi dichiarata per la Corte l’illegittimità costituzionale dell’art. 27 del testo delle disposizioni sul processo minorile approvato con d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448, restando assorbiti gli altri parametri costituzionali invocati dal Tribunale remittente.
Ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 devono di conseguenza subire la medesima sorte l’art. 32, primo comma, del testo citato, come modificato dall’art. 46 del decreto legislativo 14 gennaio 1991, n. 12, limitatamente alle parole “o per irrilevanza del fatto a norma dell’art. 27“, nonché gli artt. 26 e 30, primo comma, del testo delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del detto d.P.R. n. 448 del 1988, approvato con decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 272.
1992
Il 5 febbraio viene varata la legge n.123, il cui art.1 riformula l’art.27 del D.p.R. n.448.88 sul processo penale minorile, novellandone la fonte attraverso la legge ordinaria, dopo la declaratoria di incostituzionalità per eccesso di delega pronunciata dalla Corte costituzionale.
1998
Il 21 ottobre il Ministro di Grazia e Giustizia, premesso che occorre procedere a una riforma del codice penale che, muovendo dai lavori già svolti in materia dalle Commissioni Parlamentari e Ministeriali, approfondisca in particolare:
– il tema delle sanzioni in una prospettiva che tenda ad una loro razionalizzazione nel quadro del contemperamento delle esigenze di prevenzione generale e di prevenzione speciale;
– il tema della riduzione dell’ambito dell’intervento penale previa la ricognizione dei beni giuridici meritevoli di tutela penale e l’indicazione di massima delle relative fattispecie di reato,
procede alla costituzione di una Commissione di esperti costituita da docenti universitari, da magistrati e da avvocati penalisti finalizzata alla stesura di un documento nel quale siano esposti gli orientamenti e le priorità di una riforma di parte generale e di parte speciale del codice penale e siano inoltre prospettati gli eventuali criteri di un disegno di legge-delega coordinato fra l’altro con i provvedimenti all’esame del Parlamento e con le elaborazioni che su aspetti collegati sono in corso da parte di altri gruppi di lavoro costituiti presso il Ministero di Grazia e Giustizia (specie in materia di responsabilità penale delle persone giuridiche e depenalizzazione).
Il termine per la conclusione dei lavori viene fissato al 30 giugno 1999 e la Commissione prende il nome dal Presidente, il Prof. Grosso.
La Commissione vara un testo, il cui art. 2, comma 2, – prendendo atto della necessità di positivizzare il principio di offensività – prevede che “le norme incriminatrici non si applicano ai fatti che non determinano una offesa del bene giuridico“.
2000
Il 28 agosto viene varato il decreto legislativo n.274, recante disposizioni sulla competenza penale del Giudice di Pace, a norma dell’articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468, il cui art.34 è significativamente rubricato “esclusione della procedibilità nei casi di particolare tenuità del fatto”.
Più nel dettaglio, il fatto è di particolare tenuità quando, rispetto all’interesse tutelato, l’esiguità del danno o del pericolo che ne è derivato, nonché la relativa occasionalità e il grado della colpevolezza non giustificano l’esercizio dell’azione penale, tenuto conto altresì del pregiudizio che l’ulteriore corso del procedimento può recare alle esigenze di lavoro, di studio, di famiglia o di salute della persona sottoposta ad indagini o dell’imputato (comma 1).
Nel corso delle indagini preliminari, il Giudice (di Pace) dichiara con decreto di archiviazione non doversi procedere per la particolare tenuità del fatto, solo se non risulta un interesse della persona offesa alla prosecuzione del procedimento (comma 2).
Se poi è stata esercitata l’azione penale, la particolare tenuità del fatto può essere dichiarata con sentenza solo se l’imputato e la persona offesa non si oppongono.
2001
L’8 giugno viene varato il Decreto legislativo n.231 in tema di c.d. responsabilità amministrativa degli enti, secondo il cui art.8 – rubricato “autonomia delle responsabilità dell’ente” – la responsabilità dell’ente sussiste anche quando: a) l’autore del reato non è stato identificato o non è imputabile; b) il reato si estingue per una causa diversa dall’amnistia (comma 1).
Salvo che la legge disponga altrimenti, non si procede nei confronti dell’ente quando è concessa amnistia per un reato in relazione al quale è prevista la pertinente responsabilità e l’imputato ha rinunciato alla relativa applicazione (comma 2).
L’ente può in ogni caso rinunciare all’amnistia a proprio favore (comma 3).
2003
Il 9 maggio esce la sentenza della Corte costituzionale n.149 che dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 27, comma 4, del d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448 (Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni), nella parte in cui prevede che la sentenza di proscioglimento per irrilevanza del fatto possa essere pronunciata solo nell’udienza preliminare, nel giudizio immediato e nel giudizio direttissimo.
Nell’originaria formulazione dell’art. 27 del d.P.R. n. 448 del 1988 – rammenta la Corte – il proscioglimento dell’imputato minorenne per irrilevanza del fatto era previsto solo nel corso delle indagini preliminari. L’art. 32 del medesimo testo di legge prevedeva poi che la sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto poteva essere pronunciata anche nell’udienza preliminare.
Dichiarate illegittime entrambe le norme per eccesso di delega con la sentenza n. 250 del 1991, l’irrilevanza del fatto venne reintrodotta dalla legge 5 febbraio 1992, n. 123, che, nel riformulare l’art. 27, inserì nel comma 4 la previsione che la sentenza con tale formula può essere pronunciata anche nell’udienza preliminare, nonché nel giudizio direttissimo e nel giudizio immediato. La medesima legge provvedeva inoltre a ripristinare, con alcune modifiche formali, il testo originario dell’art. 32, comma 1, del d.P.R. n. 448 del 1988.
Sia la normativa transitoria del d.P.R. n. 448 del 1988, sia quella prevista in occasione dell’entrata in vigore della legge n. 123 del 1992, estendevano la possibilità di pronunciare sentenza di proscioglimento per irrilevanza del fatto in ogni stato e grado nell’ambito dei procedimenti pendenti all’entrata in vigore dei rispettivi testi di legge.
L’iter legislativo della disciplina del proscioglimento per irrilevanza del fatto – chiosa a questo punto la Corte – risulta dunque caratterizzato dall’originaria volontà del legislatore di circoscrivere l’operatività dell’istituto alle fasi delle indagini preliminari e dell’udienza preliminare, poi estesa dalla legge n. 123 del 1992, mediante la previsione del comma 4 dell’art. 27 del d.P.R. n. 448 del 1988, alle ipotesi del giudizio direttissimo e del giudizio immediato, cioè alle situazioni in cui nel procedimento minorile l’imputato, dopo che nei relativi confronti è stata esercitata l’azione penale, ha il primo contatto con il giudice.
Tale volontà trova conferma nella disciplina transitoria, che ha eccezionalmente previsto la possibilità di pronunciare sentenza di proscioglimento per irrilevanza del fatto in ogni stato e grado del procedimento.
Da ultimo, l’art. 22 della legge 1° marzo 2001, n. 63 (a propria volta anticipato dall’art. 1, comma 5, del decreto-legge 7 gennaio 2000, n. 2, convertito con modificazioni nella legge 25 febbraio 2000, n. 35), sostituendo integralmente il comma 1 dell’art. 32 del d.P.R. n. 448 del 1988, ha subordinato, per quanto rileva ai fini del presente giudizio, la pronuncia nell’udienza preliminare della sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto (nonché nei casi previsti dall’art. 425 cod. proc. pen. e per concessione del perdono giudiziale) al consenso dell’imputato a che il processo sia definito in quella fase.
Il nuovo testo dell’art. 32, comma 1, è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo dalla Corte con sentenza n. 195 del 2002, nella parte in cui, in mancanza del consenso dell’imputato, preclude al giudice di pronunciare una sentenza di non luogo a procedere che non presuppone un accertamento di responsabilità.
Come emerge anche dai cenni al proscioglimento per irrilevanza del fatto contenuti nella relazione al progetto preliminare delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni, chiosa a questo punto la Corte, il legislatore delegato, in attuazione del criterio generale enunciato nell’alinea dell’art. 3 della legge-delega 16 febbraio 1987, n. 81, ha ritenuto corrispondente alle esigenze dell’educazione del minore una disciplina che privilegiasse la relativa, rapida fuoruscita dal processo, non oltre il primo contatto con il giudice successivo all’esercizio dell’azione penale.
Questa impostazione è stata sostanzialmente confermata dal legislatore del 1992, che, nel reintrodurre la disposizione che preclude in via generale di fare applicazione dell’istituto in dibattimento, ha previsto quali uniche eccezioni il giudizio direttissimo e il giudizio immediato, ipotesi caratterizzate entrambe dalla mancanza dell’udienza preliminare.
La scelta così operata – prosegue il Collegio – sembra peraltro porsi in contraddizione con la peculiare natura del proscioglimento per irrilevanza del fatto e con la funzione di favore svolta da tale pronuncia rispetto ad altre formule di proscioglimento tipiche del procedimento minorile.
In primo luogo, i presupposti sostanziali dell’istituto (tenuità del fatto e occasionalità del comportamento), variamente definito come causa oggettiva di esclusione della pena o causa di esclusione della punibilità (v. in particolare la sentenza n. 250 del 1991, ove l’irrilevanza del fatto, di cui è affermata la pertinenza al diritto sostanziale, è qualificata come causa di non punibilità), e l’esigenza di assicurarne le più ampie possibilità di accertamento rendono priva di ragionevole giustificazione una disciplina che ne limita l’operatività alle fasi iniziali del procedimento.
D’altro canto, alla luce dell’art. 31, secondo comma, Cost. e dei principi enunciati nelle Convenzioni, nelle Regole e nelle Raccomandazioni internazionali in materia, a cui la Corte si è ripetutamente richiamata (tra le tante, v. sentenze n. 195 del 2002, n. 433 del 1997, n. 250 del 1991), la tutela del preminente interesse del minore non può essere fatta meccanicisticamente coincidere con la relativa, immediata fuoruscita dal procedimento, ma richiede che l’estromissione «la più possibile sollecita» (cfr. sentenza n. 250 del 1991) dal circuito processuale non sacrifichi l’esigenza di «garantire al minore le più complete opportunità difensive connesse alla formazione della prova in dibattimento» (cfr. sentenza n. 195 del 2002, che a sua volta richiama la sentenza n. 77 del 1993).
L’obiettivo di una rapida fuoruscita del minorenne dal circuito processuale non esclude cioè che debba comunque essere adottata la decisione a lui più favorevole, ponendolo nelle condizioni di ottenere, ove ne sussistano i presupposti, la formula di proscioglimento più adeguata alla natura del fatto contestato e ai profili soggettivi del relativo comportamento.
La disciplina censurata non contempera tali esigenze, posto che, se gli elementi di fatto e le circostanze idonei a dimostrare la tenuità del fatto e l’occasionalità del comportamento emergono solo in dibattimento, o se l’imputato non ha potuto beneficiare del proscioglimento per irrilevanza del fatto nell’udienza preliminare, l’unica alternativa alla pronuncia di una sentenza di condanna è, come emblematicamente dimostrato dalla vicenda oggetto del giudizio a quo, il proscioglimento dibattimentale per concessione del perdono giudiziale.
Ma tale esito, che presuppone un’affermazione di colpevolezza, realizza un livello di tutela dell’imputato minorenne certamente inferiore rispetto a quello assicurato dal proscioglimento per irrilevanza del fatto, i cui effetti processuali e sostanziali sono di gran lunga più favorevoli.
Deve quindi per la Corte essere dichiarata, per contrasto con gli artt. 3 e 31, secondo comma, Cost., l’illegittimità costituzionale dell’art. 27, comma 4, del d.P.R. n. 448 del 1988, nella parte in cui prevede che la sentenza di proscioglimento per irrilevanza del fatto possa essere pronunciata solo nell’udienza preliminare, nel giudizio immediato e nel giudizio direttissimo, rimanendo così assorbite le censure prospettate dal rimettente in riferimento all’art. 25 Cost.
2014
Il 28 aprile viene varata la legge n.67, recante deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie, di riforma del sistema sanzionatorio e disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili.
Il relativo art.1, comma 1, lettera m), prevede la possibilità per il legislatore delegato di introdurre la non punibilità per particolare tenuità del fatto attraverso l’esclusione della punibilità medesima per le condotte sanzionate con la sola pena pecuniaria o con pene detentive non superiori nel massimo a 5 anni, quando risulti appunto la particolare tenuità dell’offesa e la non abitualità del comportamento, senza pregiudizio per l’esercizio dell’azione civile per il risarcimento del danno e adeguando la relativa normativa processuale penale.
2015
Il 16 marzo viene varato il decreto legislativo n.28, recante disposizioni in materia di non punibilità per particolare tenuità del fatto, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera m), della legge 28 aprile 2014, n. 67.
L’art.1 del decreto rinomina il Titolo V del Libro I del codice penale che ora suona: “della non punibilità per particolare tenuità del fatto. Della modificazione, applicazione ed esecuzione della pena”.
Prima dell’art.132 viene poi inserito un nuovo art.131 bis, rubricato significativamente “esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto”, alla cui stregua nei reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel massimo a 5 anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena, la punibilità è esclusa quando, per le modalità della condotta e per l’esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell’art.133 comma 1 c.p., l’offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale (comma 1).
L’offesa non può peraltro essere ritenuta di particolare tenuità, ai sensi del comma 1, quando l’autore ha agito per motivi abietti o futili, o con crudeltà, anche in danno di animali, o ha adoperato sevizie, o, ancora, ha profittato delle condizioni di minorata difesa della vittima, anche in riferimento all’età della persona stessa ovvero quando la condotta ha cagionato o da essa sono derivate, quali conseguenze non volute, la morte o le lesioni gravissime di una persona (comma 2).
Il comportamento è abituale nel caso in cui l’autore sia stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza ovvero abbia commesso più reati della stessa indole, anche se ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di particolare tenuità, nonché nel caso in cui si tratti di reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate (comma 3).
Ai fini della determinazione della pena detentiva prevista nel comma 1 non si tiene conto delle circostanze, ad eccezione di quelle per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato e di quelle ad effetto speciale (che dunque, all’opposto, rilevano in ottica di superamento della pertinente soglia); in quest’ultimo caso ai fini dell’applicazione del comma 1 non si tiene conto del giudizio di bilanciamento delle circostanze di cui all’art.69 c.p. (comma 4).
La disposizione del comma 1 si applica poi anche quando la legge prevede la particolare tenuità del danno o del pericolo come circostanza attenuante (comma 5).
La novella interviene anche sul processo penale, in specie con l’introduzione del nuovo art.651 bis, rubricato “efficacia della sentenza di proscioglimento per particolare tenuità del fatto nel giudizio civile o amministrativo di danno”, ed alla stregua del cui comma 1 la sentenza penale irrevocabile di proscioglimento pronunciata per particolare tenuità del fatto in seguito a dibattimento ha, per l’appunto, efficacia di giudicato quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della relativa illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso, nei ridetti giudizi civili o amministrativi per le restituzioni e il risarcimento del danno promosso nei confronti del prosciolto e del responsabile civile che sia stato citato ovvero sia intervenuto nel processo penale.
La stessa efficacia (comma 2) ha la sentenza irrevocabile di proscioglimento pronunciata per particolare tenuità del fatto a norma dell’art.442 (patteggiamento), salvo che vi si opponga la parte civile che non abbia accettato il rito abbreviato.
Viene poi aggiunto un comma 1 bis all’art.469 del codice di rito, onde la sentenza di non doversi procedere (in fase predibattimentale) viene pronunciata anche quando l’imputato non sia punibile ai sensi dell’articolo 131 bis del codice penale, previa tuttavia l’audizione in camera di consiglio anche della persona offesa, se compare.
In tema di casellario giudiziale, viene modificato l’art.3, comma 1, del D.p.R. 313.02, recante Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di casellario giudiziale, di anagrafe delle sanzioni amministrative dipendenti da reato e dei relativi carichi pendenti.
Più in particolare, la nuova lettera f) suona ora nel senso onde nel casellario giudiziale si iscrivono per estratto, tra gli altri, i provvedimenti giudiziari definitivi che hanno prosciolto l’imputato o dichiarato non luogo a procedere per difetto di imputabilità, o disposto una misura di sicurezza, “…nonché quelli che hanno dichiarato la non punibilità ai sensi dell’art.131 bis c.p.”.
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Il 9 aprile esce la sentenza del Tribunale di Milano n.3936 alla cui stregua, nel silenzio del nuovo art.131 bis c.p., la nuova causa di non punibilità ivi prevista deve assumersi applicabile anche alle ipotesi di delitto tentato per le quali l’art. 56. c.p. comporti l’irrogazione di una pena massima inferiore ai cinque anni, stante la comune opinione secondo cui il tentativo individua una figura autonoma di reato.
Si tratta di una opzione ermeneutica che amplia notevolmente l’ambito di operatività dell’istituto, ricomprendendovi ad esempio le ipotesi di (tentato) furto aggravato, che vi sarebbero rimaste altrimenti estranee.
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Il 15 aprile esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.15449 che rammenta come per l’operatività dell’art.131 bis occorra far riferimento, tra gli altri requisiti, alla “modalità di comportamento” tenuto dal soggetto attivo e all’ “esiguità del danno o del pericolo” prodotto all’interesse giuridico penalmente presidiato.
Sul crinale della natura giuridica, per il Collegio l’art. 131-bis c.p. ha introdotto nell’ordinamento una causa di esclusione della punibilità in senso stretto, che presuppone la sussistenza di un reato, integrato in tutti i relativi elementi oggettivi e soggettivi, ed esprime considerazioni attinenti alla non opportunità di punire fatti non ‘meritevoli’ di pena, nel rispetto dei principi di proporzione e sussidiarietà della sanzione penale.
Si tratta di un istituto di diritto sostanziale che, essendo pro reo, può per il Collegio assumersi applicabile retroattivamente, e dunque anche ai fatti commessi prima della relativa entrata in vigore.
Per quanto concerne i reati per i quali sono previste soglie (quantitative) di punibilità, per il Collegio la presunzione di offensività (ex lege e in astratto) sottesa alla previsione delle ridette soglie si colloca pur sempre sul piano astratto, non risultando dunque a priori incompatibile con una valutazione in concreto ai sensi dell’art, 131 bis c.p., che potrebbe trovare applicazione nel particolare caso di scostamento minimale dalle soglie in parola.
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Il 01 luglio esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n.33821, in tema di guida in stato di ebbrezza ex art.186, comma 7, d. lgs. 30 aprile 1992, n.285, alla cui stregua – valutata la condotta di guida concretamente non pericolosa, e i parametri di legge concernenti la pena edittale e l’abitualità – va assunto legittimo procedere all’annullamento della sentenza di merito impugnata, in ragione della sopravvenuta disciplina legislativa più favorevole al reo.
La Corte dunque assume applicabile il nuovo istituto della non punibilità per particolare tenuità dell’offesa, introdotto con l’art 131 bis nel codice penale, anche ad un reato, come quello in parola, che prevede delle soglie di punibilità.
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Il 2 novembre esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n.44132 che ribadisce come la particolare tenuità del fatto ex art.131 bis c.p trovi applicazione anche per il reato di guida in stato di ebbrezza, quantunque ciò non escluda la sospensione della patente.
Sebbene la previsione di diverse soglie di punibilità, prevista per il reato di guida in stato di ebbrezza, potrebbe generare una sorta di incompatibilità con l’istituto della particolare tenuità del fatto, ex art. 131-bis c.p., per il Collegio va invece riaffermata, per l’appunto, l’applicabilità della causa di non punibilità al reato di cui all’art. 186, comma 2, lett. b), del codice della strada (decreto legislativo 285.92).
Ciò trova conferma, dal punto di vista sistematico, nella stessa collocazione della particolare tenuità del fatto all’interno della parte generale del codice penale, palesandosi essa, come tale, astrattamente applicabile a qualsiasi fattispecie di reato.
Si tratta di un istituto che – chiosa ancora il Collegio – trova giustificazione alla luce della riconosciuta graduabilità del reato, intesa come proprietà del medesimo di presentare diversi stadi di gravità; il reato propone, più precisamente, una struttura graduabile in ogni relativa componente, tanto da potersi parlare di grado di disvalore dell’evento per indicare la misura variabile del giudizio di contrarietà all’ordinamento dell’offesa al bene (che esso produce).
Con riferimento a reati che presentano soglie di punibilità, come appunto quello di cui al caso di specie, è necessario tener conto del ruolo che tali soglie assumono all’interno della specifica fattispecie; se le soglie non esprimono l’offesa, come accade quando integrano condizioni obiettive di punibilità, sono certamente compatibili con la particolare tenuità del fatto.
Qualora il giudice si pronunci per la particolare tenuità del fatto non si pone poi – sotto altro profilo – il problema della trasmissione, da parte del medesimo giudice, degli atti all’autorità amministrativa per l’irrogazione delle sanzioni amministrative accessorie, in quanto potrà disporre egli stesso direttamente la sospensione della patente di guida, posto che la particolare tenuità del fatto presuppone sempre l’accertamento del reato di guida in stato di ebbrezza.
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Il 3 novembre esce il decreto del Tribunale di Milano che si occupa della delicata questione di diritto successorio (penale) concernente l’eventuale possibilità per il giudice dell’esecuzione di disporre la revoca – ex artt. 2, co. 2, c.p. e 673 c.p.p. – di un giudicato di condanna intervenuto prima che sopravvenisse l’art. 131 bis c.p.
La maggioritaria riconduzione dell’istituto in esame nell’ambito delle cause di esclusione della punibilità in senso stretto sospinge il Tribunale a ritenere che il d.lgs. 28 del 2015 non abbia introdotto alcuna abolitio criminis, limitandosi piuttosto a prevedere una disciplina più favorevole al reo, con conseguente applicazione dell’art. 2, comma 4. c.p., laddove si prevede l’efficacia retroattiva della lex mitior, sempre tuttavia che non sia già intervenuto un giudicato.
La nuova causa di esclusione della punibilità – chiosa ancora il Tribunale – non può travolgere il giudicato di condanna riguardante fatti di particolare tenuità commessi prima del d.lgs. n. 28/2015, nessun effetto di abolitio criminis potendosi assumere riconducibile all’introduzione dell’art. 131 bis c.p.: per l’operatività del quale il fatto concreto deve infatti (comunque) rivestire rilevanza penale; deve cioè – sia pure marginalmente – ledere o porre in pericolo il bene protetto dalla singola norma incriminatrice.
Nel caso dell’abolitio criminis, invece, per effetto di una diversa opzione del legislatore, il fatto (astratto) non riveste più carattere di illecito penale e, come tale, non reca più alcuna offesa penalmente rilevante.
Ne discende che la più favorevole disciplina introdotta dall’art. 131 bis c.p. – che, il Tribunale lo ribadisce, incide non sul disvalore astratto del fatto, ma semplicemente sulla punibilità in concreto di un fatto che mantiene il proprio carattere di illiceità penale – soggiace al disposto del comma 4 dell’art. 2 c.p. e, quindi, non trova applicazione per fatti giudicati con sentenza irrevocabile.
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Il 3 dicembre escono le ordinanze della IV sezione della Cassazione n.49824 (Tushaj) e 49825 (Coccimiglio) che rimettono alle SSUU la questione della compatibilità della causa di non punibilità di cui all’art.131 bis c.p. (c.d. fatto tenue) con i reati contraddistinti da soglie espresse di punibilità, con particolare riguardo a due reati previsti dal codice della strada, ovvero il rifiuto di sottoporsi agli accertamenti alcolimetrici ex art. 186, co. 7, del codice della strada (decreto legislativo 285.92) e la guida in stato di ebbrezza ex art. 186, co. 2, del medesimo codice.
La IV sezione, nel rimettere la questione alle SSUU, si esprime nel senso della sostanziale incompatibilità tra i reati per i quali sono previste soglie di punibilità (con valutazione nel senso della sanzione penale operata in astratto e a monte dal legislatore penale), come appunto quelli di cui al caso di specie, e la causa di non punibilità del “fatto tenue” ex art.131 bis c.p., che autorizza un intervento del giudice penale in concreto e a valle nel senso, opposto, della non punibilità.
2016
Il 14 gennaio esce l’ordinanza del Tribunale ordinario di Nola che solleva, in riferimento agli artt. 3, 13, 25 e 27 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 131-bis del codice penale, «laddove, stabilendo che la disposizione del primo comma si applica anche quando la legge prevede la particolare tenuità del danno o del pericolo come circostanza attenuante, non estende l’applicabilità della norma all’ipotesi attenuata di cui all’art. 648 c. 2. c.p., fattispecie irragionevolmente esclusa dall’ambito applicativo dell’art. 131-bis c.p. in ragione del limite massimo della pena astrattamente superiore ad anni cinque».
Ad avviso del giudice rimettente, più in specie, la disciplina censurata violerebbe l’art. 3 Cost., in quanto consentirebbe di ritenere non punibili condotte «astrattamente sanzionate con pene edittali massime inferiori ad anni cinque e concretamente di pari o maggiore offensività rispetto ad altre condotte, invece necessariamente punibili, in quanto sanzionate con limiti edittali massimi maggiori (anche se dotate di scarsa o minima offensività)».
Sarebbe violato anche l’art. 13 Cost., perché, «essendo la libertà personale costituzionalmente tutelata, la sanzione penale può essere ammessa solo come reazione ad una condotta che offenda un bene di pari rango».
Inoltre la norma censurata si porrebbe in contrasto con l’art. 25, secondo comma, Cost., in quanto «l’applicazione di una sanzione penale [deve] consegu[ire] alla commissione di un fatto-reato che non si traduca in una mera disobbedienza ad un precetto, ma che integri una condotta materiale offensiva».
Infine, sarebbe configurabile la violazione dell’art. 27, terzo comma, Cost., «atteso che presupposto della rieducazione del condannato è la percezione da parte dello stesso dell’antigiuridicità del proprio comportamento e la condanna conseguente a mera violazione di un precetto concretamente inoffensiva di alcun bene, frustrerebbe la funzione rieducativa della pena».
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Il 21 marzo esce l’ordinanza della VII sezione della Cassazione n.11833, alla cui stregua il giudice dell’esecuzione, ai sensi dell’art. 673 c.p.p., non può revocare la sentenza di condanna pronunciata prima dell’entrata in vigore della disposizione di cui all’att. 131-b c. p. per consentire l’applicazione della causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto.
Ciò in quanto essa presuppone l’accertamento del reato e la relativa riferibilità soggettiva all’imputato, incidendo solo sulla possibilità di irrogare la sanzione, mentre l’abrogazione comporta il venir meno della rilevanza penale della condotta incriminata.
In sostanza, per la Corte – sulla stessa linea del Tribunale di Milano – in termini di diritto penale intertemporale va assunta applicabile la disciplina di cui all’art.2, comma 4, c.p. (mera modifica di norme penali pro reo) e non, piuttosto, la più favorevole disciplina dell’abolitio criminis ex art. 2, comma 2, c.p., che consentirebbe al giudice dell’esecuzione anche di revocare sentenze ormai in giudicato.
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Il 6 aprile escono le sentenze gemelle delle SSUU della Cassazione n.13681 e 13682, alla cui stregua – in primis – il Legislatore, con l’introduzione dell’istituto del “fatto tenue” ex art.131 bis c.p., ha atteso ad una depenalizzazione in concreto, consentendo al giudice di escludere la punibilità per fatti che continuano ad avere in astratto rilievo penale.
Sul crinale della natura giuridica, il Collegio ribadisce infatti come l’art. 131-bis c.p. abbia introdotto nell’ordinamento una causa di esclusione della punibilità in senso stretto, che presuppone la sussistenza di un reato, integrato in tutti i relativi elementi oggettivi e soggettivi, ed esprime considerazioni attinenti alla non opportunità di punire fatti non ‘meritevoli’ di pena, nel rispetto dei principi di proporzione e sussidiarietà della sanzione penale.
Su altro crinale, stante la natura sostanziale dell’istituto, per le SSUU va autorevolmente ribadita la retroattività della pertinente disciplina pro reo, la causa di non punibilità in parola potendo essere rilevata anche direttamente nel giudizio di Cassazione, in considerazione dell’art. 609, comma 2, c.p.p., che attribuisce alla Suprema Corte la cognizione non solo di quanto devoluto nei motivi di ricorso, ma anche delle “questioni rilevabili di ufficio in ogni stato e grado del processo e (di) quelle che non sarebbe stato possibile dedurre in grado di appello“.
Sempre sul crinale del diritto penale intertemporale, le SSUU abbracciano le conclusioni della dottrina prevalente e della giurisprudenza che qualificano l’istituto di cui al nuovo art.131 bis c.p. come causa di non punibilità in senso stretto, conseguentemente assoggettandolo alla disciplina intertemporale tracciata dall’art. 2, comma 4, c.p., e sottraendolo, ad un tempo a quella di cui all’art.2, comma 2, c.p. (abolitio criminis e connessa possibilità di revocare la sentenza ormai in giudicato anche in executivis).
Ancora, per le SSUU va riaffermata, coerentemente con l’orientamento più garantista sul punto, la piena compatibilità della causa di non punibilità del “fatto tenue” con i reati contraddistinti da soglie espresse di punibilità e in particolare, con riguardo al caso di specie, con i due reati – previsti dal codice della strada (decreto legislativo 285.92) – del rifiuto di sottoporsi agli accertamenti alcolimetrici ex art. 186, comma 7, e la guida în stato di ebbrezza ex art. 186, comma 2.
Il Collegio disattende l’argomento principale addotto dalla Sezione IV rimettente, ovvero l’assunta incompatibilità tra valutazione operata a monte e in astratto dal legislatore nel definire le soglie e concrete valutazioni giudiziali a valle ex l’art. 131 bis.
Si tratta più in specie, per le SSUU, di un’impostazione condizionata dalla impropria sovrapposizione tra il fatto “tipico” ed il fatto “storico”: l’art.131 bis, nel presupporre la sussistenza di un fatto tipico (di cui la soglia è elemento costitutivo), impone dipoi al giudice di occuparsi del fatto storico verificando, senza che in ciò possa ravvisarsi un rischio di sostituzione del giudice al Legislatore, se tale fatto storico – per le modalità della condotta, l’esiguità del danno o del pericolo, per l’intensità del dolo o della colpa – possa considerarsi di speciale tenuità (rispetto al fatto tipico).
L’art. 131 bis – chiosano ancora le SSUU – non si interessa dunque della condotta tipica, bensì ha riguardo alle forme di estrinsecazione del comportamento specifico, al fine di valutarne complessivamente la gravità, l’entità del contrasto rispetto alla legge e conseguentemente il bisogno di pena; onde, il giudizio sulla tenuità del fatto richiede una valutazione complessa che ha ad oggetto le modalità della condotta e l’esiguità del danno o del pericolo valutate ai sensi dell’art. 133 c.p., comma 1.
Venendo dunque in considerazione la caratterizzazione del fatto storico nella pertinente interezza, non si dà tipologia di reato per la quale non sia possibile la considerazione della modalità della condotta; ed in cui sia quindi inibita ontologicamente l’applicazione del nuovo istituto del c.d. “fatto tenue”.
Non si configura allora, conclude sul punto il Collegio, alcuna incompatibilità strutturale tra la causa di non punibilità di cui all’art.131 bis c.p. e i reati con soglia: allorché, guardando alle modalità della condotta, all’esiguità del danno o del pericolo, all’intensità del dolo o della colpa, emerga un fatto di particolare tenuità, il giudice può escludere in concreto la punibilità quale che sia il livello di superamento della soglia stessa.
Ancora, nello stabilire l’ambito applicativo dell’art. 131-bis cod. pen., le SSUU rammentano come lo stesso sia definito non solo dalla gravità del reato desunta dalla pena edittale, ma anche dal profilo soggettivo afferente alla non abitualità del comportamento, per come definito dal terzo comma dell’art. 131-bis cod. pen.
In proposito la sentenza Tushaj precisa che il testo della legge lascia subito intendere come il requisito dell’abitualità sia frutto del sottosistema generato dalla riforma e che al relativo interno debba essere letto. Muovendosi all’interno di tale logica, evidenzia che «sarebbe dunque fuorviante riferirsi esclusivamente alle categorie tradizionali, come quelle della condanna e della recidiva» per stabilire quando il comportamento deve ritenersi abituale.
Ed in tal senso viene, pertanto, definito l’ambito operativo della norma in questione, affermandosi che «la norma intende escludere dall’ambito della particolare tenuità del fatto comportamenti “seriali”», come rivela il riferimento operato dalla disposizione succitata agli istituti codicistici del delinquente abituale, professionale e per tendenza.
In tale ottica per le Sezioni Unite deve quindi ritenersi fondamentale il riferimento che sempre il terzo comma dell’art. 131-bis opera alla commissione di “più reati della stessa indole“. Sicché l’abitualità ostativa può concretarsi «non solo in presenza di condanne irrevocabili, ma anche nel caso in cui gli illeciti si trovino al cospetto del giudice che, dunque, è in grado di valutarne l’esistenza».
A questo punto la sentenza Tushaj si pone il problema della rilevanza, ai fini della valutazione della non abitualità del comportamento, degli eventuali altri reati commessi dal medesimo autore e ritenuti non punibili ai sensi dell’art. 131- bis cod. pen., sul presupposto che il relativo provvedimento deve essere «iscritto nel casellario».
Iscrizione che per le Sezioni Unite è ineludibile in ragione della considerazione per cui «la procedura di memorizzazione delle pronunzie adottate per tenuità dell’offesa costituisce strumento essenziale per la stessa razionalità ed utilità dell’istituto», mentre «l’assenza di annotazione determinerebbe, incongruamente, la possibilità di concessione della non punibilità molte volte nei confronti della stessa persona».
Né tale annotazione costituirebbe «un vulnus a diritti fondamentali, quando l’accertamento dell’esistenza del reato implicato in tale genere di pronunzia non sia avvenuto all’esito del giudizio». Per la sentenza Tushaj «tali perplessità non tengono conto del fatto che l’annotazione è l’antidoto indispensabile contro l’abuso dell’istituto», mentre «se questo è il trasparente scopo della previsione, non si scorge per quale ragione chi abbia fruito del beneficio all’esito di una procedura che lo ha personalmente coinvolto, possa dolersi della discussa annotazione».
La paventata lesione dei diritti dell’interessato è peraltro esclusa dal fatto che «la trascrizione della decisione serve e rileva solo all’interno del sottosistema di cui ci si occupa». Conseguendone pertanto che «il rilievo dell’accertamento in ordine all’esistenza dell’illecito implicato dalla dichiarazione di non punibilità è allora esattamente e solo quello di costituire un “reato” che, sommato agli altri della stessa indole richiesti dalla legge nei termini di cui si è detto, dà luogo alla legale abitualità del comportamento» e che «nella valutazione complessiva afferente al giudizio di abitualità ben potranno essere congiuntamente considerati reati oggetto di giudizio ed illeciti accertati per così dire incidentalmente ex art. 131-bis».
In definitiva, secondo le SSUU, il requisito del comportamento abituale esige un contesto che consenta la conoscibilità del nesso di serialità e conseguentemente la concretezza e l’immediata operatività dell’effetto ostativo. Effetti questi ultimi, possibili soltanto con la memorizzazione dei provvedimenti di applicazione dell’art. 131-bis cod. pen., ancorché non definitivi.
2017
Il 26 gennaio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.30685, Vanzo, che si inserisce nel solco della giurisprudenza orientata a negare che i provvedimenti di archiviazione adottati in riferimento all’art. 131-bis cod. pen. possano essere iscritti nel casellario giudiziale.
La questione viene affrontata in relazione all’eventuale interesse dell’indagato a ricorrere avverso il provvedimento di archiviazione adottato ai sensi dell’art. 411, comma 1 -bis, cod. proc. pen. per ragioni diverse dalla violazione del diritto al contraddittorio in forza della relativa vocazione ad essere, per l’appunto, iscritto nel casellario giudiziale.
Interesse che viene ritenuto insussistente in ragione dell’esclusione di qualsivoglia pregiudizio per l’indagato in conseguenza dell’adozione del suddetto provvedimento ed in particolare della possibilità che lo stesso sia oggetto di iscrizione, dovendo per l’appunto quest’ultima negarsi.
Nell’affermare il principio, la Corte evidenzia come l’applicazione dell’art. 131-bis, cod. pen. presupponga l’accertamento della responsabilità dell’indagato per il fatto reato contestato e come pertanto dovrebbe dubitarsi della compatibilità costituzionale e convenzionale della disposizione relativa all’archiviazione per particolare tenuità del fatto qualora tale provvedimento effettivamente determinasse un effetto pregiudizievole quale quello dell’iscrizione nel casellario, posto che all’interessato non viene attribuita la possibilità di rinunziare alla causa di non punibilità ovvero di impugnare il merito della decisione dinanzi ad una giurisdizione superiore.
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Il 26 aprile esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.19932, alla cui stregua escludere a priori dall’ambito di applicabilità dell’art. 131 c.p. il reato continuato, se da un lato vedrebbe frustrata la ratio di istituto premiale della pertinente causa di non punibilità – poiché in tal caso l’imputato, pur beneficiando del regime sanzionatorio di favore di cui all’art. 81 cod. pen., andrebbe incontro ad un contraddittorio trattamento di sfavore che gli impedirebbe, senza veruna possibilità di deroga, l’accesso alla ridetta non punibilità – dall’altro vedrebbe altresì frustrato l’obiettivo di deflazione processuale seguito dal legislatore storico.
Per il Collegio, proprio sulla scorta di tali considerazioni la compatibilità della causa di non punibilità con l’istituto di cui all’art. 81 cpv. c.p. deve essere vagliata senza preclusioni ed in concreto onde il giudice, sulla base dei due indici-requisiti della modalità della condotta e dell’esiguità del danno e del pericolo, deve di volta in volta “soppesare” l’incidenza della continuazione in tutti i pertinenti aspetti (fra questi: gravità del reato, capacità a delinquere, precedenti penali e giudiziari, durata temporale della violazione, numero delle disposizioni di legge violate, effetti della condotta antecedente, contemporanea o susseguente al reato, interessi lesi e/o perseguiti dal reo, motivazioni – anche indirette – sottese alla propria condotta) per giungere ad esprimere un giudizio di meritevolezza o meno del riconoscimento della causa di non punibilità.
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Il 17 giugno esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.28341 alla cui lapidaria stregua la causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all’art. 131 bis cod. pen. non può essere dichiarata in presenza di più reati legati dal vincolo della continuazione.
Ciò in quanto, precisa il Collegio, anche il reato continuato configura un’ipotesi di “comportamento abituale” per la reiterazione di condotte penalmente rilevanti, ostativa siccome tale al riconoscimento del beneficio, essendo il segno di una devianza “non occasionale” del soggetto attivo del reato.
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Il 19 luglio esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.35590 che – in tema di rapporti tra art.131.bis c.p. e art.81, comma 2, c.p. (continuazione), abbraccia una prospettiva intermedia onde l’accertamento della compatibilità del reato continuato con la causa di non punibilità ex art. 131 bis c.p. deve essere compiuto in concreto (e, dunque, non in astratto), ma con parametri piuttosto stringenti, richiedendosi che il disegno criminoso si esplichi in una stretta contestualità di tempo e luogo, solo a questa condizione potendo valutarsene l’inoffensività.
Per la Corte il reato continuato addebitato al soggetto attivo è, nella fattispecie scandagliata, sostanzialmente unico, essendo composto da condotte poste in essere nelle medesime circostanze di tempo e di luogo e nei confronti della medesima persona, palesandosi come tale rivelatore di una unitaria e circoscritta deliberazione criminosa, incompatibile con l’abitualità presa in considerazione – in negativo – dall’art. 131/ bis cod. pen.
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Il 17 luglio esce la sentenza della Corte costituzionale n.207 che dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 131-bis del codice penale, inserito dall’art. 1, comma 2, del decreto legislativo 16 marzo 2015, n. 28 (Disposizioni in materia di non punibilità per particolare tenuità del fatto, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera m, della legge 28 aprile 2014, n. 67), sollevate, in riferimento agli artt. 3, 13, 25 e 27 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Nola.
La particolare tenuità del fatto di cui all’art. 131-bis cod. pen. costituisce – principia il Collegio – una causa di non punibilità introdotta dal decreto legislativo 16 marzo 2015, n. 28 (Disposizioni in materia di non punibilità per particolare tenuità del fatto, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera m, della legge 28 aprile 2014, n. 67), in attuazione della legge 28 aprile 2014, n. 67, recante «Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili» (ordinanza n. 46 del 2017; sentenza n. 25 del 2015).
Secondo il primo comma dell’art. 131-bis cod. pen. «la punibilità è esclusa quando, per le modalità della condotta e per l’esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell’articolo 133, primo comma, l’offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale».
Il giudice a quo pone le questioni con specifico riferimento al quinto comma dell’art. 131-bis cod. pen., secondo cui «[l]a disposizione del primo comma si applica anche quando la legge prevede la particolare tenuità del danno o del pericolo come circostanza attenuante», ritenendo che si possa estendere la previsione anche «all’ipotesi attenuata di cui all’art. 648 c. 2 c.p.», nel presupposto di un collegamento tra l’esistenza di una circostanza fondata sulla particolare tenuità del fatto e la causa di non punibilità.
La formulazione dell’ultimo comma dell’art. 131-bis cod. pen. indica però solo che l’esistenza di un’attenuante, di cui la particolare tenuità del danno o del pericolo sia elemento costitutivo, di per sé non impedisce, ma neppure automaticamente comporta, l’applicazione della causa di non punibilità.
Inoltre, chiosa ancora il Collegio, la particolare tenuità del danno o del pericolo è cosa diversa dalla “particolare tenuità del fatto”, che integra l’attenuante dell’art. 648, secondo comma, cod. pen.
Le circostanze attenuanti del fatto di speciale o di particolare tenuità, rientranti nel novero di quelle cosiddette indefinite o discrezionali (non avendo il legislatore meglio precisato il concetto di “lievità” o “tenuità” del fatto), hanno la funzione di mitigare una risposta punitiva improntata a particolare rigore, che proprio per questo rischia di rivelarsi incapace di adattamento alla varietà delle situazioni concrete riconducibili al modello legale (sentenza n. 68 del 2012).
Queste attenuanti, previste nel codice penale o in leggi speciali, si fondano per lo più su una valutazione globale del fatto o sulla considerazione dei relativi, soli profili oggettivi, quali le caratteristiche dell’azione criminosa o l’entità del danno o del pericolo, e presentano perciò vari aspetti che le differenziano dalla causa di non punibilità dell’art. 131-bis cod. pen.
Questa infatti, secondo la giurisprudenza della Corte di cassazione, richiede una valutazione complessa e congiunta di tutte le peculiarità della fattispecie concreta, che tenga conto delle modalità della condotta, del grado di colpevolezza da esse desumibile e dell’entità del danno o del pericolo (Corte di cassazione, sezioni unite, 25 febbraio 2016, n. 13681).
Perciò tra l’attenuante del fatto di particolare tenuità, prevista per il reato di ricettazione, e la causa di non punibilità dell’art. 131-bis cod. pen. non può stabilirsi alcun collegamento che possa comportarne l’applicabilità.
Anche a prescindere da tale collegamento però, l’inapplicabilità della causa di non punibilità alla fattispecie in questione secondo il giudice rimettente darebbe luogo per vari aspetti alla violazione degli artt. 3, 13, 25 e 27 Cost.
Il giudice rimettente – precisa la Corte – ritiene che il limite edittale di cinque anni determinerebbe un’ingiustificata disparità di trattamento, con conseguente violazione dell’art. 3 Cost., perché «comporta, nell’applicazione pratica della nuova causa di non punibilità, un inevitabile, ingiustificato, diverso trattamento di ipotesi astrattamente configurabili come di particolare tenuità, che non appare sorretto da valori rispondenti a un principio di ragionevolezza legislativa».
Rientrerebbero nell’ambito della causa di non punibilità reati che, pur essendo sanzionati con pene detentive non superiori nel massimo a cinque anni, sarebbero «di sicuro maggiore allarme sociale rispetto alla ipotesi attenuata della ricettazione ex art. 648 c. 2 c.p.».
A riprova di tale affermazione, prosegue la Corte, il giudice a quo ha indicato un ampio elenco di reati ai quali sarebbe applicabile l’art. 131-bis cod. pen. (tra i quali, reati contro la pubblica amministrazione, contro l’amministrazione della giustizia, contro la fede pubblica, contro l’incolumità individuale, contro la libertà personale ed altri), rilevando che potrebbero essere giudicate non punibili condotte sanzionate con pene edittali massime non superiori a cinque anni, ma di offensività maggiore di quelle rientranti nella previsione dell’art. 648, secondo comma, cod. pen.
In proposito, per il Collegio è agevole rilevare che la sostanziale eterogeneità delle situazioni poste a confronto determina l’inidoneità dei tertia comparationis a fungere da termine di riferimento onde verificare la pretesa lesione del principio di uguaglianza (ordinanza n. 109 del 2004). Le ipotesi di reato che il giudice evoca sono incomparabili con la fattispecie attenuata prevista dall’art. 648 cod. pen., sia per quanto attiene alla loro struttura, sia anche, per la maggior parte di esse, per quanto attiene ai beni tutelati.
Pure il fatto che siano stati indicati a paragone una quantità di reati, tra loro diversi, e non soltanto uno od alcuni di essi, mostra chiaramente che nessuno di questi è in grado di costituire un modello comparativo, al quale fare riferimento per individuare una soluzione costituzionalmente obbligata. Ed è noto che, anche in presenza di norme manifestamente arbitrarie o irragionevoli, solo l’indicazione di un tertium comparationis idoneo, o comunque di specifici cogenti punti di riferimento, può legittimare l’intervento della Corte in materia penale, poiché non spetta ad essa assumere autonome determinazioni in sostituzione delle valutazioni riservate al Legislatore.
Se così non fosse, l’intervento, essendo creativo, interferirebbe indebitamente nella sfera delle scelte di politica sanzionatoria rimesse al legislatore (sentenze n. 236 e n. 148 del 2016).
Nel prospettare l’esistenza di un’irragionevole disparità di trattamento, il giudice rimettente ha messo inoltre in discussione – prosegue la Corte – il limite massimo di cinque anni previsto dall’art. 131-bis cod. pen.
Anche sotto questo aspetto la questione viene tuttavia assunta priva di fondamento.
Come la Corte rammenta di avere già chiarito, «l’estensione di cause di non punibilità, le quali costituiscono altrettante deroghe a norme penali generali, comporta strutturalmente un giudizio di ponderazione a soluzione aperta tra ragioni diverse e confliggenti, in primo luogo quelle che sorreggono la norma generale e quelle che viceversa sorreggono la norma derogatoria: un giudizio che […] appartiene primariamente al legislatore» (sentenza n. 140 del 2009). Tale giudizio è, pertanto, suscettibile di censure di legittimità costituzionale solo nei casi di manifesta irragionevolezza.
Nel caso in questione il giudice rimettente ha censurato il limite di cinque anni previsto dall’art. 131-bis cod. pen., che non può considerarsi, né irragionevole, né arbitrario. Infatti rientra nella logica del sistema penale che, nell’adottare soluzioni diversificate, vengano presi in considerazione determinati limiti edittali, indicativi dell’astratta gravità dei reati; e l’individuazione di tali limiti (così come, nel caso in esame, l’indicazione del limite relativo alla causa di non punibilità) è frutto di un apprezzamento che spetta al legislatore.
Una volta ritenuta non fondata la censura relativa all’art. 3 Cost., anche le censure relative agli altri parametri risultano per il Collegio prive di fondamento, essendo comunque collegate alla (pretesa) irragionevolezza della norma censurata.
Va, inoltre, aggiunto che le censure relative agli artt. 25, secondo comma, e 27, terzo comma, Cost. si fondano sull’erroneo presupposto che la causa di non punibilità si applichi in caso di assenza di offensività della condotta, quando costituisce invece un dato pacifico (ribadito dalla Corte di cassazione a sezioni unite con la sentenza del 25 febbraio 2016, n. 13681) che l’istituto in questione richiede l’esistenza di un’offensività, sia pur minima, nel fatto da giudicare.
Va infine osservato – conclude la Corte – che, se è vero che in materia penale l’esercizio della discrezionalità legislativa è in gran parte sottratto al sindacato della Corte medesima, è anche vero che di una comminatoria per la ricettazione di particolare tenuità, che va (con riguardo alla pena detentiva) da un minimo di quindici giorni fino ad un massimo di sei anni di reclusione, non può non rilevarsi l’anomalia, tenuto conto dell’estensione dell’intervallo (sentenza n. 299 del 1992) e dell’ampia sovrapposizione con la cornice edittale della fattispecie non attenuata (punita con una pena che va da un minimo di due anni a un massimo di otto anni di reclusione).
È da aggiungere che mentre il massimo di sei anni, rispetto agli otto anni della fattispecie non attenuata, costituisce una diminuzione particolarmente contenuta (meno di un terzo), al contrario il minimo di quindici giorni, rispetto ai due anni della fattispecie non attenuata, costituisce una diminuzione enorme.
Inoltre, se si fa riferimento alla pena minima di quindici giorni di reclusione, prevista per la ricettazione di particolare tenuità, non è difficile immaginare casi concreti in cui rispetto a tale fattispecie potrebbe operare utilmente la causa di non punibilità (impedita dalla comminatoria di sei anni), specie se si considera che, invece, per reati (come, ad esempio, il furto o la truffa) che di tale causa consentono l’applicazione, è prevista la pena minima, non particolarmente lieve, di sei mesi di reclusione. Pena che, secondo la valutazione del legislatore, dovrebbe essere indicativa di fatti di ben maggiore offensività.
Per ovviare a una situazione di questo tipo, oltre alla pena massima edittale, al di sopra della quale la causa di non punibilità non possa operare, potrebbe prevedersi per la Corte – in seno all’art.131 bis c.p. – anche una pena minima, al di sotto della quale i fatti possano comunque essere considerati di particolare tenuità.
Interventi del genere (come anche altri, sollecitati attraverso questioni di legittimità costituzionale che non hanno potuto trovare accoglimento) esulano tuttavia, per costante giurisprudenza, dai poteri della Corte. Di tali interventi, una volta che ne sia stata rilevata l’esigenza, non può non farsi carico il Legislatore, per evitare il protrarsi di trattamenti penali generalmente avvertiti come iniqui.
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Il 5 settembre esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.40293, Serra, che affronta in via incidentale la questione della iscrivibilità o meno del provvedimento di archiviazione ex art.131 bis c.p. nel casellario giudiziale.
Ciò, più in specie, all’esclusivo fine di ribadire il principio, poi massimato, per cui il ridetto provvedimento di archiviazione per particolare tenuità del fatto, pronunciato ai sensi dell’art. 411, comma 1, cod. proc. pen., è nullo se emesso senza l’osservanza della speciale procedura prevista al comma 1-bis di detta norma, non essendo le disposizioni generali contenute negli artt. 408 e ss. del codice di rito idonee a garantire il necessario contraddittorio sulla configurabilità della causa di non punibilità prevista dall’art. 131-bis cod. pen.
In motivazione la sentenza Serra osserva tuttavia come l’instaurazione del contraddittorio con l’indagato nelle forme previste dalla disposizione sopra richiamata sia condizione ineludibile per la validità del provvedimento di archiviazione in quanto quest’ultimo non è completamente liberatorio, essendo destinato ad essere iscritto nel casellario giudiziale in virtù di quanto disposto dall’art. 4 d. Igs. n. 28 del 2015.
Nonostante la natura meramente assertiva di tale affermazione, essa presuppone una interpretazione del significato della modifica apportata all’art. 3, comma 1, lettera f) del d.P.R. n. 313 del 2002 diametralmente opposta rispetto a quella adottata dalle pronunzie che si inseriscono nell’orientamento maggioritario, orientato piuttosto ad escludere la ridetta iscrivibilità nel casellario.
Si delinea in tal modo un contrasto, sul quale verranno chiamate a pronunciarsi le SSUU.
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Il 28 novembre esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.53683, che conferisce continuità all’orientamento pretorio maggioritario contrario all’estensione applicativa dell’art. 131 c.p. anche ai reati di competenza del Giudice di Pace.
Per il Collegio occorre muovere dalla funzione (sul crinale del rito) precipuamente deflattiva del processo penale di cui al ridetto art.131 bis c.p., in ciò risiedendo il tratto maggiormente differenziale di essa rispetto alla figura dell’art. 34 del decreto legislativo 274/2000, improntata piuttosto ad esigenze conciliative tra autore e vittima del reato.
Tale circostanza spiega per le SSUU, più nel dettaglio, il diverso ruolo riservato dai due istituti alla persona offesa e ai relativi, eventuali poteri “di veto“, contemplati unicamente nel giudizio innanzi al Giudice di Pace.
Tanto premesso, chiosa ancora il Collegio, i rapporti tra i due istituti non possono essere risolti in base al principio di specialità tra i singoli “precetti” (ex art. 15 c.p.) e ciò atteso come entrambe le disposizioni presentino un nucleo di elementi comuni ed altri elementi, invece, reciprocamente specializzanti; per la Corte, si è allora piuttosto al cospetto di un rapporto di “interferenza“, dovendo bensì riferirsi alle diverse “leggi penali” in cui gli elementi reciprocamente specializzanti vanno ad inserirsi.
Del resto, l’art. 16 c.p., prevede l’applicabilità delle disposizioni del codice penale – e dunque lo stesso art.131 bis c.p. – anche alle materie regolate da altre leggi penali, salvo tuttavia che da queste sia diversamente stabilito.
Tanto premesso, prosegue la Corte, il corpo normativo che regola il procedimento innanzi al Giudice di Pace contiene già una disciplina, in tal senso definibile “speciale” rispetto a quella codicistica, del fatto di particolare tenuità, compiutamente ed autonomamente regolata – al pari di quanto del resto avviene, ad es., in tema di sospensione condizionale della pena, non applicabile nei reati di competenza del medesimo Giudice di Pace – donde l’impossibilità di estendervi l’art. 131 bis c.p. ridetto, quale istituto, peraltro, espressivo di una differente ratio ispiratrice.
È proprio tale diversità – condensata nella alterità degli epiloghi decisori e delle pene irrogabili – d’altronde, ad escludere per il Collegio che l’inapplicabilità dell’art. 131 bis c.p. a reati astrattamente meno gravi di quelli di competenza del giudice ordinario (perché appannaggio del Giudice di Pace) si traduca in una lesione dell’art. 3 Cost., atteso come detta esclusione venga poi “compensata” dalla tutela di interessi di pari dignità (quali quelli della persona offesa).
Sulla scorta di tali rilievi, sarebbe dunque per il Collegio del tutto improprio ravvisare l’operatività dei principi in tema di successione di norme penali nel tempo ovvero di abrogazione tacita di norma precedente da parte di disposizione sopravvenuta: principi che, invero, postulano una “convivenza” operativa tra le due norme in successione, nella specie insussistente.
Nella medesima direzione depone poi, ad avviso della Corte, l’ulteriore intervento legislativo (contenuto nella legge 103/17) che ha “richiamato” nel codice penale, autonomamente disciplinandolo, un istituto tipicamente operante per i reati di competenza del Giudice di Pace, quale l’estinzione del reato conseguente a condotte “riparatorie“‘ (art. 162 ter c.p.): non essendo state dettate norme di coordinamento con l’analogo istituto innanzi al Giudice di Pace, concludono le SSUU, ciò dimostra la volontà del Legislatore di tenere distinti i due settori, quello di competenza appunto del Giudice di Pace e quello di competenza dei Giudici “superiori”.
Peraltro, quando all’imputazione di un reato di competenza del Giudice di Pace si aggiunge, a carico dello stesso indagato o imputato, un reato di competenza del tribunale legato da nesso di connessione, pur nel limitato ambito applicativo di cui all’art. 6 del d.lgs. n. 274 del 2000, secondo cui ricorre la connessione soltanto nel caso di persona imputata di più reati commessi con la stessa unica azione od omissione (sentenza n. 64 del 2009) – si ha non solo che si radica la competenza nel tribunale per entrambi i reati, ma anche che vengono meno le ragioni del maggior favore per l’imputato della regola processuale della improcedibilità dell’azione penale per la particolare tenuità del fatto e si riespande la regola comune codicistica della non punibilità per la particolare tenuità dell’offesa, estesa anche al reato che, in mancanza della connessione, sarebbe stato di competenza del giudice di pace.
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Il 21 dicembre esce l’ordinanza della Corte costituzionale n.279 che dichiara manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lettera m), della legge 28 aprile 2014, n. 67 (Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili), e dell’art. 131-bis, primo e terzo comma, del codice penale, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 25 e 27 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Padova, nonché manifestamente inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 131-bis, quarto comma, cod. pen., sollevate, in riferimento agli artt. 3, 25, 27 e 76 Cost., sempre dal Tribunale ordinario di Padova.
Secondo il Tribunale rimettente – rammenta la Corte – il requisito della non abitualità sarebbe in contrasto con più disposizioni costituzionali: innanzi tutto con l’art. 3 della Costituzione, perché lo stesso fatto sarebbe trattato diversamente in ragione di elementi che non lo riguardano nella relativa materialità, ma si riferiscono ad aspetti soggettivi; poi con l’art. 25 Cost., perché con l’espresso richiamo al «“fatto commesso”» questa norma dà rilevanza alla condotta dell’agente per il pertinente, obiettivo disvalore e non solo in quanto «manifestazione sintomatologica di pericolosità sociale»; infine con l’art. 27 Cost., perché «la punizione che discende da un fatto oggettivamente privo di offensività apprezzabile espone il condannato ad una pena sproporzionata ex se alla gravità del reato commesso», che «non potrà mai essere sentita […] come sanzione rieducatrice».
Tali questioni, enunciate in via prioritaria dal giudice rimettente, sono tuttavia per la Corte manifestamente infondate.
Il fatto particolarmente lieve, cui fa riferimento l’art. 131-bis cod. pen., è comunque un fatto offensivo, che costituisce reato e che il legislatore preferisce non punire, sia per riaffermare la natura di extrema ratio della pena e agevolare la “rieducazione del condannato”, sia per contenere il gravoso carico di contenzioso penale gravante sulla giurisdizione.
L’avere condizionato la non punibilità anche attraverso un dato soggettivo, costituito dalla non abitualità del comportamento penalmente illecito, non contrasta per il Collegio con il principio di uguaglianza, perché il trattamento diverso è collegato a una situazione giuridica diversa.
Un requisito analogo, costituito dalla occasionalità del fatto, è previsto – rammenta la Corte – anche nelle fattispecie simili del giudizio davanti al giudice di pace (art. 34 del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274, recante «Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468») e del giudizio davanti al tribunale per i minorenni (art. 27 del d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448, recante «Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni»).
Riconoscere la necessità che la fattispecie penale sia ancorata al «“fatto commesso”», e non a una mera «manifestazione sintomatologica di pericolosità sociale», come rileva il giudice rimettente, non significa tuttavia per la Corte negare qualunque rilevanza alla condotta dell’imputato antecedente, contemporanea o successiva alla commissione del fatto.
La generale rilevanza di tale condotta ai fini della pena risulta dall’art. 133 cod. pen., oltre che dalla disciplina della recidiva, quando si tratta di condotta antecedente alla commissione del fatto; un comportamento penalmente illecito con caratteristiche di abitualità, specie se costituite da una recidiva specifica e reiterata, così come può rilevare per determinare la pena, analogamente può rilevare per determinare la punibilità di un fatto che, seppure di particolare tenuità, costituisce comunque reato.
A una logica per vari aspetti analoga a quella dell’art. 131-bis cod. pen. – prosegue il Collegio – si ispira del resto anche la disciplina della sospensione condizionale della pena, che, a norma dell’art. 164 cod. pen., «è ammessa soltanto se, avuto riguardo alle circostanze indicate nell’articolo 133, il giudice presume che il colpevole si asterrà dal commettere ulteriori reati» e non può essere concessa «a chi ha riportato una precedente condanna a pena detentiva per delitto».
Il riferimento del Tribunale rimettente alle sentenze della Corte (n. 106 e n. 105 del 2014, e n. 251 del 2012), che in casi particolari hanno dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, cod. pen., non è per la Corte pertinente perché quelle decisioni non hanno fatto venire meno il generale divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti sulla recidiva dell’art. 99, quarto comma, cod. pen., ma lo hanno escluso solo in ipotesi particolari, nelle quali il divieto incideva su circostanze attenuanti indicative di una diversità materiale del fatto per la relativa minore offensività.
In quei casi infatti il divieto comportava la violazione dell’art. 3 Cost., perché dava luogo a un uguale trattamento di fatti oggettivamente diversi, mentre nel caso in esame vengono in questione fatti oggettivamente uguali, o equivalenti, trattati diversamente, per il comportamento abitualmente illecito di chi li ha commessi.
Applicare la causa di non punibilità prevista dall’art. 131-bis cod. pen. anche quando il comportamento illecito dell’agente risulta connotato dall’abitualità contrasterebbe con le esigenze di prevenzione speciale e significherebbe garantire all’imputato l’impunità per tutti gli analoghi reati che dovesse in futuro commettere.
In conclusione, per la Corte le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lettera m), della legge n. 67 del 2014, e dell’art. 131-bis, primo e terzo comma, cod. pen. sono manifestamente infondate, perché l’avere subordinato la causa di non punibilità per la particolare tenuità del fatto alla non abitualità del comportamento illecito non viola il principio di uguaglianza, dato che anche in presenza di fatti analoghi le ineguali condizioni soggettive giustificano il diverso trattamento penale, e per lo stesso motivo non è irragionevole e non risulta in contrasto con gli artt. 25 e 27 Cost.
La manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 131-bis, primo e terzo comma, cod. pen. comporta poi per il Collegio la manifesta inammissibilità delle altre questioni sollevate dal Tribunale ordinario di Padova: infatti, non essendo venuto meno il requisito della non abitualità della condotta, le altre questioni sono prive di rilevanza, perché la causa di non punibilità prevista dall’art. 131-bis cod. pen. risulta comunque inapplicabile nel giudizio a quo.
2018
Il 15 gennaio esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.3817, alla cui stregua, nel respingere i pertinenti dubbi sulla legittimità costituzionale della relativa disciplina sollevati dal ricorrente, l’esclusione del provvedimento di archiviazione per particolare tenuità del fatto dal novero di quelli iscrivibili nel casellario giudiziario si giustifica anche e soprattutto in ragione della natura “non definitiva” del medesimo, argomentando in tal senso dalla possibilità per il pubblico ministero di ottenere la riapertura delle indagini ex art. 414 cod. proc. pen.
Per la Corte, tale natura assume valore dirimente, giacché il tenore testuale dell’art. 3, comma 1, lettera f). d. Igs. n. 313 del 2002 indicherebbe come, in tema di difetto di imputabilità, di misure di sicurezza e, per l’appunto, di non punibilità per particolare tenuità del fatto, i provvedimenti di cui è prevista l’iscrizione sarebbero solo quelli definitivi.
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*Sempre il 5 febbraio esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.5358 che – in tema di rapporti tra art.131.bis c.p. e art.81, comma 2, c.p. (continuazione) – abbraccia una prospettiva intermedia onde l’accertamento della compatibilità del reato continuato con la causa di non punibilità ex art. 131 bis c.p. deve essere compiuto in concreto (e, dunque, non in astratto), ma con parametri piuttosto stringenti, richiedendosi che il disegno criminoso si esplichi in una stretta contestualità di tempo e luogo, solo a questa condizione potendo valutarsene l’inoffensività.
Per la Corte il reato continuato addebitato al soggetto attivo è, nella specie, sostanzialmente unico, essendo composto da fattispecie poste in essere nelle medesime circostanze di tempo e di luogo e nei confronti della medesima persona, palesandosi come tale rivelatore di una unitaria e circoscritta deliberazione criminosa, incompatibile con l’abitualità presa in considerazione – in negativo – dall’art. 131/ bis cod. pen.
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Il 28 febbraio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.9072, che si occupa della spinosa questione dell’ applicabilità all’illecito dell’Ente, ai sensi del d.lgs. 231/2001, dell’art.131 bis c.p., con particolare riguardo al profilo se l’ente ridetto possa o meno giovarsi della assoluzione pronunciata nei confronti della persona fisica che nel relativo interesse o vantaggio abbia agito, appunto per particolare tenuità del fatto.
Il Collegio abbraccia la soluzione (negativa) della non estensibilità all’Ente dell’eventuale riconoscimento, per l’imputato, della causa di non punibilità ai sensi dell’art. 131 bis c.p., la declaratoria per particolare tenuità del fatto postulando un pieno accertamento del fatto reato, cui semplicemente non segue l’irrogazione della pena, e risolvendosi dunque in una affermazione di responsabilità “senza condanna” del soggetto attivo, non idonea ad intaccare la consistenza storica e giuridica del reato siccome di volta in volta giudizialmente accertato.
Che la pronuncia ai sensi dell’art. 131 bis c.p. non possa assimilarsi appieno ad una assoluzione, chiosa ancora la Corte, sarebbe poi fatto palese dalla circostanza onde il precedente risulta iscritto nel certificato del casellario giudiziale e dispiega effetti di giudicato, ex art. 651 bis c.p.p., nel giudizio civile e amministrativo.
Ad analoghe conclusioni induce poi – chiosa ancor la Corte – una lettura in chiave teleologica dell’art. 8 d.lgs. 231/2001, laddove sancisce la responsabilità dell’Ente anche in caso di estinzione del reato-presupposto (fatta eccezione per i casi di amnistia), la tesi affermativa ingenerando dunque una palese irragionevolezza sistematica, sol che si consideri come si punirebbe l’Ente al ricorrere di cause estintive del reato, lasciandolo invece senza sanzione in presenza di mere cause di non punibilità dell’autore persona fisica.
La Corte conclude dunque nel senso della sostanziale inidoneità della pronuncia ex art. 131 bis c.p. ad influenzare il giudizio di responsabilità nei confronti dell’Ente, rispetto al quale il giudice deve, quindi, procedere all’autonomo accertamento della responsabilità amministrativa dipendente da reato.
Una presa di posizione che parte della dottrina non mancherà di criticare, sottolineando la radicale diversità tra cause di estinzione del reato – espressamente richiamate dall’art. 8 d.lgs. 231/2001 – e cause di non punibilità – sulle quali, all’opposto, il medesimo art. 8 tace – onde ammettere la responsabilità dell’ente a fronte di una causa di non punibilità, quale quella per “fatto tenue”, implicherebbe applicare la norma analogicamente in malam partem.
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Il 25 giugno esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 31600, Matarrese, che dichiara inammissibile per carenza di interesse l’impugnazione avverso il provvedimento di archiviazione ex art.131 bis c.p. argomentando dalla non definitività dello stesso.
La sentenza si segnala per aver invece accolto il ricorso nella parte in cui con il medesimo era stata dedotta anche l’illegittimità dell’ordine di iscrizione nel casellario contestualmente adottato nel caso di specie dal G.i.p.
In proposito viene rilevato dalla Corte come quest’ultimo sia provvedimento autonomo rispetto a quello di archiviazione, la cui adozione è però di competenza esclusiva dell’ufficio del casellario e non spetta pertanto al giudice della cognizione.
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Il 12 luglio esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.32010, onde – valutata nel relativo complesso – la particolare tenuità del fatto ai sensi dell’art. 34 del d.lgs. n. 274 del 2000 ha uno spettro più ampio dell’offesa di particolare tenuità ex art. 131-bis cod. pen., tant’è che incide più radicalmente sull’esercizio dell’azione penale e non già solo sulla punibilità.
E infatti, chiosa il Collegio, la pronuncia del giudice non è iscritta nel casellario giudiziario, a differenza della sentenza che dichiara la non punibilità ex art. 131-bis cod. pen.; né, a differenza di quest’ultima, la pronuncia di improcedibilità ex art. 34 del d.lgs. n. 274 del 2000 è idonea a formare alcun giudicato sull’illiceità penale della condotta, come nella fattispecie dell’art. 651-bis cod. proc. pen.; neppure, per la stessa ragione, tale pronuncia è impugnabile dall’imputato, a differenza della sentenza di proscioglimento per la particolare tenuità del fatto ex art. 131-bis cod. pen.
2019
Il 16 maggio esce la sentenza della Corte costituzionale n.120 che dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 131-bis del codice penale, sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Catania, con riguardo al processo celebrato innanzi al Giudice di Pace.
Occorre per la Corte preliminarmente inquadrare il contesto normativo nel cui ambito si pone la questione di legittimità costituzionale sottoposta al pertinente scandaglio.
L’art. 131-bis cod.pen. inserito dall’art. 1, comma 2, del decreto legislativo 16 marzo 2015, n. 28, recante «Disposizioni in materia di non punibilità per particolare tenuità del fatto, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera m), della legge 28 aprile 2014, n. 67», in attuazione della legge 28 aprile 2014, n. 67 (Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili) prevede una generale causa di esclusione della punibilità che si raccorda con l’altrettanto generale presupposto dell’offensività della condotta, requisito indispensabile per la sanzionabilità penale di qualsiasi condotta in violazione di legge.
Ha la stessa Corte, e all’uopo lo rammenta, che «l’offensività deve ritenersi di norma implicita nella configurazione del fatto e nella sua qualificazione di illecito da parte del legislatore» (sentenza n. 333 del 1991).
Il legislatore del 2015, perseguendo una finalità deflattiva analoga a quella sottesa a misure di depenalizzazione ed esercitando l’ampia discrezionalità nel definire «l’estensione di cause di non punibilità, le quali costituiscono altrettante deroghe a norme penali generali» (sentenza n. 140 del 2009), ha considerato i reati al di sotto di una soglia massima di gravità – quelli per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, nonché quelli puniti con la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena detentiva – e ha tracciato una linea di demarcazione trasversale per escludere la punibilità – ma non l’illiceità penale – delle condotte che risultino, in concreto, avere un tasso di offensività marcatamente ridotto, quando appunto l’«offesa è di particolare tenuità».
Su questo presupposto fa perno la norma censurata, poi integrata da requisiti ulteriori della causa di non punibilità, che meglio delineano la fattispecie della particolare tenuità dell’offesa: il comportamento deve risultare non abituale; deve ricorrere l’esiguità del danno o del pericolo; occorre tener conto delle modalità della condotta. La stessa particolare tenuità è ulteriormente specificata – chiosa ancora la Corte – nel secondo comma dell’art. 131-bis cod. pen., che la esclude quando l’autore ha agito per motivi abietti o futili, o con crudeltà, anche in danno di animali, o ha adoperato sevizie o, ancora, ha profittato delle condizioni di minorata difesa della vittima, anche in riferimento all’età della stessa, ovvero quando la condotta ha cagionato o da essa sono derivate, quali conseguenze non volute, la morte o le lesioni gravissime di una persona.
La perdurante illiceità penale della condotta, anche quando il fatto è di lieve entità, risulta inequivocabilmente dall’art. 651-bis cod. proc. pen., secondo cui la sentenza penale irrevocabile di proscioglimento pronunciata per particolare tenuità del fatto in seguito a dibattimento ha efficacia di giudicato quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della relativa illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso, nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni e il risarcimento del danno promosso nei confronti del prosciolto e del responsabile civile che sia stato citato ovvero sia intervenuto nel processo penale.
Quindi è proprio l’illiceità penale, tra l’altro, che fa stato nel giudizio civile o amministrativo con conseguente configurabilità del danno anche non patrimoniale perché cagionato da reato (art. 185, secondo comma, cod. pen.). La Corte rammenta in proposito di avere affermato che «il fatto particolarmente lieve, cui fa riferimento l’art. 131-bis cod. pen., è comunque un fatto offensivo, che costituisce reato e che il legislatore preferisce non punire, sia per riaffermare la natura di extrema ratio della pena e agevolare la “rieducazione del condannato”, sia per contenere il gravoso carico di contenzioso penale gravante sulla giurisdizione» (ordinanza n. 279 del 2017).
Inoltre, prosegue il Collegio, sono iscrivibili nel casellario giudiziario i provvedimenti definitivi che hanno dichiarato la non punibilità ai sensi dell’art. 131-bis cod. pen., come previsto dall’art. 3, comma 1, lettera f), del d.P.R. 14 novembre 2002, n. 313, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di casellario giudiziale, di casellario giudiziale europeo, di anagrafe delle sanzioni amministrative dipendenti da reato e dei relativi carichi pendenti. (Testo A)».
Questa causa di non punibilità, così declinata, costituisce «innovazione di diritto penale sostanziale» (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 25 febbraio-6 aprile 2016, n. 13681) ed è di carattere generale tanto che – come stabilisce espressamente l’ultimo comma dell’art. 131-bis – trova applicazione anche quando la legge prevede la particolare tenuità del danno o del pericolo come circostanza attenuante; ciò peraltro non esclude, «ma neppure automaticamente comporta, l’applicazione della causa di non punibilità» (sentenza n. 207 del 2017).
La novità normativa si colloca, prosegue a questo punto la Corte, sulla scia di una disciplina di settore ispirata dalla stessa ratio.
L’art. 27 del d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448 (Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni), come sostituito dall’art. 1 della legge 5 febbraio 1992, n. 123 (Sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto. Modifiche al testo delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 settembre 1988, n. 448), prevede la «tenuità del fatto» come presupposto perché il giudice possa emettere, concorrendo altre condizioni (quale l’occasionalità del comportamento), una sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto, avente natura sostanziale di causa di non punibilità, nei confronti dell’imputato minorenne.
L’originaria limitazione alla sede processuale dell’udienza preliminare, del giudizio direttissimo e del giudizio immediato è stata dichiarata costituzionalmente illegittima con conseguente generalizzazione dell’operatività di tale speciale causa di non punibilità al processo minorile (sentenza n. 149 del 2003).
Parimenti l’art. 34 del d.lgs. n. 274 del 2000 esclude la procedibilità per i reati di competenza del Giudice di Pace quando «[i]l fatto è di particolare tenuità». La nozione di “particolare tenuità” del fatto è ancora più ampia perché è la risultante complessiva di plurimi fattori concorrenti, centrati sull’esiguità del danno o del pericolo derivati dalla condotta astrattamente sussumibile nella fattispecie di reato, ma integrati anche dall’occasionalità della condotta e dalla valutazione del grado della colpevolezza, nonché dal bilanciamento tra il pregiudizio che l’ulteriore corso del procedimento può recare alle esigenze di lavoro, di studio, di famiglia o di salute della persona sottoposta a indagini o dell’imputato e l’interesse della persona offesa alla prosecuzione del procedimento.
Lo spettro più ampio della particolare tenuità del fatto ex art. 34 del d.lgs. n. 274 del 2000 è coerente con la costruzione di questa fattispecie come condizione di procedibilità dell’azione penale, piuttosto che come causa di non punibilità. Si tratta, precisa la Corte, di una regola di carattere generale, tant’è che trova applicazione anche nel caso in cui i reati di competenza del Giudice di Pace siano giudicati da un giudice diverso da quest’ultimo, quale potrebbe essere il tribunale (art. 63, comma 1, del d.lgs. n. 274 del 2000).
Le tre citate disposizioni – l’art. 131-bis cod. pen. per i reati di competenza del giudice togato, l’art. 27 del d.P.R. n. 448 del 1988 per i reati commessi da minorenni e l’art. 34 del d.lgs. n. 274 del 2000 per i reati di competenza del giudice di pace – convergono a realizzare, sotto questo aspetto, una regolamentazione di sostanziale uniformità in termini di rilevanza della particolare tenuità dell’offesa, nel nucleo essenziale delle norme, pur con vari elementi differenziali e specializzanti.
Infatti, precisa ancora la Corte, «il legislatore ben può introdurre una causa di proscioglimento per la “particolare tenuità del fatto” strutturata diversamente» (sentenza n. 25 del 2015); tanto che – si è affermato (ordinanza n. 46 del 2017) – l’art. 131-bis cod. pen. costituisce «una disposizione sensibilmente diversa da quella dell’art. 34 del d.lgs. n. 274 del 2000».
È però sorto non di meno – riprende a questo punto il Collegio – il problema interpretativo dell’applicabilità, o no, della causa di non punibilità ai sensi dell’art. 131-bis cod. pen. anche ai reati di competenza del Giudice di Pace. Tale questione ha registrato un iniziale contrasto di giurisprudenza, composto infine dalle Sezioni unite della Corte di cassazione che hanno affermato, come principio di diritto, che la causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, prevista dall’art. 131-bis cod. pen., non è applicabile nei procedimenti relativi a reati, per l’appunto, di competenza del Giudice di Pace (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 22 giugno-28 novembre 2017, n. 53683).
Tale arresto giurisprudenziale, cui la Corte di cassazione ha dato continuità anche in seguito, costituisce “diritto vivente” sicché la disposizione censurata esprime il contenuto normativo così ricostruito. Il dato giurisprudenziale, anche in un ordinamento che non conosce una rigida regola dello stare decisis, ma solo la forma attenuata di vincolo interpretativo introdotta dall’art. 618, comma 1-bis, cod. proc. pen., identifica la norma espressa dalla disposizione su cui questa Corte è chiamata a svolgere il sindacato di costituzionalità: «le norme vivono nell’ordinamento nel contenuto risultante dall’applicazione fattane dal giudice» (sentenza n. 95 del 1976).
Il rimettente è ben consapevole di ciò e quindi – chiosa il Collegio – muove le proprie censure considerando la norma espressa dalla disposizione censurata nel contenuto ricostruito dalla citata pronuncia delle Sezioni unite della Corte di cassazione senza necessità di verificare la possibilità di una diversa interpretazione.
L’inapplicabilità dell’art. 131-bis cod. pen. ai reati di competenza del Giudice di Pace, predicata da tale pronuncia, si fonda non già sul principio di specialità (art. 15 cod. pen.), ma sulla cosiddetta riserva di codice posta dall’art. 16 cod. pen., che prevede che nelle materie regolate da leggi speciali – e tale è il d.lgs. n. 274 del 2000 – le disposizioni del codice penale – e quindi anche l’art. 131-bis – si applicano salvo che non sia stabilito altrimenti.
Ma la legge penale speciale in questione (il d.lgs. n. 274 del 2000) contiene già, nel proprio complesso, una distinta disciplina della materia. In particolare, l’art. 34 regolamenta integralmente la fattispecie del fatto di particolare tenuità che così scherma l’applicabilità, altrimenti operante, dell’art. 131-bis cod. pen. Si tratta di regimi alternativi di fattispecie che hanno come nucleo comune la particolare tenuità del fatto e come elementi differenziali i requisiti di contorno che caratterizzano l’una e l’altra fattispecie.
Tutto ciò premesso, per la Corte la sollevata questione di legittimità costituzionale non è fondata.
Le ragioni che giustificano, sul piano del rispetto dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza, questa alternatività risiedono nelle connotazioni peculiari dei reati di competenza del Giudice di Pace e del procedimento innanzi a quest’ultimo rispetto ai reati di competenza del tribunale. La eterogeneità delle fattispecie di reato poste a confronto esclude la dedotta lesione del principio di eguaglianza (sentenza n. 207 del 2017).
La Corte rammenta di avere più volte posto in rilievo che «il procedimento penale davanti al giudice di pace configura un modello di giustizia non comparabile con quello davanti al tribunale, in ragione dei caratteri peculiari che esso presenta» (sentenza n. 426 del 2008; nello stesso senso, ordinanze n. 28 del 2007, n. 415 e n. 228 del 2005).
In particolare – nel dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 60 del d.lgs. n. 274 del 2000, nella parte in cui non consente di applicare le disposizioni del codice penale, relative alla sospensione condizionale della pena, nei casi di condanna a pena pecuniaria per reati di competenza del Giudice di Pace, neppure quando il beneficio sia stato invocato dalla difesa – la Corte ha evidenziato che il Giudice di Pace è chiamato a conoscere di reati di ridotta gravità, espressivi, per lo più, di conflitti interpersonali a carattere privato.
Si tratta di reati per i quali «è stato configurato un nuovo e autonomo assetto sanzionatorio, nel segno della complessiva mitigazione dell’afflittività, lungo le tre linee direttrici della totale rinuncia alla pena detentiva, della centralità della pena pecuniaria e del ricorso, nei casi di maggiore gravità o di recidiva, a speciali sanzioni “paradetentive”, limitative della libertà personale, ma comunque nettamente distinte dalle pene carcerarie (permanenza domiciliare e lavoro sostitutivo)» (sentenza n. 47 del 2014).
In questo contesto – che vede un rito orientato, più che alla repressione del conflitto sotteso al singolo episodio criminoso, alla relativa composizione, oltre che a finalità deflattive – l’inapplicabilità del beneficio (per l’imputato condannato) della sospensione condizionale della pena risulta funzionale a evitare che le sanzioni applicabili dal Giudice di Pace restino prive di ogni concreta attitudine dissuasiva e, con essa, anche della capacità di fungere da stimolo alla collaborazione con l’opera di mediazione del giudice e alla composizione del conflitto.
Per le stesse ragioni – prosegue la Corte – è stata ritenuta manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2 del d.lgs. n. 274 del 2000, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., nella parte in cui esclude l’applicazione della pena su richiesta delle parti (cosiddetto patteggiamento) nel procedimento penale davanti al giudice di pace (ordinanza n. 50 del 2016).
Le ragioni giustificative di questo duplice regime di esclusione di istituti di carattere sia sostanziale (la sospensione condizionale della pena) che processuale (l’applicazione della pena su richiesta), quali già affermate dal Giudice delle Leggi, a maggior ragione valgono per la Corte quando la diversità di disciplina consiste soltanto nella diversa modulazione dei requisiti della non punibilità del fatto di particolare tenuità, che nel relativo nucleo essenziale è previsto tanto dall’art. 131-bis cod. pen. per i reati di competenza del giudice togato quanto dall’art. 34 del d.lgs. n. 274 del 2000 per i reati di competenza del Giudice di Pace.
Anche la giurisprudenza di legittimità ha sottolineato «la natura eminentemente “conciliativa” della giurisdizione di pace, che dà risalto peculiare alla posizione dell’offeso dal reato, tanto da attribuirgli, nei reati procedibili a querela, un (singolare) potere di iniziativa nella vocatio in jus» (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 16 luglio-27 ottobre 2015, n. 43264). Si tratta infatti di un procedimento «improntato a finalità di snellezza, semplificazione e rapidità, che lo rendono non comparabile con il procedimento davanti al tribunale, e comunque tali da giustificare sensibili deviazioni rispetto al modello ordinario» (sentenza n. 298 del 2008; nello stesso senso, ordinanze n. 28 del 2007, n. 85 e n. 415 del 2005, n. 349 del 2004).
Si ha quindi che, sia per i reati di competenza del tribunale, sia per quelli di competenza del Giudice di Pace, rileva comunque la particolare tenuità del fatto; ma i presupposti della non punibilità, nell’un caso, e della non procedibilità dell’azione penale, nell’altro, non sono pienamente sovrapponibili, ma segnano la differenza tra i due istituti.
Lo scostamento di disciplina, maggiormente significativo, risiede nella particolare valutazione che il giudice è chiamato a fare ai sensi dell’art. 34 del d.lgs. n. 274 del 2000 per operare un bilanciamento tra il pregiudizio per l’imputato e l’interesse della persona offesa alla prosecuzione del procedimento. Ciò però – precisa ancora la Corte – è coerente con le rilevate peculiarità del processo penale innanzi al Giudice di Pace e dei reati devoluti alla pertinente cognizione.
Per tali reati, che già di per sé non sono gravi, è richiesta al giudice una valutazione più ampia, arricchita da elementi ulteriori. Il giudice deve tener conto del pregiudizio che l’ulteriore corso del procedimento può recare alle esigenze di lavoro, di studio, di famiglia o di salute della persona sottoposta ad indagini o dell’imputato; pregiudizio che può concorrere a far ritenere di particolare tenuità il fatto addebitato all’indagato, allargandone la portata ove non sussista un interesse della persona offesa alla prosecuzione del procedimento.
Nel complesso, la particolare tenuità del fatto ai sensi dell’art. 34 del d.lgs. n. 274 del 2000 ha uno spettro più ampio dell’offesa di particolare tenuità ex art. 131-bis cod. pen., tant’è che incide più radicalmente sull’esercizio dell’azione penale e non già solo sulla punibilità. E infatti la pronuncia del giudice non è iscritta nel casellario giudiziario, a differenza della sentenza che dichiara la non punibilità ex art. 131-bis cod. pen.; né, a differenza di quest’ultima, la pronuncia di improcedibilità ex art. 34 del d.lgs. n. 274 del 2000 è idonea a formare alcun giudicato sull’illiceità penale della condotta, come nella fattispecie dell’art. 651-bis cod. proc. pen.; neppure, per la stessa ragione, tale pronuncia è impugnabile dall’imputato, a differenza della sentenza di proscioglimento per la particolare tenuità del fatto ex art. 131-bis cod. pen. (Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenza 8 marzo-12 luglio 2018, n. 32010).
L’alternatività delle due disposizioni emerge per la Corte anche sotto altro aspetto.
Hanno precisato le Sezioni unite (Cass., sez. un. pen., n. 53683 del 2017) che – quando all’imputazione di un reato di competenza del Giudice di Pace si aggiunge, a carico dello stesso indagato o imputato, un reato di competenza del tribunale legato da nesso di connessione, pur nel limitato ambito applicativo di cui all’art. 6 del d.lgs. n. 274 del 2000, secondo cui ricorre la connessione soltanto nel caso di persona imputata di più reati commessi con la stessa unica azione od omissione (sentenza n. 64 del 2009) – si ha non solo che si radica la competenza nel tribunale per entrambi i reati, ma anche che vengono meno le ragioni del maggior favore per l’imputato della regola processuale della improcedibilità dell’azione penale per la particolare tenuità del fatto e si riespande la regola comune codicistica della non punibilità per la particolare tenuità dell’offesa, estesa anche al reato che, in mancanza della connessione, sarebbe stato di competenza del giudice di pace.
Invero, vi è per la Corte, interna alla disciplina della procedibilità dell’azione penale per i reati di competenza del Giudice di Pace, anche una deroga alla regola dell’improcedibilità ai sensi dell’art 34 del d. lgs. n. 274 del 2000: è quella che deriva dall’opposizione della persona offesa dopo l’esercizio dell’azione penale, prevista dal comma 3 di tale disposizione. Infatti, in tal caso, l’opposizione ha l’effetto di precludere al giudice – dopo che l’azione penale sia già stata esercitata non essendo stata ritenuta, nella fase delle indagini preliminari, la particolare tenuità del fatto – la possibilità di rilevare successivamente, in giudizio, tale presupposto; si è parlato di “facoltà inibitoria” o di “potere di veto” della persona offesa al recupero in giudizio della possibilità per il giudice di valutare la particolare tenuità del fatto per dichiarare improcedibile l’azione penale già esercitata.
In proposito, la Corte (ordinanza n. 63 del 2007) ha già rilevato che l’art. 34, comma 3, del d.lgs. n. 274 del 2000 prevede, nella fase successiva all’esercizio dell’azione penale, non già una condizione positiva (il «consenso»), ma una condizione negativa (la non opposizione: «se l’imputato e la persona offesa non si oppongono»).
Successivamente le Sezioni unite (Cass., sez. un. pen., n. 43264 del 2015), componendo un contrasto di giurisprudenza, hanno precisato, in termini restrittivi, la portata dell’opposizione della persona offesa che paralizza l’operatività dello speciale regime dell’art. 34 del d.lgs. n. 274 del 2000, affermando che la «volontà di opposizione deve essere necessariamente espressa, non potendosi desumere da atti o comportamenti che non abbiano il carattere di una formale ed inequivoca manifestazione di volontà».
Inoltre, prosegue la Corte, le SSUU hanno puntualizzato che l’opposizione è atto personale della persona offesa e va dichiarata in udienza, sicché la mancata partecipazione al dibattimento della persona offesa (regolarmente citata o irreperibile) non è ostativa della facoltà del giudice di valutare la sussistenza dei presupposti previsti dall’art. 34, comma 1. È, però, sufficiente la richiesta di risarcimento del danno della persona offesa costituitasi parte civile, così come nella specie si è verificato nel giudizio a quo, secondo la narrazione del giudice rimettente.
In tale evenienza, in cui risulti ritualmente proposta l’opposizione della persona offesa dopo l’esercizio dell’azione penale, si ha che, da una parte, continua comunque a non applicarsi la causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen., perché in generale tale disposizione non riguarda i reati di competenza del giudice di pace e si è sopra argomentato in ordine alla giustificatezza di tale regime alternativo.
Ma d’altra parte, in concreto, neppure la causa di non procedibilità di cui all’art. 34 del d.lgs. n. 274 del 2000 trova applicazione, né potrebbe ritenersi – allo stato attuale della giurisprudenza – che si riespanda il regime comune dell’art. 131-bis cod. pen., giacché la più volte richiamata pronuncia delle sezioni unite (Cass., sez. un. pen., n. 53683 del 2017) predica ciò solo con riferimento all’ipotesi della connessione con altro reato di competenza del tribunale.
Questa facoltà di opposizione, però, costituisce una deroga che appartiene alla regolamentazione dell’improcedibilità dell’azione penale in caso di reati di competenza del Giudice di Pace per fatti di particolare tenuità, deroga collegata alla speciale tutela riconosciuta alla persona offesa, di cui è espressione, in parallelo, la (parimenti derogatoria) facoltà di quest’ultima di proporre ricorso immediato al giudice per i reati perseguibili a querela (art. 21 del d.lgs. n. 274 del 2000).
In conclusione, per la Corte non viola i principi di eguaglianza e di ragionevolezza la non applicabilità, ritenuta dalla giurisprudenza, della causa di non punibilità per la particolare tenuità dell’offesa di cui all’art. 131-bis cod. pen. in caso di reati di competenza del Giudice di Pace, per i quali opera invece la causa di improcedibilità dell’azione penale per la particolare tenuità del fatto di cui all’art. 34 del d.lgs. n. 274 del 2000.
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Il 14 giugno viene varato il decreto-legge 14 giugno 2019, n. 53, recante «Disposizioni urgenti in materia di ordine e sicurezza pubblica», il cui art. 16, comma 1, lettera b, del interviene sul testo dell’art. 131-bis cod. pen. per aggiungere, nel secondo comma, un’ipotesi tipica di esclusione della particolare tenuità.
Ciò ove si proceda per delitti puniti con una pena superiore nel massimo a due anni e sei mesi di reclusione commessi in occasione o a causa di manifestazioni sportive ovvero per violenza, minaccia, resistenza od oltraggio commessi nei confronti di un pubblico ufficiale nell’esercizio delle relative funzioni.
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L’8 agosto viene varata la legge n.77 che converte, con modificazioni, il decreto legge n.53, escludendo dall’applicazione dell’esimente di tenuità ex art.131 bis c.p. l’ipotesi di resistenza a pubblico ufficiale.
Più in specie, secondo il nuovo comma 2, va esclusa l’applicabilità dell’art.131 bis c.p. laddove si proceda non già solo ove si proceda per delitti puniti con una pena superiore nel massimo a due anni e sei mesi di reclusione commessi in occasione o a causa di manifestazioni sportive, ma anche laddove si proceda per violenza, minaccia, resistenza od oltraggio commessi nei confronti di un pubblico ufficiale nell’esercizio delle relative funzioni.
L’integrazione avviene con l’addizione: «ovvero nei casi di cui agli articoli 336, 337 e 341-bis, quando il reato è commesso nei confronti di un pubblico ufficiale nell’esercizio delle proprie funzioni».
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Il 24 settembre esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.38954 alla cui stregua il provvedimento di archiviazione per particolare tenuità del fatto ex art. 131 bis c.p. deve essere iscritto nel casellario giudiziale, ferma restando la non menzione nei certificati rilasciati a richiesta dell’interessato, del datore di lavoro e della pubblica amministrazione.
La questione di diritto per la quale il ricorso è stato rimesso alle Sezioni unite, principia il Collegio, è appunto la seguente: “Se il provvedimento di archiviazione per particolare tenuità del fatto ex art. 131-bis cod. pen. debba essere iscritto nel casellario giudiziale, ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. f), d.P.R. 14 novembre 2002, n. 313, come modificato dall’art. 4 d. Igs. 16 marzo 2015, n. 28“.
Prima di esaminare gli orientamenti della giurisprudenza di legittimità sulla questione oggetto di remissione, è opportuno per il Collegio ricostruire, brevemente, il quadro normativo di riferimento e la relativa evoluzione, per quanto di interesse ai fini della soluzione della questione proposta.
La vigente regolamentazione del casellario giudiziale è stata introdotta dal d.P.R. 14 novembre 2002, n. 313 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di casellario giudiziale, di casellario giudiziale europeo, di anagrafe delle sanzioni amministrative dipendenti da reato e dei relativi carichi pendenti, d’ora innanzi “Testo Unico“), il quale ha sostituito, rendendola organica, la disciplina precedentemente contenuta nel codice di rito e nel R.D. 18 giugno 1931, n. 778.
Nel nuovo sistema sono peraltro confluite banche dati diverse, tra cui appunto quella del casellario giudiziale, oggi definito dall’art. 2, lettera a) del Testo Unico (come modificato dal d.lgs. 12 maggio 2016, n. 74) come il «registro nazionale che contiene l’insieme dei dati relativi a provvedimenti giudiziari e amministrativi riferiti a soggetti determinati».
Il catalogo dei provvedimenti di cui è disposta l’iscrizione nel casellario giudiziale è contenuto nell’art. 3, comma 1 del citato decreto. Catalogo che è stato ripetutamente modificato da successivi interventi normativi, i quali ne hanno ora ampliato (ad esempio inserendo i provvedimenti concernenti la messa alla prova dell’imputato) ed ora ridotto (escludendo quelli in materia di fallimento) l’estensione.
Alla lettera f) dell’elenco contenuto nel richiamato comma, in origine dedicata esclusivamente ai provvedimenti definitivi di proscioglimento o di non luogo a procedere per difetto di imputabilità ed a quelli applicativi di una misura di sicurezza, il d. Igs. 16 marzo 2015, n. 28 ha introdotto – precisa la Corte – il riferimento ai provvedimenti con i quali viene dichiarata la non punibilità per particolare tenuità del fatto ai sensi dell’art. 131-bis cod. pen., istituto configurato dal medesimo decreto.
Sotto il profilo della tecnica normativa, il legislatore si è limitato a tal fine ad aggiungere alla disposizione in questione un periodo contenente tale riferimento, collegato a quello preesistente mediante una virgola e la congiunzione “nonché“. Il citato d.lgs. n. 28 del 2015 ha peraltro modificato anche altre disposizioni del Testo Unico. In particolare, all’art. 5, comma 2, dopo la lettera d), è stata inserita la lettera d -bis), al fine di estendere la disciplina dell’eliminazione delle iscrizioni dal casellario giudiziale ai provvedimenti giudiziari che hanno dichiarato la non punibilità per particolare tenuità del fatto trascorsi dieci anni dalla loro pronunzia.
Nell’art. 24, comma 1, e nell’art. 25, comma, 1, è stata aggiunta invece la lettera f-bis), prevedendo in entrambi i casi la non menzione dei suddetti provvedimenti giudiziari, rispettivamente, nel certificato generale ed in quello penale rilasciati a richiesta dell’interessato. Le due disposizioni menzionate da ultime definiscono peraltro anche il contenuto dei certificati rilasciati, ai sensi dell’art. 25-bis e 28 del Testo Unico, a richiesta, rispettivamente, dei datori di lavoro e delle pubbliche amministrazioni, per come previsto dagli articoli da ultimo richiamati.
Infine, per desiderio di completezza, è opportuno per le SSUU ricordare che l’art. 1, comma 18, legge 23 giugno 2017, n. 103, ha conferito delega al Governo per l’ulteriore revisione dello statuto del casellario giudiziale, prevedendo in particolare, tra i criteri ed i principi direttivi, l’eliminazione dell’iscrizione dei provvedimenti applicativi della causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto e l’attribuzione al pubblico ministero del compito di verificare, prima che venga emesso il provvedimento, che il fatto addebitato sia occasionale.
La delega è stata attuata dal d. Lgs. 2 ottobre 2018, n. 122 (Disposizioni per la revisione della disciplina del casellario giudiziale, in attuazione della delega di cui all’articolo 1, commi 18 e 19, della legge 23 giugno 2017, n. 103), ma non sul punto specifico (ed in proposito la Relazione illustrativa si limita ad evidenziare la volontà del legislatore delegato di non dare seguito alla direttiva, senza però precisare le ragioni di tale scelta).
Il menzionato decreto ha invece eliminato la tradizionale dicotomia tra certificato generale e certificato penale del casellario, abrogando, tra l’altro e con effetto dal 26 ottobre 2019, l’art. 25 del d.P.R. n. 313 del 2002. La novella non ha però inciso sul contenuto del certificato unico che verrà rilasciato a partire dalla data menzionata all’interessato ed al datore di lavoro, che rimane quello stabilito dall’art. 24 comma 1 del Testo Unico per il certificato generale, con esclusione dunque, come si è detto, della menzione dei provvedimenti adottati in riferimento all’art. 131-bis cod. pen.
Per quanto riguarda il certificato destinato alle pubbliche amministrazioni, il d. Igs. n. 122 del 2018 ha riformulato l’art. 28 del Testo Unico, il quale ora contiene una autonoma disciplina secondo cui alle stesse viene rilasciato, a secondo delle necessità, un certificato generale ovvero un certificato “selettivo“, ma, al comma 7 del citato articolo, viene espressamente previsto che entrambi non debbano fare menzione dei provvedimenti giudiziari che dichiarino la non punibilità per particolare tenuità del fatto, esattamente come nel caso dei certificati rilasciati all’interessato ed ai privati.
In ordine al significato della illustrata modifica apportata all’art. 3, comma 1, lettera f) del Testo Unico – riprende la Corte – è insorto solo di recente un contrasto nella giurisprudenza di legittimità.
Ed infatti, fino alla pronunzia della sentenza Serra del 2017 menzionata nell’ordinanza di remissione, le Sezioni semplici hanno costantemente negato che i provvedimenti di archiviazione adottati in riferimento all’art. 131-bis cod. pen. potessero essere iscritti nel casellario giudiziale.
La questione è stata affrontata in relazione all’eventuale interesse dell’indagato a ricorrere avverso il provvedimento di archiviazione adottato ai sensi dell’art. 411, comma 1 -bis, cod. proc. pen. per ragioni diverse dalla violazione del diritto al contraddittorio in forza della relativa vocazione ad essere, per l’appunto, iscritto nel casellario giudiziale. Interesse che è stato ritenuto insussistente in ragione dell’esclusione di qualsivoglia pregiudizio per l’indagato in conseguenza dell’adozione del suddetto provvedimento ed in particolare della possibilità che lo stesso sia oggetto di iscrizione.
Nell’affermare il principio, Sez. 3, n. 30685 del 26/01/2017, Vanzo, Rv. 270247 ha evidenziato come l’applicazione dell’art. 131-bis, cod. pen. presupponga l’accertamento della responsabilità dell’indagato per il fatto reato contestato e come pertanto dovrebbe dubitarsi della compatibilità costituzionale e convenzionale della disposizione relativa all’archiviazione per particolare tenuità del fatto qualora tale provvedimento effettivamente determinasse un effetto pregiudizievole quale quello dell’iscrizione nel casellario, posto che all’interessato non viene attribuita la possibilità di rinunziare alla causa di non punibilità ovvero di impugnare il merito della decisione dinanzi ad una giurisdizione superiore.
Nel respingere i dubbi sulla legittimità costituzionale della relativa disciplina sollevati dal ricorrente, Sez. 5, n. 3817 del 15/01/2018, Pisani, Rv. 272282 giustifica l’esclusione del provvedimento di archiviazione per particolare tenuità del fatto dal novero di quelli iscrivibili anche e soprattutto in ragione della natura non definitiva del medesimo, argomentando in tal senso dalla possibilità per il pubblico ministero di ottenere la riapertura delle indagini ex art. 414 cod. proc. pen.
Secondo la pronunzia in esame, tale natura assume valore dirimente, giacché il tenore testuale dell’art. 3, comma 1, lettera f). d. Igs. n. 313 del 2002 indicherebbe come, in tema di difetto di imputabilità, di misure di sicurezza e, per l’appunto, di non punibilità per particolare tenuità del fatto, i provvedimenti di cui è prevista l’iscrizione sarebbero solo quelli definitivi.
Anche Sez. 1, n. 31600 del 25/06/2018, Matarrese, Rv. 273523, ha dichiarato inammissibile per carenza di interesse l’impugnazione avverso il provvedimento di archiviazione argomentando dalla non definitività dello stesso. La sentenza Matarrese si segnala peraltro per aver invece accolto il ricorso nella parte in cui con il medesimo era stata dedotta anche l’illegittimità dell’ordine di iscrizione nel casellario contestualmente adottato nel caso di specie dal G.i.p.
In proposito viene rilevato come quest’ultimo sia provvedimento autonomo rispetto a quello di archiviazione, la cui adozione è però di competenza esclusiva dell’ufficio del casellario e non spetta pertanto al giudice della cognizione. Sempre nel senso di escludere che il provvedimento di archiviazione per tenuità del fatto sia soggetto ad iscrizione, in quanto non definitivo e perché tale iscrizione si risolverebbe in una violazione di diritti costituzionalmente e convenzionalmente tutelati dell’indagato si sono espresse anche Sez. 3, n. 45601 del 27 giugno 2017, Benetti; Sez. 3, n. 46379 del 26 giugno 2017, Gobbo; Sez. 3, n. 47832 del 3 novembre 2016, dep. 2017, Rinaldi; Sez. 1, n. 53618 del 27 settembre 2017, Di Lauro.
All’oramai consolidato orientamento testé illustrato – rammenta a questo punto la Corte – si è recentemente contrapposta Sez. V, n. 40293 del 15 giugno 2017, Serra, Rv. 271010.
In realtà tale pronunzia ha affrontato la questione oggetto di remissione in via incidentale, all’esclusivo fine di ribadire il principio, poi massimato, per cui il provvedimento di archiviazione per particolare tenuità del fatto, pronunciato ai sensi dell’art. 411, comma 1, cod. proc. pen., è nullo se emesso senza l’osservanza della speciale procedura prevista al comma 1-bis di detta norma, non essendo le disposizioni generali contenute negli artt. 408 e ss. del codice di rito idonee a garantire il necessario contraddittorio sulla configurabilità della causa di non punibilità prevista dall’art. 131-bis cod. pen.
In motivazione la sentenza Serra osserva però come l’instaurazione del contraddittorio con l’indagato nelle forme previste dalla disposizione sopra richiamata sia condizione ineludibile per la validità del provvedimento di archiviazione in quanto quest’ultimo non è completamente liberatorio, essendo destinato ad essere iscritto nel casellario giudiziale in virtù di quanto disposto dall’art. 4 d. Igs. n. 28 del 2015.
Nonostante la natura meramente assertiva di tale affermazione, appare evidente che la stessa presupponga una interpretazione del significato della modifica apportata all’art. 3, comma 1, lettera f) del d.P.R. n. 313 del 2002 dall’intervento normativo citato dalla sentenza diametralmente opposta a quella adottata dalle pronunzie che si inseriscono nell’orientamento maggioritario, dando così vita al segnalato contrasto, ancorché l’articolazione delle argomentazioni poste a sostegno della posizione minoritaria sia in definitiva imputabile all’ordinanza di remissione, il cui contenuto è stato dalla Corte illustrato in precedenza.
Va peraltro ricordato – prosegue la Corte – come, antecedentemente alla pronunzia della sentenza Serra, sulla questione oggetto del rilevato contrasto si siano già pronunziate le stesse Sezioni Unite, sebbene in via incidentale.
Nello stabilire l’ambito applicativo dell’art. 131-bis cod. pen., Sez. U, n. 13681 del 25 febbraio 2016, Tushaj, Rv. 266591 hanno infatti ricordato come lo stesso sia definito non solo dalla gravità del reato desunta dalla pena edittale, ma anche dal profilo soggettivo afferente alla non abitualità del comportamento, per come definito dal terzo comma dell’art. 131-bis cod. pen.
In proposito la sentenza Tushaj ha precisato che il testo della legge lascia subito intendere che il requisito dell’abitualità è frutto del sottosistema generato dalla riforma e che al relativo interno deve essere letto. Muovendosi all’interno di tale logica, evidenzia che «sarebbe dunque fuorviante riferirsi esclusivamente alle categorie tradizionali, come quelle della condanna e della recidiva» per stabilire quando il comportamento deve ritenersi abituale.
Ed in tal senso viene, pertanto, definito l’ambito operativo della norma in questione, affermandosi che «la norma intende escludere dall’ambito della particolare tenuità del fatto comportamenti “seriali”», come rivela il riferimento operato dalla disposizione succitata agli istituti codicistici del delinquente abituale, professionale e per tendenza.
In tale ottica per le Sezioni Unite deve quindi ritenersi fondamentale il riferimento che sempre il terzo comma dell’art. 131-bis opera alla commissione di “più reati della stessa indole“. Sicché l’abitualità ostativa può concretarsi «non solo in presenza di condanne irrevocabili, ma anche nel caso in cui gli illeciti si trovino al cospetto del giudice che, dunque, è in grado di valutarne l’esistenza».
A questo punto la sentenza Tushaj si è posta il problema della rilevanza, ai fini della valutazione della non abitualità del comportamento, degli eventuali altri reati commessi dal medesimo autore e ritenuti non punibili ai sensi dell’art. 131- bis cod. pen., sul presupposto che il relativo provvedimento deve essere «iscritto nel casellario».
Iscrizione che per le Sezioni Unite è ineludibile in ragione della considerazione per cui «la procedura di memorizzazione delle pronunzie adottate per tenuità dell’offesa costituisce strumento essenziale per la stessa razionalità ed utilità dell’istituto», mentre «l’assenza di annotazione determinerebbe, incongruamente, la possibilità di concessione della non punibilità molte volte nei confronti della stessa persona».
Né tale annotazione costituirebbe «un vulnus a diritti fondamentali, quando l’accertamento dell’esistenza del reato implicato in tale genere di pronunzia non sia avvenuto all’esito del giudizio». Per la sentenza Tushaj «tali perplessità non tengono conto del fatto che l’annotazione è l’antidoto indispensabile contro l’abuso dell’istituto», mentre «se questo è il trasparente scopo della previsione, non si scorge per quale ragione chi abbia fruito del beneficio all’esito di una procedura che lo ha personalmente coinvolto, possa dolersi della discussa annotazione».
La paventata lesione dei diritti dell’interessato è peraltro esclusa dal fatto che «la trascrizione della decisione serve e rileva solo all’interno del sottosistema di cui ci si occupa». Conseguendone pertanto che «il rilievo dell’accertamento in ordine all’esistenza dell’illecito implicato dalla dichiarazione di non punibilità è allora esattamente e solo quello di costituire un “reato” che, sommato agli altri della stessa indole richiesti dalla legge nei termini di cui si è detto, dà luogo alla legale abitualità del comportamento» e che «nella valutazione complessiva afferente al giudizio di abitualità ben potranno essere congiuntamente considerati reati oggetto di giudizio ed illeciti accertati per così dire incidentalmente ex art. 131-bis».
In definitiva, secondo la pronunzia delle Sezioni Unite in esame, il requisito del comportamento abituale esige un contesto che consenta la conoscibilità del nesso di serialità e conseguentemente la concretezza e l’immediata operatività dell’effetto ostativo. Effetti questi ultimi, possibili soltanto con la memorizzazione dei provvedimenti di applicazione dell’art. 131-bis cod. pen., ancorché non definitivi.
In sintonia e continuità con la linea interpretativa tracciata dalla sentenza Tushaj, il Collegio ritiene a questo punto che l’orientamento per cui i provvedimenti di archiviazione per particolare tenuità del fatto non debbano essere iscritti nel casellario giudiziario non possa essere condiviso e che il principio, pur apoditticamente affermato, dalla sentenza Serra sia invece corretto.
Il percorso logico-sistematico sviluppato nella citata pronunzia delle Sezioni Unite – peraltro sostanzialmente ignorato da quelle che si riconoscono, invece, nell’orientamento che si intende disattendere – non solo appare condivisibile, in quanto coerente alla ratio dell’istituto di cui all’art. 131-bis cod. pen., ma risulta altresì confortato da una serie di indici normativi e sistematici ulteriori rispetto a quelli evidenziati dalla stessa sentenza Tushaj.
In tal senso – chiosa la Corte – va innanzi tutto osservato che il tenore testuale della lettera f) dell’art. 3, comma 1, del Testo Unico, per come modificata dal d. Igs. n. 28 del 2015, non è univocamente interpretabile nel senso per cui esclusivamente i provvedimenti definitivi che hanno dichiarato la non punibilità ai sensi dell’art. 131-bis cod. pen. sono destinati all’iscrizione nel casellario.
Infatti la locuzione «nonché quelli», che introduce l’ampliamento dell’originario catalogo definito dalla citata disposizione, è certamente riferita ai «provvedimenti giudiziari» menzionati nella prima parte della stessa, ma non anche necessariamente alla loro qualificazione come «definitivi». E ciò a maggior ragione se si pensa che nel Testo Unico vengono utilizzate le distinte espressioni «provvedimenti giudiziari» e «provvedimenti giudiziari definitivi» secondo il significato tipico loro attribuito dall’art. 2 lettere f) e g) dello stesso; circostanza idonea a legittimare l’opinione per cui, qualora il legislatore avesse voluto effettivamente evocare solo i provvedimenti definitivi in tema di tenuità del fatto, avrebbe più coerentemente fatto ricorso alla locuzione «nonché quelli definitivi» e non già a quella effettivamente dispiegata.
In definitiva, il dato testuale presenta tratti di indubbia ambiguità che non consentono di estrarre con la necessaria certezza il significato della disposizione affidandosi esclusivamente all’interpretazione letterale, che necessita pertanto – per le SSUU – di essere integrata ricorrendo ad altri strumenti ermeneutici.
Un primo elemento idoneo a definire l’effettiva estensione dell’obbligo di registrazione dei provvedimenti riguardanti la non punibilità per tenuità del fatto è ricavabile dalla ricostruzione della volontà storica del legislatore, questa sì univocamente rivelatasi nella Relazione ministeriale allo schema del d. Igs. del 2015, dove espressamente si afferma «la necessità di iscrivere nel casellario giudiziale il provvedimento di applicazione del nuovo istituto, ancorché adottato mediante decreto d’archiviazione» ed ancor più specificamente si precisa, ad illustrazione delle modifiche apportate al Testo Unico, che «il requisito della “non abitualità” del comportamento (….) impone un sistema di registrazione delle decisioni che accertano la particolare tenuità del fatto che comprenda ovviamente anche i provvedimenti di archiviazione adottati per tali causa».
La Relazione, in definitiva, evidenzia – negli stessi termini poi ribaditi dalla sentenza Tushaj – l’intimo ed irrinunciabile collegamento esistente tra la memorizzazione di tutti i provvedimenti che hanno applicato il nuovo istituto e l’effettiva operatività della condizione di non abitualità del comportamento.
E proprio in tal senso, tra l’altro, il documento in questione giustifica la scelta di configurare, al comma 1 -bis dell’art. 411 cod. proc. pen., una speciale procedura che prevede la garanzia per l’indagato di accedere al contraddittorio qualora l’archiviazione venga richiesta in riferimento allo stesso art. 131-bis. Condizione che presuppone, ai sensi del comma 3 dell’art. 131-bis cod. pen., anche la considerazione dei pregressi reati della stessa indole commessi dall’autore.
Come già ricordato dalla sentenza Tushaj, riprende il Collegio, è peraltro significativo che la disposizione richiamata, nel definire la serialità ostativa, faccia riferimento ai “reati” commessi e non alle “condanne” subite ed imponga la valutazione anche dei fatti ritenuti di particolare tenuità. Ne deriva l’evidente esigenza di consentire al giudice del nuovo reato, perché possa rispettare il dettato normativo, di conoscere anche i provvedimenti, comunque adottati, che hanno riconosciuto la causa di non punibilità.
Un secondo e decisivo elemento in favore dell’iscrizione dei provvedimenti di archiviazione è poi ritraibile per la Corte dalle altre modifiche apportate dal d. Igs. n. 28 del 2015 al Testo Unico.
La novella è intervenuta anche sulle disposizioni (artt. 24 e 25) che stabiliscono il contenuto dei certificati del casellario, vietando che gli stessi menzionino i «provvedimenti giudiziari che hanno dichiarato la non punibilità ai sensi dell’articolo 131-bis del codice penale» ed ha esteso agli stessi provvedimenti l’obbligo di eliminazione delle iscrizioni (previsto dall’art. 5 del Testo Unico) trascorsi dieci anni dalla loro pronunzia.
Si è già ricordato, però, come, nel Testo Unico, le espressioni «provvedimenti giudiziari» e «provvedimenti giudiziari definitivi» abbiano un significato autonomo e tipico, in quanto tassativamente definito dall’art. 2, disposizione per la quale i primi sono «la sentenza, il decreto penale e ogni altro provvedimento emesso dall’autorità giudiziaria», mentre i secondi sono i provvedimenti divenuti irrevocabili o, comunque, non più soggetti ad impugnazione «con gli strumenti diversi dalla revocazione».
E’ dunque evidente che le descritte modifiche apportate nel 2015 – nell’evocare i “provvedimenti giudiziari” e non solo quelli “definitivi” – presuppongono l’avvenuta iscrizione nel casellario di tutti i provvedimenti concernenti la particolare tenuità del fatto, compresi quelli di archiviazione, dissolvendo così l’ambiguità del periodo aggiunto dalla stessa novella all’art. 3, comma 1, lettera f) del Testo Unico.
Stabilito dunque che la disposizione da ultima richiamata impone l’iscrizione nel casellario non solo dei provvedimenti definitivi che hanno dichiarato la non punibilità ai sensi dell’art. 131-bis cod. pen., è necessario per le SSUU affrontare le riserve sulla compatibilità costituzionale e convenzionale di tali conclusioni avanzate dalle pronunzie che hanno dato vita all’orientamento qui disatteso e che hanno portato le pronunzie che vi si riconoscono a concludere per una lettura più restrittiva della lettera f) dell’art. 3, comma 1, del Testo Unico.
In proposito è agevole evidenziare come alcuna lesione dell’art. 24 Cost. è prospettabile, nella misura in cui la speciale disciplina prevista dal comma 1-bis dell’art. 411 cod. proc. pen. consente all’indagato di dispiegare le proprie difese dinanzi al giudice investito della richiesta di archiviazione per tenuità del fatto.
Nemmeno appaiono alla Corte condivisibili i dubbi – sviluppati soprattutto nella sentenza Vanzo – in merito alla presunta incompatibilità dell’iscrizione con l’art. 2 del Protocollo n. 7 alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Innanzitutto tali dubbi non appaiono formulati nella misura in cui imputano all’iscrizione del provvedimento di archiviazione la lesione del suindicato diritto, quando, semmai, questa deriverebbe dall’obbligo di considerare, ai fini della valutazione della non abitualità del comportamento, anche i reati dichiarati non punibili anticipatamente.
E’ infatti agevole sostenere che, anche qualora non si procedesse alla registrazione nel casellario di tali decisioni, il giudice dovrebbe tenerne conto ai sensi del terzo comma dell’art. 131-bis cod. pen. se comunque documentate agli atti, a meno di non voler escludere che tale disposizione riguardi i reati della stessa indole per i quali la tenuità del fatto è stata dichiarata al di fuori del giudizio. Conclusione che finirebbe per compromettere in radice le finalità deflattive e di rapida espulsione dell’autore di fatti bagatellari dal circuito giudiziario – con il conseguente risparmio dei costi di varia natura che l’accesso alla fase processuale gli comporta – che l’anticipazione della pronunzia liberatoria intende perseguire, posto che il pubblico ministero, per evitare i già segnalati possibili abusi dell’istituto, difficilmente rinuncerebbe in tal caso ad esercitare comunque l’azione penale allo scopo di vedere adottato un provvedimento sicuramente assoggettabile ad iscrizione.
Non di meno, va ricordato che la citata disposizione sovranazionale configura il diritto di riesame presso una giurisdizione superiore esclusivamente in riferimento alle dichiarazioni di colpevolezza od alle condanne. Deve però escludersi che la valutazione pregiudiziale sulla sussistenza del fatto e sulla relativa attribuibilità all’indagato compiuta in sede di archiviazione costituisca un accertamento assimilabile ad una dichiarazione di colpevolezza nel senso inteso da tale disposizione, avvenendo in una fase anteriore al giudizio.
Conclusione peraltro confortata dal fatto che il provvedimento di archiviazione non produce gli effetti invece riservati dall’art. 651-bis cod. proc. pen. alle dichiarazioni giudiziali dell’esimente. Né l’iscrizione in sé considerata può essere ritenuta un effettivo pregiudizio che l’indagato ha un reale interesse ad evitare.
La più volte ricordata esclusione dei provvedimenti che dichiarano la non punibilità ex art. 131-bis cod. pen. dalle certificazioni del casellario, rende infatti evidente come l’iscrizione assolva esclusivamente a quella funzione di memorizzazione della loro adozione destinata, come già evidenziato dalla sentenza Tushaj, ad esplicare i propri effetti soltanto nell’ambito del sottosistema definito dalla disposizione da ultima richiamata ed all’interno del circuito giudiziario.
In conclusione, a risoluzione del contrasto prospettato dai giudici remittenti, deve essere affermato per la Corte il seguente principio di diritto: «Il provvedimento di archiviazione per particolare tenuità del fatto ex art. 131-bis cod. pen. deve essere iscritto nel casellario giudiziale, fermo restando che non ne deve essere fatta menzione nei certificati rilasciati a richiesta dell’interessato, del datore di lavoro e della pubblica amministrazione».
2020
Il 13 maggio esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.14791, onde – secondo l’orientamento maggioritario sul punto – la causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto non è applicabile nel processo minorile, posto che la normativa in materia ha carattere di «legge penale speciale» e, regolando in modo autonomo la stessa materia con l’istituto dell’irrilevanza del fatto, preclude a priori qualunque possibile confronto fra singole disposizioni.
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Il 21 luglio esce la sentenza della Corte costituzionale n.156 che dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 131-bis del codice penale, inserito dall’art. 1, comma 2, del decreto legislativo 16 marzo 2015, n. 28, recante «Disposizioni in materia di non punibilità per particolare tenuità del fatto, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera m), della legge 28 aprile 2014, n. 67», nella parte in cui non consente l’applicazione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto ai reati per i quali non è previsto un minimo edittale di pena detentiva.
Nel definire la particolare tenuità del fatto come causa di non punibilità, principia la Corte, l’art. 131-bis cod. pen. stabilisce al primo comma che «[n]ei reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena, la punibilità è esclusa quando, per le modalità della condotta e per l’esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell’articolo 133, primo comma, l’offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale».
Ai sensi del quarto comma del medesimo art. 131-bis, la determinazione della pena detentiva prevista nel primo comma, di regola insensibile alle circostanze del reato, risente tuttavia di quelle a effetto speciale, a tal fine neppure suscettibili di bilanciamento; inoltre, per il quinto comma, «[l]a disposizione del primo comma si applica anche quando la legge prevede la particolare tenuità del danno o del pericolo come circostanza attenuante».
Come la Corte rammenta di avere già avuto modo di chiarire, tale ultima disposizione indica che l’esistenza di un’attenuante, di cui la particolare tenuità del danno o del pericolo sia elemento costitutivo, di per sé non impedisce l’applicazione della causa di non punibilità, ma neppure la comporta automaticamente (sentenza n. 207 del 2017).
Ciò in quanto la causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen. richiede una valutazione complessiva di tutte le peculiarità della fattispecie concreta, a norma dell’art. 133, primo comma, cod. pen., incluse quindi le modalità della condotta e il grado della colpevolezza, e non solo dell’entità dell’aggressione del bene giuridico protetto (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 6 aprile 2016, n. 13681).
Nel definire la ricettazione come delitto contro il patrimonio mediante frode, riprende a questo punto il Collegio, l’art. 648 cod. pen. stabilisce al primo comma che, «[f]uori dei casi di concorso nel reato, chi, al fine di procurare a sé o ad altri un profitto, acquista, riceve od occulta denaro o cose provenienti da un qualsiasi delitto, o comunque si intromette nel farle acquistare, ricevere od occultare, è punito con la reclusione da due a otto anni e con la multa da euro 516 a euro 10.329».
Ai sensi del secondo comma del medesimo art. 648, «[l]a pena è della reclusione sino a sei anni e della multa sino a euro 516, se il fatto è di particolare tenuità».
La «particolare tenuità del fatto» di cui all’art. 648, secondo comma, cod. pen. integra una circostanza attenuante rientrante nel novero di quelle cosiddette indefinite o discrezionali (ancora sentenza n. 207 del 2017).
È acquisito invero che non si tratti dell’elemento costitutivo di un reato autonomo rispetto alla ricettazione-base di cui all’art. 648, primo comma, cod. pen., bensì di una circostanza attenuante speciale (tra le tante, Corte di cassazione, sezione seconda penale, sentenze 24 marzo 2017, n. 14767, 25 gennaio 2013, n. 4032, 26 maggio 2011, n. 21010, e 14 ottobre 2008, n. 38803).
In linea astratta dunque, chiosa la Corte, per effetto del quinto comma dell’art. 131-bis cod. pen., la particolare tenuità del fatto quale attenuante della ricettazione, come definita dall’art. 648, secondo comma, cod. pen., potrebbe concorrere a integrare l’esimente di cui al medesimo art. 131-bis, qualora, per le modalità della condotta e per l’esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell’art. 133, primo comma, cod. pen., l’offesa sia di particolare tenuità e il comportamento risulti non abituale.
Viceversa, per effetto del quarto comma dell’art. 131-bis cod. pen., che attribuisce rilevanza alle circostanze speciali quoad poenam, detta causa di non punibilità non può trovare applicazione in rapporto alla ricettazione attenuata di cui al secondo comma dell’art. 648 cod. pen., poiché questo fissa un massimo edittale di pena detentiva pari a 6 anni di reclusione, quindi superiore al limite di 5 anni posto dalla norma esimente (Corte di cassazione, sezione seconda penale, sentenze 12 aprile 2019, n. 16083, e 12 maggio 2017, n. 23419).
Aggiunto dall’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 28 del 2015, l’art. 131-bis cod. pen. segna – rammenta la Corte – il punto di arrivo di una linea di sviluppo avviata dall’art. 27 del d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448 (Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni), e proseguita dall’art. 34 del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468), i quali rispettivamente contemplano l’«irrilevanza del fatto» quale causa di improcedibilità nei confronti dell’imputato minorenne e la «particolare tenuità del fatto» quale causa di improcedibilità per i reati di competenza del giudice di pace.
Nell’illustrare gli elementi differenziali fra tali istituti, pur nella loro comune ispirazione di fondo, la Corte rammenta di aver rilevato che l’art. 131-bis cod. pen. «prevede una generale causa di esclusione della punibilità che si raccorda con l’altrettanto generale presupposto dell’offensività della condotta, requisito indispensabile per la sanzionabilità penale di qualsiasi condotta in violazione di legge» (sentenza n. 120 del 2019).
Per delineare questa esimente generale, il legislatore del 2015 ha «considerato i reati al di sotto di una soglia massima di gravità – quelli per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, nonché quelli puniti con la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena detentiva – e ha tracciato una linea di demarcazione trasversale per escludere la punibilità – ma non l’illiceità penale – delle condotte che risultino, in concreto, avere un tasso di offensività marcatamente ridotto, quando appunto l’“offesa è di particolare tenuità”» (ancora sentenza n. 120 del 2019).
Si è invero precisato che «il fatto particolarmente lieve, cui fa riferimento l’art. 131-bis cod. pen., è comunque un fatto offensivo, che costituisce reato e che il legislatore preferisce non punire, sia per riaffermare la natura di extrema ratio della pena e agevolare la “rieducazione del condannato”, sia per contenere il gravoso carico di contenzioso penale gravante sulla giurisdizione» (ordinanza n. 279 del 2017).
Per costante orientamento della giurisprudenza costituzionale, le cause di non punibilità costituiscono – rammenta il Giudice delle Leggi – altrettante deroghe a norme penali generali, sicché la loro estensione comporta strutturalmente un giudizio di ponderazione a soluzione aperta tra ragioni diverse e confliggenti, in primo luogo quelle che sorreggono la norma generale e quelle che viceversa sorreggono la norma derogatoria, giudizio che appartiene primariamente al legislatore (ex multis, sentenze n. 140 del 2009 e n. 8 del 1996).
Muovendo da tale premessa, la Corte, nella sentenza n. 207 del 2017, ha rilevato che la scelta del legislatore in ordine all’estensione della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen. è sindacabile soltanto per «manifesta irragionevolezza».
Con la medesima sentenza, la Corte ha dichiarato non fondate, in riferimento agli artt. 3, 13, 25 e 27 Cost., le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 131-bis cod. pen., nella parte in cui non estende l’applicabilità dell’esimente all’ipotesi attenuata di cui all’art. 648, secondo comma, cod. pen., in ragione del massimo edittale di pena detentiva superiore ai cinque anni.
La declaratoria di infondatezza è stata motivata sia con un rilievo di inidoneità dei tertia comparationis elencati dal giudice a quo, troppo eterogenei per poter fungere da modello di una soluzione costituzionalmente obbligata, sia con l’esigenza di salvaguardare la discrezionalità legislativa espressasi nella posizione del limite massimo dei cinque anni, «che non può considerarsi, né irragionevole, né arbitrario», in quanto «rientra nella logica del sistema penale che, nell’adottare soluzioni diversificate, vengano presi in considerazione determinati limiti edittali, indicativi dell’astratta gravità dei reati».
La sentenza n. 207 del 2017 – riprende la Corte – ha tuttavia rilevato l’«anomalia» della comminatoria per la ricettazione di particolare tenuità, in ragione dell’inconsueta ampiezza dell’intervallo tra minimo e massimo di pena detentiva (da quindici giorni a sei anni di reclusione), della larga sovrapposizione con la cornice edittale della fattispecie non attenuata (da due anni a otto anni), nonché dell’asimmetria scalare tra gli estremi del compasso, giacché «mentre il massimo di sei anni, rispetto agli otto anni della fattispecie non attenuata, costituisce una diminuzione particolarmente contenuta (meno di un terzo), al contrario il minimo di quindici giorni, rispetto ai due anni della fattispecie non attenuata, costituisce una diminuzione enorme».
La citata sentenza ha osservato che, «se si fa riferimento alla pena minima di quindici giorni di reclusione, prevista per la ricettazione di particolare tenuità, non è difficile immaginare casi concreti in cui rispetto a tale fattispecie potrebbe operare utilmente la causa di non punibilità (impedita dalla comminatoria di sei anni), specie se si considera che, invece, per reati (come, ad esempio, il furto o la truffa) che di tale causa consentono l’applicazione, è prevista la pena minima, non particolarmente lieve, di sei mesi di reclusione», cioè una pena che, «secondo la valutazione del legislatore, dovrebbe essere indicativa di fatti di ben maggiore offensività»: per ovviare all’incongruenza – si è aggiunto –, «oltre alla pena massima edittale, al di sopra della quale la causa di non punibilità non possa operare, potrebbe prevedersi anche una pena minima, al di sotto della quale i fatti possano comunque essere considerati di particolare tenuità».
Astenutasi dal compiere siffatto intervento additivo, primariamente spettante alla discrezionalità legislativa, la Corte rammenta di avere ammonito il Legislatore a farsene carico, «per evitare il protrarsi di trattamenti penali generalmente avvertiti come iniqui».
Il Legislatore stesso – prende tuttavia atto a questo punto la Corte – non ha dato seguito a tale monito, pur essendo recentemente intervenuto sul testo dell’art. 131-bis cod. pen. per aggiungere, nel secondo comma, un’ipotesi tipica di esclusione della particolare tenuità, ove si proceda per delitti puniti con una pena superiore nel massimo a due anni e sei mesi di reclusione commessi in occasione o a causa di manifestazioni sportive ovvero per violenza, minaccia, resistenza od oltraggio commessi nei confronti di un pubblico ufficiale nell’esercizio delle sue funzioni (art. 16, comma 1, lettera b, del decreto-legge 14 giugno 2019, n. 53, recante «Disposizioni urgenti in materia di ordine e sicurezza pubblica», convertito, con modificazioni, nella legge 8 agosto 2019, n. 77).
Ed è proprio la circostanza che il Legislatore non abbia sanato l’evidente scostamento della disposizione censurata dai parametri costituzionali che impone oggi alla Corte di intervenire con il diverso strumento della declaratoria di illegittimità costituzionale.
Come osservato nella sentenza n. 207 del 2017 circa la ricettazione attenuata, con un rilievo che può essere tuttavia formulato in termini generali, la mancata previsione di un minimo edittale di pena detentiva – e quindi l’operatività del minimo assoluto di quindici giorni stabilito per la reclusione dall’art. 23, primo comma, cod. pen. – richiama per necessità logica l’eventualità applicativa dell’esimente di particolare tenuità del fatto.
D’altronde, nella giurisprudenza costituzionale sul principio di proporzionalità della sanzione penale, il minimo assoluto dei quindici giorni di reclusione ha identificato il punto di caduta di fattispecie delittuose talora espressive di una modesta offensività (sentenza n. 341 del 1994).
Nello specifico della comminatoria di cui all’art. 648, secondo comma, cod. pen., l’assoluta mitezza del minimo edittale rispecchia una valutazione legislativa di scarsa offensività della ricettazione attenuata, «la cui configurabilità è riconosciuta dalla giurisprudenza comune solo per le ipotesi di rilevanza criminosa assolutamente modesta, talvolta al limite della contravvenzione di acquisto di cose di sospetta provenienza» (sentenza n. 105 del 2014).
In linea generale, l’opzione del legislatore di consentire l’irrogazione della pena detentiva nella misura minima assoluta rivela inequivocabilmente che egli prevede possano rientrare nella sfera applicativa della norma incriminatrice anche condotte della più tenue offensività.
Rispetto a queste ultime è dunque manifestamente irragionevole l’aprioristica esclusione dell’applicazione dell’esimente di cui all’art. 131-bis cod. pen., quale discende da un massimo edittale superiore ai cinque anni di reclusione.
Il carattere generale dell’esimente di particolare tenuità di cui all’art. 131-bis cod. pen. impedisce alla Corte di rinvenire nel sistema un ordine di grandezza che possa essere assunto a minimo edittale di pena detentiva sotto il quale l’esimente stessa potrebbe applicarsi comunque, a prescindere cioè dal massimo edittale.
La stessa pena minima di sei mesi di reclusione, prevista per i reati menzionati dal giudice a quo come tertia comparationis, cioè furto, danneggiamento e truffa (artt. 624, primo comma, 635, primo comma, e 640, primo comma, cod. pen.), non è generalizzabile, neppure all’interno della categoria dei reati contro il patrimonio, ove solo si consideri la poliedricità del delitto di ricettazione.
Ben potrà il Legislatore, nell’esercizio della relativa, ampia discrezionalità in tema di estensione delle cause di non punibilità, fissare un minimo relativo di portata generale, al di sotto del quale l’applicazione dell’esimente di cui all’art. 131-bis cod. pen. non potrebbe essere preclusa dall’entità del massimo edittale.
Qui deve tuttavia censurarsi per la Corte, alla luce dell’art. 3 Cost., l’intrinseca irragionevolezza della preclusione dell’applicazione dell’esimente di cui all’art. 131-bis cod. pen. per i reati – come la ricettazione di particolare tenuità – che lo stesso legislatore, attraverso l’omessa previsione di un minimo di pena detentiva e la conseguente operatività del minimo assoluto di cui all’art. 23, primo comma, cod. pen., ha mostrato di valutare in termini di potenziale minima offensività.
La declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 131-bis cod. pen., nella parte in cui non consente l’applicazione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto ai reati per i quali non è previsto un minimo edittale di pena detentiva, lascia intatti, ovviamente, tutti i requisiti applicativi dell’esimente che prescindono dall’entità edittale della pena.
Pertanto, anche nell’ipotesi di ricettazione attenuata ex art. 648, secondo comma, cod. pen., e in ogni altra ipotesi di reato privo di un minimo edittale di pena detentiva, l’esimente non potrà essere riconosciuta quando la valutazione giudiziale di cui all’art. 133, primo comma, cod. pen. sia negativa per l’autore del fatto o la condotta di questi risulti abituale ovvero, ancora, quando ricorra una fattispecie tipica di non tenuità tra quelle elencate dal secondo comma dell’art. 131-bis cod. pen.
Deve essere quindi conclusivamente essere dichiarata per la Corte l’illegittimità costituzionale dell’art. 131-bis cod. pen., per violazione dell’art. 3 Cost., nella parte in cui non consente l’applicazione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto ai reati per i quali non è previsto un minimo edittale di pena detentiva, restando assorbita la questione sollevata in riferimento all’art. 27, terzo comma, Cost.
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Il 21 ottobre viene varato il decreto legge n.130, recante disposizioni urgenti in materia di immigrazione, protezione internazionale e complementare, modifiche agli articoli 131-bis, 391-bis, 391-ter e 588 del codice penale, nonché misure in materia di divieto di accesso agli esercizi pubblici ed ai locali di pubblico trattenimento, di contrasto all’utilizzo distorto del web e di disciplina del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale.
Il relativo art.7 modifica l’art.131 bis c.p., comma 2, secondo periodo, sostituendo le parole “di un pubblico ufficiale nell’esercizio delle proprie funzioni”, con le parole “di un ufficiale o agente di pubblica sicurezza o di un ufficiale o agente di polizia giudiziaria nell’esercizio delle proprie funzioni, e nell’ipotesi di cui all’art.343 c.p. (oltraggio a magistrato in udienza).
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Il 2 settembre esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.24974, alla cui stregua, in tema di gestione non autorizzata di rifiuti, l’annullamento senza rinvio della sentenza di condanna nell’ipotesi di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto ex art.131 bis c.p. non comporta la revoca della sanzione amministrativa accessoria della confisca del veicolo, prevista come obbligatoria dall’art. 260 ter, 5° comma, d.leg. 3 aprile 2006 n. 152 in caso di accertamento delle violazioni di cui al 1° comma dell’art. 256 stesso d.leg..
Ciò, precisa il Collegio, atteso come per l’adozione della misura ablatoria non sia richiesta necessariamente la pronuncia di una sentenza di condanna e che l’applicazione della causa di non punibilità prevista dall’art. 131 bis c.p. non esclude la rilevanza penale del fatto, ma ne attesta solo il profilo di particolare tenuità.
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Il 7 dicembre esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.34830, onde ai fini della applicabilità della causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all’art. 131 bis c.p., il decorso di un lasso temporale rispetto ai precedenti reati commessi, c.d. «tempo silente», può assumere rilevanza, sotto il profilo della occasionalità della condotta, nella complessiva ed unitaria valutazione di tenuità del fatto svolta alla stregua delle circostanze della fattispecie concreta.
Nel caso di specie va dunque assunta dal Collegio non cassabile la sentenza che ha negato l’applicazione della causa di non punibilità, nonostante il notevole intervallo temporale rispetto all’ultimo precedente, in assenza di positivi indicatori che avrebbero in concreto consentito di valutare la mera occasionalità della condotta del soggetto agente, a fronte di una sequenza di delitti contro il patrimonio incontestata ed ex se indicativa di una serialità.
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Il 30 dicembre esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.37834 alla cui stregua, ai fini della configurabilità della causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, il giudizio sulla tenuità richiede una valutazione complessa e congiunta di tutte le peculiarità della fattispecie concreta, in base ai criteri indicati dall’art. 133, 1° comma, c.p., che può prendere in considerazione anche le precarie condizioni economiche dell’agente al momento della commissione del reato qualora incidano sull’intensità del dolo.
Per il Collegio va dunque assunta corretta l’assoluzione ai sensi dell’art. 131 bis c.p. dell’imputata che, a causa della grave difficoltà economica in cui versava e dell’esigenza di garantire a sé e ai figli minori una stabile situazione abitativa, aveva occupato abusivamente un alloggio di proprietà dello Iacp che aveva liberato, dopo circa un anno, appena trovato un lavoro.
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Il 18 dicembre viene varata la legge n.173 che converte in legge, con modificazioni, il decreto legge 130.
2021
Il 19 gennaio esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.2175 onde la causa di non punibilità di cui all’art. 131 bis c.p. può essere rilevata di ufficio dal giudice d’appello in quanto, per assimilazione alle altre cause di proscioglimento per le quali vi è l’obbligo di immediata declaratoria in ogni stato e grado del processo, la stessa può farsi rientrare nella previsione di cui all’art. 129 c.p.p.
Nel caso di specie, la richiesta di applicazione della causa di non punibilità era stata avanzata per la prima volta nella fase delle conclusioni orali del giudizio di appello.
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Il 27 gennaio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.3242 onde in tema di reati concernenti gli stupefacenti consegnati o comunque destinati a persone minori, il riconoscimento dell’aggravante di cui all’art. 80, 1° comma, lett. a), d.p.r. n. 309 del 1990, ancorché sia contestata l’ipotesi di lieve entità, non consente l’applicazione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto.
Ciò in quanto, precisa il Collegio, tale circostanza, essendo ad effetto speciale, comporta il superamento del limite di cinque anni di pena detentiva agli effetti dell’art. 131 bis, commi 1 e 4, c.p., elevando a sei anni di reclusione, in esito all’aumento massimo della metà da computare, il massimo edittale di quattro anni previsto per il delitto di cui all’art. 73, 5° comma, d.p.r. cit.
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Il 5 marzo esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.9113, alla cui stregua in tema di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, per «condizioni di minorata difesa della vittima», l’approfittamento delle quali, da parte dell’agente, impedisce l’operatività dell’istituto, debbono intendersi non solo quelle legate a particolari condizioni della stessa vittima, quali l’età o simili, ma anche tutte le altre rientranti nella generale previsione di cui all’art. 61 n. 5 c.p.
Nel caso di specie, per la Corte va dunque censurata la sentenza di merito che ha ritenuto applicabile il disposto di cui all’art. 131 bis c.p. in favore di un imputato di truffa, nonostante che la stessa fosse aggravata ai sensi del combinato disposto dell’art. 640, 2° comma, n. 2 bis, e dell’art. 61 n. 5 c.p., per essersi l’agente avvalso, per commettere il fatto, della rete internet.
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Il 5 marzo esce la sentenza della Corte costituzionale n.30 che – in materia di resistenza a pubblico ufficiale – dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 131-bis, secondo comma, del codice penale, come modificato dall’art. 16, comma 1, lettera b), del decreto-legge 14 giugno 2019, n. 53 (Disposizioni urgenti in materia di ordine e sicurezza pubblica), convertito, con modificazioni, nella legge 8 agosto 2019, n. 77, sollevata dal Tribunale ordinario di Torino, in composizione monocratica, in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 49, paragrafo 3, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007; che dichiara altresì non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 131-bis, secondo comma, cod. pen., come modificato dall’art. 16, comma 1, lettera b), del d.l. n. 53 del 2019, come convertito, sollevate dal Tribunale ordinario di Torino, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost.; e che dichiara, ancora, non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 16, comma 1, lettera b), del d.l. n. 53 del 2019, come convertito, sollevate dal Tribunale ordinario di Torre Annunziata, in composizione monocratica, in riferimento agli artt. 3, 25, secondo comma, 27, primo e terzo comma, e 77, secondo comma, Cost..
I giudizi – principia la Corte – vanno riuniti e decisi con unica sentenza, non soltanto per l’ampia coincidenza delle questioni e dei parametri, ma anche perché nel giudizio di cui al reg. ord. n. 131 del 2020 viene sollevata una questione potenzialmente assorbente, qual è la denuncia di violazione dell’art. 77, secondo comma, Cost. Infatti, riguardando lo stesso corretto esercizio della funzione legislativa, tale questione, ove risultasse fondata, eliderebbe in radice la norma censurata, determinando l’assorbimento delle ulteriori questioni, riferite ad altri parametri costituzionali (ex plurimis, sentenze n. 186 del 2020, n. 288 del 2019, n. 169 del 2017 e n. 154 del 2015).
Ancora in via preliminare, deve constatarsi per il Collegio che la sopravvenienza dell’art. 7, comma 1, del decreto-legge 21 ottobre 2020, n. 130 (Disposizioni urgenti in materia di immigrazione, protezione internazionale e complementare, modifiche agli articoli 131-bis, 391-bis, 391-ter e 588 del codice penale, nonché misure in materia di divieto di accesso agli esercizi pubblici ed ai locali di pubblico trattenimento, di contrasto all’utilizzo distorto del web e di disciplina del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale), convertito, con modificazioni, nella legge 18 dicembre 2020, n. 173, non impone la restituzione degli atti ai rimettenti.
Per giurisprudenza costante, non ogni nuova disposizione che modifichi, integri o comunque incida su quella oggetto del giudizio di costituzionalità richiede una nuova valutazione del giudice a quo circa la perdurante sussistenza dei presupposti di rilevanza e non manifesta infondatezza della questione, ben potendo la Corte ritenere essa stessa che la nuova disposizione non alteri la norma quanto alla parte oggetto della censura, oppure che la modifichi in aspetti marginali o in misura non significativa, sicché permangano attuali le valutazioni del rimettente sulla rilevanza e non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale (sentenza n. 125 del 2018; ordinanza n. 185 del 2020); non impone quindi la restituzione degli atti lo jus superveniens che incida solo parzialmente sulla norma della cui costituzionalità si dubita, senza mutare i termini della questione, per come è stata posta dal giudice a quo (sentenza n. 203 del 2016).
Avendo limitato l’esclusione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto alla resistenza nei confronti dei soli ufficiali e agenti di pubblica sicurezza o polizia giudiziaria (anziché di ogni pubblico ufficiale), l’art. 7, comma 1, del d.l. n. 130 del 2020, come convertito, non ha mutato i termini delle questioni sollevate dai giudici a quibus, in quanto, per ciò che si evince dalle ordinanze di rimessione, le condotte di resistenza oggetto dei capi di imputazione sottoposti al loro giudizio sono state tenute, per l’appunto, in danno di agenti di pubblica sicurezza o polizia giudiziaria, per opporsi all’attività da questi intrapresa a fini di identificazione delle persone e accertamento dei fatti.
Non è fondata invece – prosegue il Collegio – l’eccezione di inammissibilità formulata dal Presidente del Consiglio dei ministri sull’assunto che i rimettenti non avrebbero specificato le ragioni per le quali sarebbe vietato al legislatore limitare l’applicazione dell’esimente di tenuità in rapporto al titolo del reato.
Quale causa di inammissibilità della questione incidentale, il difetto di motivazione sulla non manifesta infondatezza è la carenza di un’adeguata e autonoma illustrazione delle ragioni per le quali la norma censurata integrerebbe una violazione del parametro costituzionale evocato (ex plurimis, sentenze n. 54 del 2020, n. 33 del 2019 e n. 240 del 2017).
I rimettenti hanno invece diffusamente motivato la loro valutazione di non manifesta infondatezza delle questioni, illustrando ampiamente la tesi secondo la quale l’esclusione della causa di non punibilità rapportata al solo titolo di reato ex art. 337 cod. pen. produrrebbe ingiustificate disparità di trattamento e osterebbe alla proporzionalità della risposta penale.
Inammissibile deve essere dichiarata unicamente – per la Corte – la questione sollevata dal Tribunale di Torino in relazione all’art. 49, paragrafo 3, CDFUE, quale parametro interposto rispetto all’art. 117, primo comma, Cost. Per giurisprudenza costante della Corte stessa, la CDFUE può essere invocata, quale parametro interposto in un giudizio di legittimità costituzionale, soltanto quando la fattispecie oggetto di legislazione interna sia disciplinata dal diritto europeo (ex plurimis, sentenze n. 278 e n. 254 del 2020, n. 194 del 2018 e n. 63 del 2016).
Il Tribunale non ha fornito alcuna motivazione in proposito, risultando invece che esso è chiamato a pronunciarsi in ordine al reato di resistenza a pubblico ufficiale, il quale, all’evidenza, non attiene all’ambito di attuazione del diritto dell’Unione europea.
Nel merito, preavvisa a questo punto il Collegio, le ulteriori questioni non sono fondate, in riferimento ad alcuno dei parametri evocati.
La questione sollevata dal Tribunale di Torre Annunziata in riferimento all’art. 77 Cost. postula che la disposizione censurata «non [sia] omogenea, quanto ad oggetto e finalità, rispetto al contenuto originario del decreto-legge nel cui corpo è stata inserita».
Ad avviso del giudice a quo, l’esclusione dell’esimente di tenuità per il reato di resistenza a pubblico ufficiale «non era legata ad alcuna specifica contingenza storica e sociale tale da richiedere un urgente intervento normativo», e quindi la relativa introduzione in sede di conversione del d.l. n. 53 del 2019 sarebbe viziata da eterogeneità funzionale.
Per giurisprudenza costante, chiosa a questo punto la Corte, la legge di conversione rappresenta una legge funzionalizzata e specializzata, che non può aprirsi ad oggetti eterogenei rispetto a quelli originariamente contenuti nell’atto con forza di legge, e tuttavia un difetto di omogeneità, rilevante come violazione dell’art. 77, secondo comma, Cost., si determina solo quando la disposizione aggiunta in sede di conversione sia totalmente «estranea», o addirittura «intrusa», cioè tale da interrompere ogni nesso di correlazione tra il decreto-legge e la legge di conversione (ex plurimis, sentenze n. 115 del 2020, n. 247, n. 226 e n. 181 del 2019, n. 169 del 2017, n. 145 del 2015 e n. 251 del 2014; ordinanze n. 204 e n. 93 del 2020).
La coerenza delle disposizioni aggiunte in sede di conversione rispetto alla disciplina originaria del decreto-legge può essere valutata sia dal punto di vista oggettivo e materiale, sia dal punto di vista funzionale e finalistico (ex plurimis, sentenze n. 247, n. 226 e n. 181 del 2019; ordinanze n. 204 e n. 93 del 2020).
Per i decreti-legge a contenuto plurimo, eterogeneo ab origine, occorre considerare specificamente il profilo teleologico, cioè l’osservanza della ratio dominante che li ispira (ex plurimis, sentenze n. 115 del 2020, n. 154 del 2015 e n. 32 del 2014; ordinanza n. 34 del 2013).
Sotto il titolo «Disposizioni urgenti in materia di ordine e sicurezza pubblica», rammenta a questo punto il Collegio, il d.l. n. 53 del 2019 evidenzia un oggetto piuttosto eterogeneo, che spazia dal contrasto all’immigrazione illegale (Capo I) al potenziamento dell’efficacia dell’azione amministrativa a supporto delle politiche di sicurezza (Capo II), fino al contrasto alla violenza occasionata da eventi sportivi (Capo III).
Tuttavia, la ratio dominante dell’atto urgente è chiaramente orientata – come si evince dalle finalità esplicitate nella sua premessa – verso l’obiettivo di «garantire più efficaci livelli di tutela della sicurezza pubblica», «rafforzare le norme a garanzia del regolare e pacifico svolgimento di manifestazioni in luogo pubblico e aperto al pubblico», tutto ciò «nel più ampio quadro delle attività di prevenzione dei rischi per l’ordine e l’incolumità pubblica».
In quanto finalizzata ad assicurare una maggiore tutela ai pubblici ufficiali quali tramite necessario dell’agire della pubblica amministrazione, l’addizione operata dalla legge di conversione, che ha escluso l’applicazione dell’esimente di tenuità nell’ipotesi di resistenza a pubblico ufficiale, non può dirsi pertanto «estranea», né tantomeno «intrusa», rispetto alla materia della pubblica sicurezza, di cui variamente si occupa il d.l. n. 53 del 2019, né rispetto alla sua prevalente ratio ispiratrice.
Reso più nitido dalla delimitazione soggettiva operata dall’art. 7, comma 1, del d.l. n. 130 del 2020, come convertito, nel relativo specifico riferimento ai pubblici ufficiali che esercitano funzioni di pubblica sicurezza o polizia giudiziaria, il legame teleologico tra l’esclusione della causa di non punibilità e la ratio di più incisiva salvaguardia dell’azione pubblica non può dirsi insussistente con riguardo alla disposizione introdotta dalla legge n. 77 del 2019 in sede di conversione del d.l. n. 53 del 2019.
Non sono fondate – prosegue la Corte – neppure le questioni sollevate da entrambi i rimettenti sulla base dei principi di ragionevolezza, proporzionalità e finalismo rieducativo della pena, segnatamente in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. (reg. ord. n. 89 del 2020) e agli artt. 3, 25, secondo comma, e 27, primo e terzo comma, Cost. (reg. ord. n. 131 del 2020).
Ad avviso dei giudici a quibus, il divieto di qualificare come particolarmente tenue l’offesa recata da qualunque condotta di resistenza a pubblico ufficiale sarebbe irragionevole, perché, al contrario delle altre preclusioni normative dell’esimente di tenuità, l’esclusione non sarebbe qui determinata da particolari connotazioni del fatto, ma soltanto dal titolo del reato.
Fondata unicamente su una «visione sacrale dei rapporti tra cittadino e autorità», l’aprioristica esclusione dell’esimente di tenuità per il reato di resistenza a pubblico ufficiale potrebbe determinare l’irrogazione di una sanzione non giustificata dalla concreta offensività del fatto, e quindi inutilmente afflittiva, oltre a ingenerare disparità di trattamento per titoli di reato omogenei.
Inserito dall’art. 1, comma 2, del decreto legislativo 16 marzo 2015, n. 28, recante «Disposizioni in materia di non punibilità per particolare tenuità del fatto, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera m), della legge 28 aprile 2014, n. 67», l’art. 131-bis cod. pen. ha previsto «una generale causa di esclusione della punibilità che si raccorda con l’altrettanto generale presupposto dell’offensività della condotta, requisito indispensabile per la sanzionabilità penale di qualsiasi condotta in violazione di legge» (sentenza n. 120 del 2019).
Esso fissa una «soglia massima di gravità», correlata a una pena edittale non superiore nel massimo a cinque anni di reclusione, e quindi, per i titoli di reato che non eccedono tale soglia, stabilisce una «linea di demarcazione trasversale», che esclude la punibilità delle condotte aventi «in concreto» un tasso di offensività marcatamente ridotto (ancora, sentenza n. 120 del 2019).
Infatti, il primo comma dell’art. 131-bis cod. pen. dispone che «[n]ei reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena, la punibilità è esclusa quando, per le modalità della condotta e per l’esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell’articolo 133, primo comma, l’offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale».
Il limite applicativo correlato al massimo edittale deve essere ora inteso alla luce della sentenza n. 156 del 2020, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 131-bis cod. pen. «nella parte in cui non consente l’applicazione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto ai reati per i quali non è previsto un minimo edittale di pena detentiva».
Nel testo originario, il secondo comma dell’art. 131-bis cod. pen. conteneva un solo periodo, a tenore del quale «[l]’offesa non può essere ritenuta di particolare tenuità, ai sensi del primo comma, quando l’autore ha agito per motivi abietti o futili, o con crudeltà, anche in danno di animali, o ha adoperato sevizie o, ancora, ha profittato delle condizioni di minorata difesa della vittima, anche in riferimento all’età della stessa ovvero quando la condotta ha cagionato o da essa sono derivate, quali conseguenze non volute, la morte o le lesioni gravissime di una persona».
L’art. 16, comma 1, lettera b), del d.l. n. 53 del 2019, nella formulazione originaria, ha aggiunto un ulteriore periodo («[l]’offesa non può altresì essere ritenuta di particolare tenuità quando si procede per delitti, puniti con una pena superiore nel massimo a due anni e sei mesi di reclusione, commessi in occasione o a causa di manifestazioni sportive»), che tuttavia è stato integrato dalla legge di conversione con l’addizione «ovvero nei casi di cui agli articoli 336, 337 e 341-bis, quando il reato è commesso nei confronti di un pubblico ufficiale nell’esercizio delle proprie funzioni».
Da ultimo, l’art. 7, comma 1, del d.l. n. 130 del 2020, come convertito, ha stabilito che nel secondo periodo del secondo comma dell’art. 131-bis cod. pen. le parole «di un pubblico ufficiale nell’esercizio delle proprie funzioni» sono sostituite da quelle «di un ufficiale o agente di pubblica sicurezza o di un ufficiale o agente di polizia giudiziaria nell’esercizio delle proprie funzioni, e nell’ipotesi di cui all’articolo 343».
Per giurisprudenza costante, riprende a questo punto la Corte, le cause di non punibilità costituiscono altrettante deroghe a norme penali generali, sicché la loro estensione comporta strutturalmente un giudizio di ponderazione a soluzione aperta tra ragioni diverse e confliggenti, in primo luogo quelle che sorreggono da un lato la norma generale (che punisce) e dall’altro la norma derogatoria (che esclude la punibilità), giudizio che appartiene primariamente al legislatore (sentenze n. 156 del 2020, n. 140 del 2009 e n. 8 del 1996).
Da tale premessa discende per il Collegio che le scelte del legislatore relative all’ampiezza applicativa della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen. sono sindacabili soltanto per irragionevolezza manifesta (sentenze n. 156 del 2020 e n. 207 del 2017).
Del resto, il fatto particolarmente lieve cui si riferisce l’art. 131-bis cod. pen. è pur sempre un fatto offensivo, costituente reato, che il legislatore sceglie di non punire per riaffermare la natura di extrema ratio della sanzione penale e deflazionare il carico della giurisdizione (sentenza n. 156 del 2020; ordinanza n. 279 del 2017).
La scelta legislativa di escludere dal campo di applicazione dell’esimente di tenuità il reato di resistenza a pubblico ufficiale non è – chiarisce a questo punto il Collegio – manifestamente irragionevole, poiché viceversa corrisponde all’individuazione discrezionale di un bene giuridico complesso, ritenuto meritevole di speciale protezione.
Già dopo la sentenza n. 341 del 1994, con la quale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 341 cod. pen. laddove prevedeva il minimo edittale di sei mesi di reclusione per il reato di oltraggio in riflesso di una «concezione autoritaria e sacrale dei rapporti tra pubblici ufficiali e cittadini», la Corte rammenta di avere avuto modo di evidenziare come l’elemento costitutivo della violenza o minaccia finalizzata ad alterare il regolare funzionamento dell’attività della pubblica amministrazione impediva di estendere tale ratio decidendi sia al reato di violenza o minaccia a un pubblico ufficiale di cui all’art. 336 cod. pen. (sentenza n. 314 del 1995), sia a quello di resistenza a pubblico ufficiale di cui all’art. 337 cod. pen. (ordinanza n. 425 del 1996).
Successivamente, anche per il “nuovo” reato di oltraggio di cui all’art. 341-bis cod. pen., la Corte ha messo in luce una dimensione offensiva ormai più ampia di quella della fattispecie codicistica originaria, in quanto l’introduzione di un requisito di stretta contestualità tra la condotta del reo e il compimento di uno specifico atto funzionale (requisito espresso dalla locuzione «mentre compie un atto d’ufficio») ha configurato un «delitto offensivo anche del buon andamento della pubblica amministrazione, sub specie di concreto svolgimento della (legittima) attività del pubblico ufficiale, non diversamente da quanto accade – per l’appunto – per il delitto di cui all’art. 337 cod. pen.» (sentenza n. 284 del 2019).
L’esclusione del titolo di reato di cui all’art. 337 cod. pen. dalla sfera applicativa dell’esimente di tenuità corrisponde quindi per la Corte – secondo un apprezzamento discrezionale non manifestamente irragionevole – alla peculiare complessità del bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice, peraltro rimarcata anche dalle sezioni unite della Corte di cassazione, laddove hanno osservato che il normale funzionamento della pubblica amministrazione tutelato dall’art. 337 cod. pen. va inteso «in senso ampio», poiché include anche «la sicurezza e la libertà di determinazione» delle persone fisiche che esercitano le pubbliche funzioni (sentenza 22 febbraio-24 settembre 2018, n. 40981).
In presenza di un fatto-reato intrinsecamente offensivo di un bene giuridico di tale complessità, l’opzione legislativa di escludere la valutazione giudiziale di particolare tenuità dell’offesa – oltre che non manifestamente irragionevole – non è neppure contrastante con i principi di proporzionalità e finalismo rieducativo della pena, considerato altresì che i criteri di cui all’art. 133, primo comma, cod. pen., richiamati dall’art. 131-bis, primo comma, cod. pen., seppure non rilevano agli effetti dell’applicazione della causa di non punibilità, mantengono tuttavia la loro ordinaria funzione di dosimetria sanzionatoria, unitamente a quelli di cui al secondo comma del medesimo art. 133.
Non è pertinente – chiosa ancora la Corte – il richiamo del Tribunale di Torre Annunziata alla giurisprudenza della Corte medesima sulle presunzioni assolute in materia penale, segnatamente concernenti l’adeguatezza cautelare della sola custodia in carcere.
Tali presunzioni si fondano su un’illazione legislativa, la cui rispondenza all’id quod plerumque accidit costituisce un limite intrinseco di ragionevolezza, l’osservanza del quale deve essere verificata in termini di congruità della «base empirico-fattuale» (da ultimo, sentenza n. 191 del 2020).
Nel caso in scrutinio, viceversa, il legislatore non ha compiuto un’operazione logica di tipo presuntivo, che possa vagliarsi secondo un parametro di regolarità fattuale, ma, nell’esercizio della relativa discrezionalità in materia di politica criminale, ha identificato un bene giuridico di speciale pregnanza, cui ha ritenuto di assegnare una protezione rafforzata.
I tertia addotti dai rimettenti nella prospettiva dell’art. 3 Cost. risultano poi sprovvisti per il Collegio dell’omogeneità necessaria a impostare il giudizio comparativo.
Così, non è pertinente che l’esimente di tenuità resti applicabile all’abuso d’ufficio ex art. 323 cod. pen., al rifiuto di atti d’ufficio ex art. 328 cod. pen. e all’interruzione di pubblico servizio ex art. 340 cod. pen., poiché queste fattispecie delittuose, per quanto incidano anch’esse sul regolare funzionamento della pubblica amministrazione, non vedono tuttavia direttamente coinvolta la sicurezza e la libertà della persona fisica esercente la funzione pubblica, intesa quale soggetto passivo del reato.
Tale coinvolgimento personale ricorre nella fattispecie aggravata ex artt. 576, primo comma, numero 5-bis), 582 e 585 cod. pen., la quale però, ove la condotta causativa delle lesioni sia teleologicamente collegata a una resistenza nei confronti del pubblico ufficiale, e sia quindi diretta a intralciare il regolare funzionamento della pubblica amministrazione, ricade senz’altro nell’esclusione dell’esimente di tenuità prevista per il titolo di reato di cui all’art. 337 cod. pen.
Infine, quanto all’oltraggio a magistrato in udienza ex art. 343 cod. pen., la relativa mancata previsione fra i titoli di reato eccettuati dall’applicazione della causa di non punibilità – omissione che peraltro avrebbe potuto denunciare un’irragionevole disparità di trattamento rispetto all’oltraggio generico e non anche rispetto ai più gravi reati con base violenta di cui agli artt. 336 e 337 cod. pen. – è stata colmata dall’art. 7, comma 1, del d.l. n. 130 del 2020, come convertito.
Per quanto esposto, conclude la Corte, in disparte quella giudicata inammissibile, le questioni devono essere dichiarate non fondate, in riferimento a tutti i parametri evocati.
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Il 17 marzo esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n.11732 onde, in tema di non punibilità per particolare tenuità del fatto, ai fini della valutazione del presupposto ostativo del comportamento abituale, ai sensi dell’art. 131 bis, 3° comma, c.p., non va tenuto conto dei reati estinti ai sensi dell’art. 460, 5° comma, c.p.p. (in tema di decreto penale di condanna), conseguendo all’estinzione del reato anche l’elisione di ogni effetto penale della condanna.
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Il 19 marzo esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.10796 onde, in tema di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, i precedenti di polizia esistenti a carico dell’imputato possono essere ritenuti sintomatici dell’abitualità del reato, ostativa alla concessione del beneficio, a condizione che siano verificati gli elementi fattuali da essi emergenti, le eventuali allegazioni difensive relative alla sussistenza di cause di giustificazione o di non punibilità della condotta e gli esiti delle segnalazioni, ossia la loro eventuale iscrizione nel registro delle notizie di reato e l’avvio di un procedimento penale.
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L’11 maggio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.18154 alla cui stregua va assunta manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 593, 3° comma, c.p.p. per violazione degli art. 3, 24, 111 cost. e 6 Cedu, nella parte in cui esclude l’appellabilità della sentenza di condanna alla sola pena dell’ammenda, pur essendo possibile appellare la sentenza di proscioglimento ai sensi dell’art. 131 bis c.p..
Ciò in quanto anche quest’ultima sentenza, ove pronunciata per reati per i quali avrebbe potuto essere inflitta, in concreto, tale sanzione, non è appellabile, sicché per la Corte non sono configurabili né la prospettata disparità di trattamento, né la violazione degli ulteriori parametri costituzionali indicati.
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Il 20 luglio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.27982, alla cui stregua coglie nel segno, nel caso scandagliato, il primo motivo di ricorso laddove ha censurato la sentenza impugnata per aver ritenuto i giudici di appello la mancanza di interesse dei ricorrenti alla proposizione dell’impugnazione, avendo costoro beneficiato, per parte dell’imputazione contestata (quella relativa alla realizzazione abusiva di una tettoia), della declaratoria di non punibilità del fatto ex art. 131-bis, cod. pen., non avendo richiesto in sede di prime cure l’estinzione del reato per sanatoria edilizia.
A tal proposito – precisa la Corte – deve infatti rilevarsi che, conformemente a quanto avviene per la causa omologa dell’estinzione del reato per prescrizione (Sez. 6, n. 11040 del 27/01/2016, Rv. 266505 – 01), anche la causa di estinzione del reato per intervenuto rilascio della sanatoria edilizia è destinata a prevalere, in quanto più favorevole, sulla causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis, cod. pen., in quanto la prima, estinguendo il reato, rappresenta un esito più favorevole per l’imputato, mentre la seconda lascia inalterato l’illecito penale nella relativa materialità storica e giuridica.
Non poteva, pertanto, ritenersi che gli appellanti difettassero di interesse ex art. 591, co. 1, c.p.p., in quanto indubbiamente la valutazione della applicabilità della causa di estinzione del reato ex art. 45, TU edilizia, in quanto più favorevole rispetto alla declaratoria di cui all’art. 131-bis, cod. pen., legittimava gli stessi a proporre impugnazione, come del resto rilevato in consimili ipotesi dalla stessa Corte, in cui si è affermato che la declaratoria della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto non esclude l’interesse dell’imputato ad ottenere una pronuncia in ordine all’applicazione della causa di estinzione del reato di cui all’art. 341-bis, comma terzo, cod. pen., dal momento che quest’ultima dispiega effetti più favorevoli rispetto a quelli previsti dall’art. 131-bis cod. pen.
In motivazione, la Corte rammenta di avere precisato che la sentenza dichiarativa della causa di non punibilità presuppone l’accertamento della commissione di un fatto costituente reato, cui consegue l’annotazione della decisione nel casellario giudiziario e, in caso di reiterazione reati della stessa indole, è ostativa al riconoscimento del beneficio (Sez. 6, n. 44627 del 03/10/2019 – dep. 31/10/2019).
L’accoglimento del ricorso non determina tuttavia – prosegue la Corte – l’annullamento della sentenza per un nuovo giudizio di appello, attesa l’intervenuta maturazione, medio tempore, del termine di prescrizione del reato, avvenuta in data 17.12.2019.
In presenza di una causa di estinzione del reato, non sono rilevabili in sede di legittimità vizi di motivazione della sentenza impugnata in quanto il giudice del rinvio avrebbe comunque l’obbligo di procedere immediatamente alla declaratoria della causa estintiva (Sez. U, n. 35490 del 28/05/2009 – dep. 15/09/2009, Rv. 244275 – 01), ma non è nemmeno rilevabile il vizio di violazione di legge denunciato, attesa l’omogeneità delle conseguenze che ne discenderebbero per i ricorrenti.
Ed invero, chiosa ancora il Collegio, l’annullamento si rende superfluo in quanto l’eventuale accogli- mento della censura difensiva in ordine alla mancata estensione “analogica” della causa estintiva di cui all’art. 45, TU edilizia, non determinerebbe effetti più favorevoli rispetto all’omologa causa di estinzione del reato conseguente all’intervenuta prescrizione.
Trova, del resto, applicazione nel caso di specie la previsione dell’art. 183, comma terzo, cod. pen., che, in caso di concorso di cause estintive che intervengono in tempi diversi (e tali sono l’estinzione ex art. 45, Tu edilizia e l’estinzione ex art. 157, c.p.), prevede che la causa antecedente estingue il reato e quella successiva fa cessare gli effetti che non siano ancora estinti in conseguenza della causa antecedente.
Tra le due cause di estinzione quella antecedente deve, in particolare, essere considerata quella prevista dall’art. 157, c.p., poiché l’altra non opererebbe automaticamente, presupponendo un apprezzamento di fatto che, non potendo essere eseguito dalla Corte ma unicamente da parte del giudice di appello in sede di merito, comporterebbe un nuovo giudizio da parte del giudice di secondo grado, che non potrebbe però sottrarsi all’obbligo di dichiarare ex art. 129, c.p.p. l’estinzione del reato per la già intervenuta prescrizione.
L’annullamento dell’impugnata sentenza deve essere pertanto disposto – conclude la Corte – senza rinvio, e si estende anche alla sentenza di primo grado, limitatamente alla parte in cui essa ha fatto applicazione della causa di non punibilità ex art. 131-bis, cod. pen., attesa l’intervenuta estinzione per prescrizione del reato edilizio con riferimento alla tettoia in legno.
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Il 29 luglio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.29674 in fattispecie di omessa timbratura via “badge” da parte di pubblici impiegati.
Una recente pronuncia, rammenta la Corte, ha affrontato la questione della sussistenza del reato nei casi di lieve entità della violazione. È stato affermato che la clausola generale di “non punibilità per particolare tenuità del fatto” prevista dall’art. 131-bis c.p. è applicabile solamente nei casi nei quali la condotta di allontanamento fraudolento dal posto di lavoro sia stata del tutto episodica e, comunque, l’offesa sia di particolare tenuità (Sez. II, n. 38997 del 27/08/2018).
In tutti gli altri casi nei quali vi sia abitualità o reiterazione del comportamento, anche se di lieve entità, non è applicabile la clausola di non pu- nibilità. In sostanza, in presenza di un unico episodio e di effetti limitati è possibile applicare l’esimente mentre nel caso di episodi ripetuti, anche di lieve entità, è configurabile e sanzionabile la condotta con l’applicazione della pena prevista per il delitto di “false attestazioni o certificazioni“.
Si rammenta poi che l’art. 131-bis c.p. stabilisce che la punibilità è esclusa quando, per le modalità della condotta e per l’esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell’art. 133 c.p., comma 1, l’offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale.
Sul punto, chiosa a questo punto il Collegio, deve richiamarsi la giurisprudenza della Corte in base alla quale la causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto non può essere applicata ai reati necessariamente abituali ed a quelli eventualmente abituali che siano stati posti in essere mediante reite- razione della condotta tipica (Sez. III, n. 30134 del 5/04/2017), in quanto viene a configurarsi una ipotesi di “comportamento abituale” ostativa al riconoscimento del beneficio (Sez. VI, n. 18192 del 20/03/2019).
Tuttavia, in ipotesi di reiterazione non sono mancate decisioni nelle quali l’applicabilità dell’art. 131-bis c.p. è stata fondata sulla lieve entità delle singole condotte, isolatamente considerate. Tale soluzione poggia sulla mancata ripetizione nell’articolo summenzionato dell’inciso “anche se ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di lieve entità“. In sostanza, tale scelta del legislatore lascerebbe aperta la possibilità, in caso di “reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate“, di applicare l’art. 131-bis c.p., all’esito di una valutazione di particolare tenuità delle singole condotte o dei singoli fatti (Sez. III, n. 38849 del 5/04/2017).
Per il reato continuato, similmente, è stato richiesto che gli illeciti non siano espressivi di una tendenza o inclinazione al crimine, dovendo essere soppesata l’incidenza della continuazione in tutti i relativi aspetti, quali gravità del reato, capacità a delinquere, precedenti penali e giudiziari, durata temporale della violazione, numero delle disposizioni di legge violate, effetti della condotta antecedente, contemporanea o susseguente al reato, interessi lesi o perseguiti dal reo e motivazioni, anche indirette, sottese alla condotta.(Sez. II, n. 41011 del 6/06/2018).
Si è chiarito, peraltro, che per escludere la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto è da ritenersi adeguata la motivazione che dia conto dell’assenza di uno soltanto dei presupposti richiesti dall’art. 131-bis c.p. ritenuto, evidentemente, decisivo (Sez. III, n. 34151 del 18/6/2018; Sez. VI, n. 55107 del 8/11/2018) secondo cui il giudizio sulla tenuità dell’offesa dev’essere effettuato con riferimento ai criteri di cui all’art. 133 c.p., comma 1, ma non è necessaria la disamina di tutti gli elementi di valutazione previsti, essendo sufficiente l’indicazione di quelli ritenuti rilevanti (Sez. II, n.25234 del 14/05/2019).
Nel caso di specie, riprende a questo punto la Corte, il primo giudice, analizzando l’ultimo profilo ov- vero, se si possa riconoscere la sussistenza della causa di non punibilità ex art.131 bis c.p., osserva che non sussistono i presupposti per la relativa applicabilità.
In particolare, tra gli elementi ostativi viene dato rilievo alla futilità dei motivi per cui gli autori hanno agito in quanto, l’allontanamento non autorizzato e non attestato integra una condotta grave, posta in essere in violazione dei basilari doveri d’ufficio e di lealtà di un dipendente verso la P.A.; dall’altro, tale condotta si sottolinea essere idonea ad incrementare un diffuso malumore verso la categoria dei pubblici dipendenti e cagionare un danno all’immagine della Casa Comunale.
Inoltre, la futilità del motivo viene desunta dal fatto che l’allontanamento si è reso necessario per assecondare bisogni di vita del tutto accessori ed infine, dalle dichiarazioni del C. risulta che tale allontanamento non era occasionale ma anzi era una prassi, una consuetudine mattutina, radicata e addirittura abituale.
La Corte di Appello poi, richiamando e rimandando alla motivazione del giudice di prime cure che aveva affrontato la questione, ha rigettato la richiesta di applicazione dell’art. 131 bis c.p. ritenendola inammissibile anche perché non erano avanzate, da parte delle difese, critiche all’iter logico seguito dalla sentenza, ma i motivi di appello si limitavano a riproporre la questione. In ogni caso, ha posto l’accento sulla gravità delle condotte poiché gli imputati hanno violato il principale dovere del dipendente e cioè essere presente al lavoro, agendo con noncuranza verso l’utenza e cercando di sminuire la condotta stessa. Condotta che, ad avviso dei giudici, è stata posta in essere per motivazioni trascurabili e del tutto ingiustificabili.
La Corte territoriale, in particolare, ha escluso il riconoscimento della causa di esclusione della punibilità ex art. 131-bis c.p. con argomentazioni non condivise dal Collegio. Ed infatti, è stato valorizzato sia il complessivo disvalore della condotta, la relativa gravità in rapporto alla conseguente lesione cagionata all’amministrazione (danno all’immagine e disservizio), nonché il diffuso malumore verso la categoria dei dipendenti pubblici, sia l’aspetto della abitualità della condotta che (quanto al C.) nel caso in esame, è stata desunta dalle dichiarazioni di entrambi gli imputati in quanto il S. aveva dichiarato “di essere stato sfortunato perché non gli era mai capitata una cosa del genere in trentasei anni di servizio” e il C. aveva dichiarato “che la sua condotta era una prassi che aveva attuato non solo nell’ufficio della Casa Comunale ma anche in altri uffici“. Ne conseguirebbe, per i giudici territoriali, che i relativi abusi non erano isolati ma frequenti.
Diversamente, osserva il Collegio, non può anzitutto attribuirsi rilievo agli argomenti da cui è stato tratto il convincimento che non si trattasse di condotte occasionali dei due ricorrenti. Ed infatti, esclusa dalla stessa consecutio logica della frase valorizzata dai giudici di merito la non occasionalità della condotta del S. (il quale aveva dichiarato “di essere stato sfortunato perché non gli era mai capitata una cosa del genere in trentasei anni di servizio“), atteso che da tale affermazione non può essere tratto alcun argomento a sostegno della circostanza che si trattasse di condotta non occasionale, in quanto costituiva al più espressione di disappunto o dispiacere del ricorrente per essere incappato in una situazione di quel tipo nel corso della relativa vita lavorativa.
Analogamente, quanto alla valorizzazione della frase del C. (il quale aveva dichiarato “che la sua con- dotta era una prassi che aveva attuato non solo nell’ufficio della Casa Comunale ma anche in altri uffici“), non può alla stessa essere attribuito carattere ostativo al riconoscimento del carattere non occasionale della condotta, inquadrandosi, per esplicito riconoscimento dello stesso ricorrente, in una sorta affidamento dipen- dente dalla prassi o dalla tolleranza dei superiori che, in quanto tale, pur non escludendo – per le ragioni dianzi illustrate – il dolo del reato oggetto di contestazione, può essere comunque valorizzato al fine dell’attenuazione della riprovevolezza complessiva della condotta tenuta in riferimento all’unicità della violazione accertata presso l’amministrazione comunale di appartenenza.
Né, si noti, ha pregio – prosegue la Corte – la tesi seguita dai giudici di merito che, tra gli elementi ostativi, hanno attribuito rilievo alla futilità dei motivi per cui gli autori hanno agito, in questo modo ritenendo in sostanza configurabile nel caso in esame l’ipotesi ostativa di cui all’art. 131-bis, comma secondo, cod. pen., secondo cui “l’offesa non può essere ritenuta di particolare tenuità, ai sensi del primo comma, quando l’autore ha agito per motivi abietti o futili“.
Il riferimento alla futilità del motivo, per come interpretato dai giudici di merito (pur essendo sostenuto da autorevole dottrina, secondo cui le presunzioni di non tenuità del fatto previste dal comma secondo, possono “essere apprezzate e ritenute dal giudice anche se non vi è stata formale contestazione, così come la formale contestazione da parte del pubblico ministero deve passare dal vaglio del giudice“), è tuttavia errato in quanto, ai fini della configurabilità della presunzione di non tenuità del fatto prevista dal comma secondo, è pur sempre necessario che sussista la contestazione, quantomeno in fatto, della corrispondente aggravante prevista dall’art. 61, comma primo n. 1, cod. pen. (l’avere agito per motivi abietti o futili).
Se, del resto, così non fosse – precisa ancora la Corte – si attribuirebbe al giudice il potere, destinato a sfociare nell’arbitrio in assenza di una formale contestazione dell’ipotesi aggravata, di ritenere di non particolare tenuità qualsivoglia condotta che, sulla base di parametri diversi da quello normativo indicato, seppur fondati sul prudente apprezzamento, risulti espressione, in virtù dell’apprezzamento soggettivo e personale del giudice, come ostativa al riconoscimento della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis, cod. pen.
Detto altrimenti, seguendo in tal senso l’opinione di autorevole dottrina, “per una scelta di politica criminale del legislatore, l’offesa non può essere ritenuta tenue né quando dal contegno illecito siano derivate la morte o le lesioni gravissime della persona, né quando la condotta criminosa sia stata posta in essere in presenza di quelle peculiari circostanze indicate dalla norma – ovvero per motivi abietti o futili, o con crudeltà, o con sevizia, o per aver profittato della minorata difesa della vittima – che normalmente costituiscono delle semplici circostanze aggravanti comuni del reato“.
Il che, dunque, avvalora la tesi, seguita dal Collegio, secondo cui, operando la presunzione in esame sul piano della colpevolezza, è necessario che di esse vi sia contestazione, quantomeno in fatto, al fine di con- sentire al reo di esplicare in maniera piena il proprio diritto di difesa.
La circostanza è infatti di natura soggettiva e si riferisce all’abiezione o alla futilità dei motivi, e soggiace pertanto alla regola dettata dall’art. 59, comma secondo, cod. pen. (le circostanze che aggravano la pena sono valutate a carico dell’agente soltanto se da lui conosciute ovvero ignorate per colpa o ritenute inesistenti per errore determinato da colpa).
E, sotto tale profilo, la circostanza che la condotta si inquadrasse, per esplicito riconoscimento dello stesso ricorrente C., in una sorta i affidamento dipendente dalla prassi o dalla tolleranza dei superiori, lascia intendere che l’agente abbia evidentemente agito per un errato apprezzamento della situazione di fatto, fondato su una falsa, ma ragionevole e non pretestuosa, rappresentazione della realtà, ritenendo dunque di agire per un movente che non sarebbe obiettivamente futile se l’errore non si fosse verificato.
In tale ipotesi, infatti, il movente, inteso come effettiva causa psichica della condotta, non può ritenersi futile, poiché l’errore non dipende da incapacità introspettiva dell’agente o da un irragionevole processo psicologico di autogiustificazione che nasconde un impulso profondo a delinquere del tutto sproporzionato rispetto al reato commesso, sebbene da una falsa rappresentazione delle condizioni nelle quali l’agente ha operato.
In questo caso, la causa determinante del reato non è costituita, prevalentemente od esclusivamente, dall’istinto criminale dell’agente, talché viene meno la ragione dell’aggravante.
L’impugnata sentenza dev’essere, pertanto, sul punto, annullata, con rinvio alla Corte d’appello di Napoli, altra sezione, al fine di valutare la sussistenza o meno, nel caso di specie, della causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto.
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Il 26 agosto esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.32254 che osserva, ratione materiae, come – quanto al mancato riconoscimento della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto – occorra considerare che l’art. 131-bis cod. pen. è stato introdotto dall’art. 1, comma 2, d. Igs. 16 marzo 2015, n. 28, disposizione che ha inserito, con valenza di norma sostanziale, la pertinente, speciale causa di non punibilità.
Il fatto particolarmente tenue va individuato alla stregua di caratteri riconducibili a tre categorie di indicatori: le modalità della condotta, l’esiguità del danno o del pericolo, il grado della colpevolezza.
Le Sezioni Unite hanno già avuto occasione recentemente, rammenta il Collegio, di evocare le radici e le inespresse potenzialità ermeneutiche del principio di offensività (Sez. U, n. 40354 del 18/07/2013, Sciuscio, Rv. 255974), oramai costituzionalizzato nella cd. Costituzione materiale. In realtà il nuovo istituto persegue finalità connesse ai principi di proporzione ed extrema ratio; con effetti anche in tema di deflazione.
Lo scopo primario è quello di espungere dal circuito penale fatti marginali, che non mostrano bisogno di pena e, dunque, neppure la necessità di impegnare i complessi meccanismi del processo. Per stabilire quando un fatto possa ritenersi non punibile per tenuità, occorre porre mente all’entità, all’oggetto, agli effetti della condotta e a ogni altro elemento significativo. Il richiamo mette in campo, oltre alle caratteristiche dell’azione e alla gravità del danno o del pericolo, anche all’intensità del dolo e al grado della colpa.
Nel disciplinare la graduazione dell’illecito, chiosa ancora il Collegio, si è fatto riferimento non solo al disvalore di azione e di evento, ma anche al grado della colpevolezza. La rilevanza del profilo soggettivo implica una ponderazione sul grado della colpa e sull’intensità del dolo; da ciò l’introduzione del richiamo esplicito all’art. 133, primo comma, cod. pen. che compare nella norma di richiamo.
Da un lato, dunque, il legislatore ha compiuto una graduazione qualitativa, astratta, basata sull’entità e sulla natura della pena e vi ha aggiunto un elemento d’impronta personale, pure esso tipizzato, relativo alla abitualità o meno del comportamento. Dall’altro, l’abitualità stessa è stata intesa come specchio di un dolo di intensità particolare richiamato dagli artt. 131-bis e 133 cod. pen.
Ciò posto – riprende a questo punto il Collegio – deve osservarsi che la sentenza gravata affronta diversi aspetti sulla causa di non punibilità e si confronta in maniera adeguata con la critica contenuta in ricorso. Il motivo, d’altro canto, è, in parte, anche eccentrico, poiché si sofferma sul solo aspetto della condotta relativa al post-fatto.
Il ricorrente lamenta che la determinazione di non concedere la misura invocata della speciale causa di non punibilità si sia concentrata sul solo comportamento di T. tenuto dopo la condotta oggetto di processo. Al contrario, la decisione esamina una serie di elementi che inducono a una valutazione complessiva della condotta e che hanno indotto ad escludere la concessione del beneficio.
Valorizzando tutti gli elementi che caratterizzano la causa di non punibilità il Giudice a quo – precisa la Corte – enuclea i dati materiali a disposizione, facendo leva non sul tentativo di furto in se, commesso nell’anno 2017, come dato ostativo al riconoscimento della speciale causa di non punibilità, ma valorizzandone la portata alla luce della condotta posta in essere.
Invero, quel delitto si collega alla condotta di reingresso, in un finalismo obiettivo, che genera in punto logico una continuità nell’attività delittuosa, attestando che al reingresso (illecito) nel territorio dello Stato ha fatto seguito un persistere di azioni devianti che hanno, appunto, indotto ad escludere che all’accesso in violazione dell’art. 13 comma 13 del D.L.vo 25 luglio 1998, n. 286, si potesse riconoscere una valenza offensiva di struttura minimale.
Si intende, allora, come anche una condotta delittuosa successiva al ritorno illecito nel territorio italiano può rilevare ai fini del diniego della speciale causa di non punibilità ex art. 131-bis cod. pen., quando l’attività postuma, collegandosi concettualmente al reingresso, ne segni il finalismo obiettivo, facendo intendere come la violazione dell’art. 13 comma 13 D.L.vo 25 luglio 1998, n. 286, non si colleghi a condotte essenzialmente lecite, ma ad atteggiamenti d’obiettiva finalizzazione al delitto, anche non definite nella specifica individualità, ma definite nella sola portata generale.
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Il 7 settembre esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n.32956 alla cui stregua – in tema di infortunio sul lavoro – ai fini della configurabilità della causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, il giudizio sulla tenuità richiede una valutazione complessa e congiunta di tutte le peculiarità della fattispecie concreta, che tenga conto, ai sensi dell’art. 133, primo comma, cod. pen., delle modalità della condotta, del grado di colpevolezza da esse desumibile e dell’entità del danno o del pericolo (Sez. U, n. 13681 del 25/02/2016, Tushaj, Rv. 266590), richiamando ad una valutazione quanto più aderente alla concreta fattispecie e ripudiando – entro le sole “rime obbligate” dei limiti edittali e dell’abitualità, previste dalla legge – impropri automatismi (Sez. 5, n. 11240 del 28/02/2019, Curci, non massimata).
In tal senso, prosegue il Collegio, la mancata sussumibilità del fatto nel paradigma della particolare tenuità dell’offesa e l’inapplicabilità dell’istituto non può essere desunta dai prece- denti penali (Sez. 3, n. 35757 del 23/11/2016, Sacco, Rv. 270948; Sez. 4, n. 7905 del 7/1/2016, Vinci, Rv. 266065), ma questi possono essere posti alla base della valutazione di gravità della condotta e dell’allarme sociale da essa provocato, unitamente alle modalità concrete con le quali la medesima sia stata realizzata, con ciò tenendosi conto, dunque, dei parametri di giudizio di natura e struttura oggettiva voluti dal legislatore e non di quelli legati alla personalità dell’imputato.
L’art. 131 bis cod. pen. prevede poi, perché possa ritenersi la particolare tenuità del fatto, che il comportamento non risulti abituale: tale disposizione, chiosa ancora la Corte, al terzo comma, indica le ipotesi in cui il comportamento debba appunto ritenersi abituale: a) autore dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza; b) autore che abbia commesso più reati della stessa indole, anche se ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di particolare tenuità; c) reati aventi ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate.
L’art. 131 bis cod. pen., quindi, pretende la veste formale di delinquente abituale, professionale o per tendenza, una recidivanza non generica ma specifica, una struttura del reato intrinsecamente conformata dalla pluralità, dalla abitualità e dalla reiterazione delle condotte (Sez. 4, n. 7905 del 07/01/2016, Vinci, non massimata sul punto). Peraltro, ai fini della configurabilità della abitualità del comportamento, ostativa all’applicazione della causa di non punibilità prevista dall’art. 131 bis cod. pen., l’identità dell’indole dei reati eventualmente commessi deve essere valutata dal giudice in relazione al caso esaminato, verificando se in concreto i reati presentino caratteri fondamentali comuni (Sez. 5, n. 53401 del 30/05/2018, Salzano, Rv. 274186; Sez. 4, n. 27323 del 04/05/2017, Garbocci, Rv. 270107).
Ciò posto, conclude a questo punto la Corte, nella fattispecie il giudice di merito ha escluso l’applicabilità della causa di non punibilità prevista dall’art. 131 bis cod. pen., rilevando che solo il caso aveva salvato la mano del lavoratore da più gravi conseguenze rispetto a quelle in concreto subite.
Nell’escludere la causa di non punibilità in questione, la Corte di appello non ha tuttavia svolto una valutazione complessa e congiunta di tutte le peculiarità della fattispecie concreta, mediante l’analisi delle modalità della condotta, del grado dì colpevolezza da esse desumibile e dell’entità del danno o del pericolo e si è limitata a riportare un dato del tutto generico ed apodittico, incorrendo sostanzialmente in una petizione di principio, con necessità di annullamento con rinvio della pertinente sentenza.
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Il 24 settembre esce la sentenza della III sezione della Cassazione penale n.35403, in tema di omessa dichiarazione dei redditi e applicabilità dell’art.131 bis c.p.
Per il Collegio, deve essere ribadito il principio secondo il quale, in tema di omessa presentazione della dichiarazione dei redditi ai fini di evasione delle imposte, la causa di non punibilità prevista dall’art. 131-bis cod. pen. è applicabile laddove la omissione abbia riguardato un ammontare vicinissimo alla soglia di punibilità, fissata ad euro 50.000,00 dall’art. 5 del d.lgs. 10 marzo 2000 n. 74, in ragione del fatto che il grado di offensività che fonda il reato è stato valutato dal legislatore nella determinazione della soglia di rilevanza penale (Sez. 3, n. 16599 del 20/02/2020, Rv. 278946-01; in senso analogo, cfr. Sez. 3, n. 12906 del 13/11/2018, dep. 2019, Rv. 276546 – 01; Sez. 3, n. 40774 del 05/05/2015, Rv. 265079 – 01).
Se è vero che, prosegue il Collegio, come insegna Sez. U, n. 13681 del 25/02/2016, Tushaj, Rv. 266590-01, ai fini della configurabilità della causa dì esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, prevista dall’art. 131 bis cod. pen., il giudizio sulla tenuità richiede una valutazione complessa e congiunta di tutte le peculiarità della fattispecie concreta, che tenga conto, ai sensi dell’art. 133, primo comma, cod. pen., delle modalità della condotta, del grado di colpevolezza da esse desumibile e dell’entità del danno o del pericolo, è altrettanto vero che, come spiegato in motivazione, «quanto più ci si allontana dal valore-soglia tanto più è verosimile che ci si trovi in presenza di un fatto non specialmente esiguo»; ne ha tratto argomento Sez. 3, n. 15020 del 22/01/2019, Rv. 275931 – 01, per affermare che, in tema di reati tributari caratterizzati dalla soglia di punibilità, già solo il superamento in misura significativa di detta soglia preclude la configurabilità della causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, laddove, invece, se tale superamento è di poco superiore, può procedersi a valutare i restanti parametri afferenti la condotta nella relativa interezza.
Nel caso di specie, conclude la Corte, l’imposta evasa è superiore al quintuplo della soglia di punibilità con conseguente evidente inqualificabilità del danno come esiguo.
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Il 28 settembre esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.35630 che si sofferma sui rapporti tra continuazione e fatto di lieve entità.
Il tema d’indagine, precisa infatti in incipit la Corte, è costituito nel caso di specie esclusivamente dalla possibilità di applicare l’art. 131-bis cod. pen. in caso di reiterazione delle condotte illecite.
Il primo comma dell’art. 55-quinquies d.lgs. n. 165 del 2001 recita: “Fermo quanto previsto dal codice penale, il lavoratore dipendente di una pubblica amministrazione che attesta falsamente la propria presenza in servizio, mediante l’alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza o con altre modalità fraudolente, ovvero giustifica l’assenza dal servizio mediante una certificazione medica falsa o falsamente attestante uno stato di malattia e’ punito con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa da euro 400 ad euro 1.600. La medesima pena si applica al medico e a chiunque altro concorre nella commissione del delitto“.
Si tratta – rammenta la Corte – di un reato istantaneo che si consuma anche con una sola infrazione. Nel caso in esame, sono state accertate dodici violazioni della norma in quattro mesi. Secondo il GUP di Livorno, per quanto la condotta si sia protratta in varie circostanze, non pare caratterizzata da abitualità, non riguardando tutti i giorni in cui è durata l’osservazione. Secondo l’accusa, invece, il reato si è caratterizzato per il compimento di plurime condotte, ciò che esclude l’applicazione dell’art. 131-bis cod. pen.
Sul punto, va per il Collegio richiamata la nozione di comportamento abituale secondo il terzo comma, a tenore del quale è comportamento abituale anche quello di chi commette più reati della stessa indole, anche se ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di particolare tenuità, nonché quello di chi commette reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate.
Secondo la difesa dell’imputata, invece, l’art. 131-bis cod. pen. si può applicare anche in caso di reati legati dal vincolo della continuazione, allorché le azioni illecite siano commesse nelle medesime circostanze di tempo e di luogo e nei confronti della medesima persona. La difesa ha osservato che le condotte erano state commesse nel periodo di gestione del ripristino del territorio livornese nel periodo immediatamente successivo all’alluvione del settembre 2017 da persona incensurata, stimata dal superiore gerarchico, in un lasso di tempo risibile se confrontato con i 39 anni di servizio presso il Comune.
Osserva il Collegio che, dopo un’iniziale attitudine rigorista nell’applicazione della norma introdotta dall’art. 1, comma 2, d.lgs. n. 28 del 2015, si sta consolidando un orientamento favorevole all’applicabilità dell’art. 131-bis cod. pen. anche al reato continuato. Si vedano, ad esempio, tra le più recenti, Cass., Sez. 5, n. 30434 del 13/07/2020, Innocenti, Rv. 279748; Sez. 2, n. 11591 del 27/1/2020, T., Rv. 278830-01; Sez. 4, n. 10111 del 13/11/2019, (dep. 2020), De Angelis, Rv. 278642-01; Sez. 2, n. 42579 del 10/9/2019, D’Ambrosio, Rv. 277928-01; Sez. 4, n. 4649 dell’11/12/2018, Xhafa, Rv. 274959-01; Sez. 4, n. 47772 del 25/09/2018, Bommartini, Rv. 274430-01; Sez. 2, n. 41011 del 6/6/2018, Ba Elhadji, Rv. 274260 -01; Sez. 5, n. 32626 del 26/03/2018, P., Rv. 274491-01; Sez. 2, n. 9495 del 7/2/2018, Grasso, Rv.272523-01; Sez. 5, n. 5358 del 15/1/2018, Corradini, Rv. 272109-01.
Per tale orientamento, chiosa ancora la Corte, il solo fatto che il reato, per il quale si chiede l’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, sia stato posto in continuazione con altri non è di ostacolo, in astratto, all’operatività dell’istituto occorrendo valutare, in concreto, se “il fatto” nella relativa globalità, avuto riguardo alla natura degli illeciti unificati, alle modalità esecutive della condotta, all’intensità dell’elemento psicologico, al numero delle disposizioni di legge violate, agli interessi tutelati, sia meritevole di un apprezzamento in termini di speciale tenuità.
Si è anche affermato che non assume rilievo la circostanza che siano state violate, con la medesima azione, più volte, la stessa ovvero più norme ed anche che le violazioni siano avvenute con distinte azioni, ma nelle stesse circostanze di tempo e di luogo, in quanto in tale caso la volontà criminosa è stata sostanzialmente unica e può non essere incompatibile con il concetto di estemporaneità dell’azione illecita rispetto alla personalità del reo.
In particolare, soggiunge ancora il Collegio, è stato evidenziato che la logica antinomia tra reato continuato e particolare tenuità del fatto è rilevabile solo nel caso in cui le violazioni espressione del medesimo disegno criminoso siano in numero tale da costituire di per sé espressione di una certa serialità nel delinquere ovvero di una progressione criminosa, indicative di una particolare intensità del dolo o della versatilità offensiva tali da porre in evidenza un insanabile contrasto con il giudizio di particolare tenuità dell’offesa in tal modo arrecata (così, Sez. 4, n. 10111 del 2019, De Angelis, cit.).
Secondo la sentenza Sez. 3, n. 16502 del 20/11/2018, dep. 2019, Pintilie e altri, non massimata, il legislatore – rammenta la Corte – ha utilizzato precisi aggettivi riferiti alle condotte – plurime, abituali, reiterate – con un ben chiaro spettro semantico: reiterata è la condotta ripetuta nel tempo con identiche modalità fenomeniche; abituale è quella che, non essendo episodica, si segnali per una certa metodicità; plurima è quella che, anche sotto diverse guise, intervenga un considerevole numero di volte, come indicato nella sentenza a Sezioni Unite n. 13681 del 25/2/2016, Tushaj, Rv. 266591-01.
E’ stato inoltre osservato nella sentenza Sez. 5, n. 32626 del 2018, cit. che l’adesione alla diversa opzione interpretativa, che esclude in radice l’applicabilità del beneficio all’ipotesi di reato continuato, appare distonica rispetto alla stessa sistematica sanzionatoria di cui costituiscono espressione le disposizioni di cui all’art. 81 cod. pen., giacché pregiudicherebbe l’imputato che, pur beneficiando del regime di favore previsto dall’art. 81 cod. pen., non può accedere alla suddetta causa di non punibilità.
Essa, inoltre, comporta un’ingiustificabile disparità di trattamento con la figura del concorso formale tra reati, prevista sempre nell’art. 81, al primo comma, nel qual caso, nonostante la pluralità di illeciti commessi unificati quoad poenam, parrebbe potersi consentire l’eventuale applicabilità delle disposizioni di cui all’art. 131-bis cod. pen. in quanto il concorso formale è caratterizzato da una unicità di azione od omissione che rende “impossibile collocarlo tra le ipotesi di «condotte plurime, abituali e reiterate» menzionate dal terzo comma dell’art. 131-bis cod.” (così in motivazione, Sez. 3, n. 47039 del 08/10/2015, P.M. in proc. Derossi, Rv. 265448).
Si è osservato, a tal proposito, che il legislatore, per molti versi considera le due figure in modo identico al fine di mitigare il cumulo materiale delle pene “trattandosi di più reati espressione di una spinta unitaria a delinquere, ritenuta di minor allarme rispetto ad una reiterazione delittuosa che trovi rinnovate e autonome causali nell’agente” (così Sez. 2, n. 9495 del 2018, Grasso).
Si è anche affermato che l’obiettivo di deflazione processuale perseguito dal legislatore del 2015 verrebbe sostanzialmente frustato nel caso in cui si escludesse automaticamente la possibilità di declaratoria della causa di non punibilità (Sez. 2, n. 41011 del 2018, cit.)
Alcune delle sentenze citate, riprende il Collegio, che ritengono la compatibilità dell’art. 131- bis cod. pen. con il reato continuato, escludono tuttavia l’applicabilità della causa di non punibilità quando si tratti di continuazione diacronica, allorché i reati siano stati commessi in momenti spazio-temporali diversi, nel qual caso la volizione criminosa non appare unitaria e circoscritta (così, Sez. 4, n. 47772 del 2018, Bommartini, cit.; Sez. 5, n. 5358 del 2018, Corradini, cit).
Il Collegio assume a questo punto di aderire all’orientamento maggioritario che si sta consolidando con il correttivo ultimo citato e osserva che, nella specie, le condotte sono state reiterate, cioè ripetute nel tempo con identiche modalità fenomeniche, ma in un arco temporale rilevante e quindi e non commesse nello stesso contesto temporale, con conseguente non corretta l’applicazione dell’art. 131-bis cod. pen.
Questioni intriganti
Quale è la disciplina del c.d. reato impossibile e cosa ne compendia il rilievo sistematico maggiore?
- si tratta di una disciplina dettata dal codice penale, e dunque a livello di legge ordinaria, che palesa l’attenzione dello stesso Legislatore ordinario (oltre che di quello costituzionale) per il c.d. principio di offensività del reato;
- stando all’art.49, comma 2, c.p., la punibilità va esclusa quando per la inidoneità dell’azione o per l’inesistenza dell’oggetto di essa, è “impossibile” quell’”evento dannoso o pericoloso” che costituisce il fatto inadempimento reato;
- in una prima fase soprattutto la dottrina ha interpretato il ridetto art.49, comma 2, c.p. come il “doppio negativo” dell’art.56, comma 1, c.p., dacché il reato è “impossibile” quando lo stesso tentativo è “inidoneo”, con conseguente non punibilità e possibile applicazione della sola misura di sicurezza (c.d. quasi reato: art.49, comma 4, c.p.);
- non è mancato tuttavia chi ha fatto notare come la confermata, reale identità tra le due disposizioni finirebbe, dal punto di vista sistematico almeno quanto letterale: d.1) col far affiorare una singolare anomalia onde nel codice penale il presunto “doppione negativo” (art.49) si situa prima ancora della “positiva norma base” (art.56); d.2) col rendere applicabile alla contravvenzione “impossibile” una misura di sicurezza (l’art.49, comma 2, si riferisce infatti ai “reati” e, dunque, tanto ai delitti quanto alle contravvenzioni), al contempo assumendo non punibile il tentativo di contravvenzione (l’art.56 si riferisce ai soli delitti, e non anche alle contravvenzioni); d.3) coll’irragionevolmente sovrapporre una norma che parla di “atti” (l’art.56 c.p.) con un’altra che parla invece di “azione” (l’art.49 c.p.), laddove il Legislatore – divaricando piuttosto le 2 fattispecie – avrebbe riferito il tentativo ex art.56 c.p. a tipologie comportamentali “atipiche” e tali da non integrare (ancora) gli estremi della corrispondente, astratta fattispecie penalmente rilevante a titolo di consumazione (con riferimento ad un “evento”, ivi tout court mentovato, da intendersi in ottica schiettamente naturalistica), avvincendo invece il c.d. reato impossibile ex art.49 c.p. ad un fatto “tipico” e “astratto” compiutamente realizzato in concreto, ma inoffensivo rispetto all’interesse giuridicamente protetto dalla corrispondente norma penale (con riferimento ad un evento, non a caso corredato dai predicati di “dannoso o pericoloso”, da assumersi in senso piuttosto “giuridico”, quale offesa all’interesse penalmente presidiato);
- anche se si prescinde dalla artificiosa distinzione tra evento naturalistico ed evento giuridico – dacché anche nel tentativo ciò che rileva è sempre comunque, “giuridicamente”, l’attentato all’interesse, appunto “giuridico”, che la norma penale intende proteggere – resta comunque la ragionevole e credibile autonomia, tanto strutturale, quanto funzionale e prima ancora concettuale, del reato impossibile ex art.49 c.p., da un lato, e del tentativo ex art.56 c.p., dall’altro;
- proprio dalla raggiunta consapevolezza dell’autonomia tra le due fattispecie è alfine affiorata la c.d. “concezione realistica del reato”, alla cui stregua proprio la disciplina del reato impossibile di cui all’art.49, comma 2, c.p. starebbe a dimostrare che anche un fatto del tutto riconducibile al “tipo” previsto dal legislatore penale può rivelarsi in concreto inoffensivo rispetto appunto all’interesse giuridicamente rilevante siccome penalmente presidiato;
- in sostanza, il giudice penale è chiamato sempre a verificare se – accertata la corrispondenza tra il fatto concreto ad esso sottoposto e la pertinente fattispecie astratta – il fatto concreto sia realmente capace di offendere l’interesse giuridicamente protetto ridetto; una impostazione che, secondo i critici della “concezione realistica”, finirebbe con l’autorizzare una divaricazione dal principio di legalità e, in particolare, dal principio della riserva di legge, dacché un giudice – a parole soggetto solo alla legge – dovrebbe, a fini punitivi, utilizzare canoni c.d. “extranormativi” con carattere tutt’affatto esorbitante rispetto alla naturale, comprensibile “praticità” dell’azione giurisprudenziale (comunque sempre in qualche modo capace di adattarsi alle nuove necessità e dinamiche sociali, politiche e culturali;);
- non è mancato chi ha cercato una soluzione equilibrata capace in qualche modo di conciliare il principio di legalità con la c.d. concezione realistica del reato; ciò valorizzando in particolare il concetto di “interesse offeso”, che il giudice non può ritrarre in modo generico da non meglio precisati valori morali o sociali, dovendo piuttosto rintracciarlo, quale elemento “tipico”, all’interno della fattispecie di volta in volta scandagliata; si è parlato in proposito, in luogo del “fatto tipico”, del c.d. “fatto offensivo tipizzato”, onde è dalla stessa tipicità astratta del fatto inadempimento reato che va ritratta l’offesa quale pertinente elemento costitutivo, espresso o implicito; muovendo allora dal principio di offensività nella relativa declinazione costituzionale, l’art.49 c.p. non farebbe che confermare, in questo prisma ermeneutico, la necessità di interpretare in chiave per l’appunto “offensiva” le fattispecie in cui questa si delinea anche solo come elemento implicito: quando tuttavia il Legislatore abbia delineato fattispecie che si sottraggono a qualunque metro, per l’appunto, di offensività (difettando una qualunque offesa, anche solo implicita, ad interessi giuridicamente rilevanti), sarebbe impossibile per l’interprete – secondo questa tesi – invocarne una dimensione lesiva “che non c’è”, potendo il giudice penale solo rimettere alla Corte costituzionale per l’eventuale, conseguente declaratoria di frizione con la Carta;
- che il principio di offensività sia stato dal Legislatore recepito anche a livello di legge ordinaria affiora anche dall’art.115 c.p., laddove l’accordo o l’istigazione funzionali ad un reato poi non commesso si assumono non punibili, onde occorre che l’interesse protetto dalla sanzione penale sia stato realmente offeso, non essendo sufficiente la mera intenzione, poi non tradottasi in atto, di offenderlo (cogitationis poenam nemo patitur); anche nella fattispecie di cui all’art.115 c.p., come in quella di cui al precedente art.49, è possibile venga applicata una misura di sicurezza, avvinta alla pericolosità sociale di chi ha palesato intenzioni criminali senza in ogni caso realizzarle (c.d. quasi-reato);
- altri settori nei quali è in qualche modo affiorato il canone dell’offensività e, con esso, la pertinente sensibilità via via palesata dal Legislatore ordinario, sono quelli, stavolta di ascendenza processuale, del c.d. rito minorile (quand’anche in un contesto disciplinare complessivo nel quale campeggia in primo piano la sottrazione del minore al circuito carcerario ed il relativo anelito di risocializzazione), al cospetto di un “fatto tenue” che ne costituisce dunque un – seppur rilevante – presupposto di applicazione, e del c.d. “rito bagatellare”; ciò attraverso due disposizioni di non semplice coordinamento tra loro, e segnatamente: j.1) l’art.27 del d.p.r. 448.88, dedicato al processo minorile, nella versione risultante dalla modifica di cui alla legge n.123.92; j.2) l’art.34 del decreto legislativo 274.00, recante norme sulla competenza penale del Giudice di Pace.
Quali sono le novità introdotte dal decreto legislativo 28.15 in tema di particolare tenuità del fatto?
- viene inserito nel codice penale – ad opera dell’art.28 del decreto – un nuovo art.131 bis, rubricato “esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto”;
- la norma – ai sensi del comma 1 – si applica in primis, quanto al mero crinale sanzionatorio, ai soli reati – consumati o, secondo l’interpretazione più accreditata, anche solo tentati – per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel massimo a 5 anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena detentiva (infraquinquennale); la Corte costituzionale, nell’inerzia del Legislatore, ha tuttavia precisato nel 2020 che l’art.131 bis c.p. è applicabile anche quando il Legislatore non abbia previsto un minimo di pena detentiva, dacché – scattando in questi casi l’applicazione residuale dell’art.23 c.p. (che prevede un minimo di 15 giorni di detenzione) – non può per la Corte escludersi in senso assoluto il venire in essere di una condotta concreta “ad offensività tenue”, quand’anche il massimo edittale astratto di cui alla pertinente fattispecie superi i 5 anni di pena detentiva (come accade nel caso dell’art.648, comma 2, c.p. in tema di ricettazione);
- occorre poi che l’offesa sia stata “particolarmente tenue” e – congiuntamente – che il comportamento criminoso del soggetto agente non possa assumersi “abituale”;
- si tratta di requisiti da scandagliare alla luce della modalità della condotta tenuta dal soggetto agente e della esiguità del danno o del pericolo prodotto con la condotta criminosa, secondo il parametri di cui all’art.133, comma 1, c.p.; poiché quest’ultima norma fa riferimento all’intensità del dolo e al grado della colpa, la tenuità del fatto va valutata dal giudice considerando il fatto inadempimento reato nella pertinente consistenza globale, ivi compreso l’elemento soggettivo che lo connota (oltre, ovviamente, alla condotta e al danno o pericolo prodotto all’interesse giuridico penalmente tutelato), circostanza peculiarmente rilevante nelle fattispecie in cui campeggino soglie di punibilità, siccome all’uopo fissate dal Legislatore;
- l’offesa non è certamente tenue, per valutazione ex lege (comma 2), quando l’autore ha agito per motivi abietti o futili, o con crudeltà, anche in danno di animali, ovvero ha adoperato sevizie o, ancora, ha approfittato delle condizioni di minorata difesa della vittima, anche in riferimento all’età della stessa, ovvero quando la condotta del soggetto attivo ha cagionato – o da essa sono derivate, quali conseguenze non volute – la morte o le lesioni gravissime di una persona; in questi casi non si applica dunque l’art.131 bis c.p.;
- ^la condotta è poi abituale, del pari con valutazione “ostativa” ex lege (comma 3), quando è stata dichiarata la professionalità o la abitualità nel reato del soggetto attivo, ovvero quando questi abbia commesso reati della stessa indole, seppure ciascuno, isolatamente considerato, sia di particolare tenuità, ovvero ancora nel caso di reati commessi con condotte plurime, reiterate e abituali; anche in questi casi non si applica l’art.131 bis c.p. (con profili di problematicità al cospetto di fattispecie di continuazione criminosa).
Quale è la ratio del nuovo art.131 bis c.p.e come si rapporta al c.d. reato impossibile?
- sul crinale della pertinente ratio, l’art.131 bis c.p., siccome introdotto nel 2015, ne presenterebbe sostanzialmente due: a.1) lato sostanziale: muovendo dal canone della proporzionalità della pena, allorché un fatto inadempimento reato – pur tipico, antigiuridico ed offensivo – presenti una offensività di carattere marginale, residuale o comunque minimo, occorre consentire al giudice penale di disporre la concreta non punibilità del reo; a.2) lato processuale: occorre procedere (peraltro, già in fase predibattimentale) alla deflazione del contenzioso penale e scongiurare che il rilievo attribuito anche a fatti pur penalmente rilevanti, ma connotati da tutt’affatto peculiare tenuità dell’offesa concretamente arrecata all’interesse giuridico protetto, finisca col congestionare il processo penale;
- se dunque nel reato impossibile ex art.49, comma 2, c.p. è impossibile – per inidoneità dell’azione o inesistenza del pertinente oggetto – la stessa offesa all’interesse giuridicamente protetto e penalmente sanzionato (in sostanza, non c’è offesa), nella diversa ipotesi di cui all’art.131 bis c.p. il fatto è penalmente rilevante perché tipico, antigiuridico ed offensivo, ma l’offensività si presenta talmente marginale da consentire al giudice di disporre la non punibilità del reo (in sostanza, c’è offesa accertata, ma essa è in concreto così tenue da giustificare l’esclusione della sanzione penale);
- peraltro, prima dell’introduzione nel sistema dell’art.131 bis non hanno fatto difetto casi nei quali, pur avendo il giudice penale riscontrato una qualche offesa all’interesse giuridico penalmente sanzionato, egli ha comunque fatto applicazione dell’art.49, comma 2, c.p. sul c.d. reato impossibile; ne consegue un novello, sostanziale restringimento dell’area di operatività dell’art.49, comma 2, c.p. proprio a beneficio del neointrodotto art.131 bis c.p., con riferimento ai ridetti casi in cui l’offesa c’è, ma si presenta tutt’affatto tenue (allora si applicava l’art.49, oggi il nuovo art.131 bis); proprio questa considerazione ha tuttavia portato acuta dottrina a far notare come la deflazione processuale fatta uscire dalla porta potrebbe, per paradosso, rientrare dalla finestra, dacché mentre l’art.49, comma 2, c.p. (un tempo operativo anche con riguardo a fatti con offesa tenue) esclude in radice la punibilità secondo uno schema applicativo immediato, il nuovo art.131 bis presuppone – a fini applicativi concreti – l’accertamento di requisiti molteplici come, oltre alla necessaria compatibilità con la forbice edittale (non si applica ai reati con prevista reclusione ultraquinquennale), la c.d. “non abitualità” della condotta del reo; su opposto versante, non del tutto razionale appare poi l’applicazione di una misura di sicurezza in casi di totale inoffensività (art.49, comma 2, c.p.: quasi reato) e la non applicazione della medesima al cospetto di fatti offensivi, ma tenui (art.131 bis c.p.).
Quale è la natura giuridica del “fatto tenue” di cui al nuovo art.131 bis c.p. e quali ne sono le ricadute di “diritto intertemporale”?
- il c.d. “fatto tenue”, quale causa di non punibilità di cui al nuovo art.131 bis c.p. presenta una natura giuridica controversa;
- secondo una prima presa di posizione, minoritaria, si tratterebbe di un istituto di natura processuale, rilevando più in specie, e più precisamente, quale “condizione di procedibilità”;
- stando ad una seconda opzione ermeneutica, ormai maggioritaria, si sarebbe invece al cospetto di un istituto di natura sostanziale, al cospetto del quale: c.1) secondo una prima tesi, minoritaria, ad essere esclusa è la stessa configurabilità di un fatto inadempimento reato; c.2) secondo una diversa tesi, maggioritaria e confermata dalle SSUU del 2016, ad essere esclusa è la punibilità in senso stretto, e dunque la pena: si tratta di un fatto tipico, antigiuridico, colpevole ed offensivo, e dunque di un vero e proprio fatto inadempimento reato, che presenta tuttavia una peculiare tenuità dell’offesa recata all’interesse penalmente sanzionato, onde ragioni di opportunità politico-criminale, proprio quelle che in genere sorreggono le cause di non punibilità in senso stretto, fondano l’art.131 bis c.p. e consentono al giudice penale di non irrogare al reo la sanzione pertinente (la Relazione allo schema di decreto legislativo richiama in proposito i “principi generalissimi di proporzione e di economia processuale”);
- che si tratti di un istituto di natura “sostanziale”, quand’anche con rilevanti effetti (deflattivi) pure processuali, lo si ricava da una serie di indici sintomatici: d.1) indice letterale: l’art.131 bis c.p. fa riferimento, tanto nella rubrica quanto nel pertinente testo, alla “non punibilità”, essendo stato esso peraltro inserito nel Titolo V del Libro I del codice concernente la modificazione, applicazione ed esecuzione della pena e che dunque riguarda un fatto inadempimento reato accertato in relazione al quale operano, ormai ex post e a titolo meramente punitivo, valutazioni rimesse al giudice penale; ancora, il nuovo art.651 bis c.p.p. conferisce alla sentenza che proscioglie per fatto lieve in seguito a dibattimento efficacia di giudicato quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della relativa illiceità penale ed all’affermazione che l’imputato lo ha commesso, nell’eventuale giudizio civile o amministrativo per le restituzioni e il risarcimento del danno; d.2) indice sistematico: la Relazione allo schema di decreto legislativo si sofferma più volte sulla circostanza onde si è al cospetto di un istituto che presuppone la commissione di un reato, con incidenza sulla sola, pertinente punibilità;
- sul crinale del c.d. diritto intertemporale, proprio la natura sostanziale della novella ex art.131 bis c.p., in quanto più favorevole al reo, va assunta per la giurisprudenza applicabile retroattivamente ai fatti commessi prima dell’entrata in vigore della ridetta novella codicistica;
- più complessa la riconoscibilità nella novella del 2015 di una vera e propria abolitio criminis per i fatti pregressi, con conseguente possibilità per il giudice di revocare, ex art.2, comma 2, c.p. e 673 c.p.p., un giudicato di condanna anteriore all’entrata in vigore dell’art.131 bis c.p.; la giurisprudenza, anche delle SSUU, si è espressa piuttosto in termini di successione modificativa di norme penali, con conseguente applicazione dell’art.2, comma 4, c.p., senza coerente possibilità di travolgere i pregressi giudicati; parte della dottrina ha tuttavia criticato tale presa di posizione pretoria evidenziandone l’irragionevolezza laddove esclude che il giudicato venga travolto a seguito di una novella che elide tout court la punibilità per i “fatti tenui” al cospetto dell’art.2, comma 3, c.p. che, all’opposto, ammette i ridetto travolgimento del giudicato laddove ad una pena detentiva sia sostituita da un’altra pena, di natura pecuniaria.
Come si coordina il nuovo art.131 bis c.p. con la commissione di reati permanenti e di reati c.d. “continuati”?
- occorre muovere dalla circostanza onde requisito indispensabile per l’applicabilità dell’art.131 bis c.p. e la non abitualità della condotta, con la conseguenza per cui esso non è applicabile, per converso, ai reati “abituali”;
- il reato si considera ex professo “abituale” ai sensi e per gli effetti dell’art.131 bis, comma 3, c.p., in tre distinti ordini di casi: b.1) è stata dichiarata nei confronti del soggetto attivo del reato la abitualità nel reato, la professionalità nel reato o la tendenza a delinquere; b.2) il soggetto attivo ha commesso più reati della stessa indole (e, dunque, con caratteri fondamentali comuni), quand’anche ciascuno, isolatamente considerato, sia di particolare tenuità; b.3) il soggetto attivo commette un reato avente ad oggetto condotte plurime, abituali o reiterate;
- proprio la connotazione tipicamente “temporale” del requisito della “non abitualità” – che ha fatto dire alle SSUU nel 2019 come l’archiviazione per “fatto tenue” sia iscrivibile nel casellario giudiziale, ancorché con effetti limitati al pertinente “sottosistema” e con il fine di consentire al giudice penale, de futuro, valutazioni ostative di “abitualità” – ha posto la questione dell’applicabilità dell’art.131 bis c.p., che è norma pro reo, ad altre fattispecie “diacronicamente orientate” e, segnatamente, al reato permanente e a quello “continuato” (o meglio, alla continuazione tra reati);
- con riguardo al reato permanente, occorre – con la dottrina – identificarne preliminarmente la natura, questione con riguardo alla quale si giustappongono fondamentalmente due tesi, cui corrispondono due differenti risposte alla domanda sull’applicabilità dell’art.131 bis c.p.: d.1) si è al cospetto di un’unica condotta a carattere diacronicamente persistente, quand’anche compendiantesi in più atti: da questo punto di vista, l’art.131 bis c.p. resta pienamente applicabile, o comunque non potrebbe escludersene a priori l’applicabilità, proprio perché la condotta è comunque una e una sola; d.2) si è al cospetto, in ottica bifasica, per lo meno di due condotte, una prima attiva che instaura la situazione antigiuridica penalmente sanzionata, e una seconda omissiva che non la interrompe e comunque non la fa cessare: proprio la pluralità delle condotte fa dubitare maggiormente ai propugnatori di questa tesi dell’applicabilità dell’art.131 bis c.p.;
- con riguardo al reato “continuato”, o meglio alla continuazione tra reati, tanto la dottrina quanto la giurisprudenza si sono divise declinando 3 diverse opzioni ermeneutiche: e.1) tesi restrittiva: il fatto che la continuazione tra reati si compendi strutturalmente in una reiterazione di condotte penalmente rilevanti, tradendo una devianza non occasionale, è già di per sé sufficiente ad escluderne la compatibilità con l’art.131 bis, comma 3, c.p., alla cui stregua il fatto non è mai tenue se la condotta criminosa è “abituale”; e.2) tesi ampliativa: il reato continuato risponde ad una ratio “premiale” siccome scolpita all’art.81, comma 2, c.p., onde appare contraddittorio negare – in astratto e senza possibilità alcuna di deroga – al soggetto attivo della fattispecie criminosa l’applicabilità di un istituto del pari pro reo quale appunto l’art.131 bis c.p., peraltro frustrando l’obiettivo di deflazione processuale ad un tempo perseguito dal legislatore penale del 2015; più coerente con il sistema appare piuttosto lasciare al giudice, in concreto e con riguardo dunque a ciascuna singola fattispecie, la valutazione in ordine all’applicabilità o meno del “fatto tenue”, laddove il soggetto attivo ne sia “meritevole” sulla scorta dei due indici cardine della modalità della condotta spiegata e dell’esiguità del danno o del pericolo cagionato, siccome soppesati con l’incidenza della continuazione in tutti i pertinenti aspetti (gravità del reato, capacità a delinquere, precedenti penali e giudiziari, durata temporale della violazione, numero delle disposizioni di legge violate, effetti della condotta antecedente contemporanea o susseguente al reato, interessi lesi e/o perseguiti dal reo, motivazioni – anche indirette – sottese alla propria condotta); e.3) tesi mediana: la compatibilità tra reato continuato e fatto di lieve entità ex art.131 bis c.p. va valutata dal giudice in concreto e non in astratto, e tuttavia sulla scorta di parametri assai stringenti, imperniantisi sulla stretta contestualità di tempo e di luogo del disegno criminoso, e dei fatti di reato che lo compendiano.
Come si coordina il nuovo art.131 bis c.p. con la commissione di reati in relazione alla cui punibilità sono previste delle “soglie”?
- per taluni fatti criminosi, come noto, il Legislatore subordina la rilevanza penale della condotta al superamento di determinate soglie di punibilità, espresse con valori quantitativo-numerici; è il caso, esemplificativamente, della guida in stato di ebbrezza ex articoli 186 e 186 bis del codice della strada (decreto legislativo 285.92); di molti dei reati codificati dalla riforma del diritto penale tributario (decreto legislativo 74.00); di taluni reati che incriminano condotte in materia ambientale, come nel caso dello scarico di acque reflue industriali ex art.137 del codice ambientale (decreto legislativo 152.06); di certune fattispecie che incriminano l’omesso versamento di ritenute previdenziali e assistenziali (decreto legislativo 8.16);
- si tratta in questi casi di capire se e come è applicabile l’art.131 bis c.p. sul c.d. “fatto tenue”, questione in ordine alla quale si contendono il campo più opzioni ermeneutiche;
- stando ad una prima tesi, più rigorosa, oltre la soglia di punibilità la fattispecie criminosa è senz’altro offensiva, la soglia medesima compendiando il limite oltre il quale, per precisa scelta legislativa in astratto ed ex ante, si consuma appunto l’offesa all’interesse giuridico penalmente sanzionato; assumere applicabile l’art.131 bis oltre soglia significherebbe allora autorizzare la sostituzione della valutazione operata ex post ed in concreto (calibrandola sulla singola fattispecie criminosa) dal giudice penale ad una opposta valutazione (in termini di sicura offensività) operata ex ante ed in astratto dal Legislatore penale; si aggiunge che – essendo sovente previste, per i casi sottosoglia, sanzioni amministrative – ammettere l’applicabilità dell’art.131 bis c.p. per i casi soprasoglia compendierebbe, irragionevolmente, trattare con maggior rigore i casi sottosoglia (ai quali certamente si applica la sanzione amministrativa) da quelli – più gravi – soprasoglia, che potrebbero veder dichiarata la non punibilità dal giudice penale;
- secondo un diverso orientamento, maggiormente garantista, le soglie di punibilità compendiano una presunzione di offensività ex lege stabilita che, nondimeno, continua ad operare su un piano astratto, non potendosi dunque assumere a priori incompatibile con una parallela valutazione in concreto da parte del giudice penale, con conseguente, possibile applicazione dell’art.131 bis c.p. a fattispecie sopra-soglia, massime quando lo scostamento si atteggi, in concreto, come di minima entità; si tratta di un orientamento alfine abbracciato dalle SSUU del 2016, che distinguono il “fatto tipico”, appannaggio ex ante e in astratto del Legislatore, dal “fatto storico”, appannaggio ex post e in concreto dal giudice sul crinale della eventuale, tenue offensività che lo caratterizza nel singolo caso di specie.
Il nuovo art.131 bis c.p. è applicabile anche nel processo di competenza del Giudice di Pace?
- quando, sul versante processuale, il fatto criminoso è affidato alla competenza del Giudice di Pace, da anni ormai vige l’art.34 del decreto legislativo 274.00; da prima dunque dell’ingresso nell’ordinamento dell’art.131 bis c.p.;
- la norma parla, a livello di rubrica, di una causa di esclusione della procedibilità, ponendosi dunque, ed appunto, su un crinale strettamente processuale;
- più nel dettaglio, il Giudice di Pace può non procedere dopo aver dichiarato la particolare tenuità del fatto criminoso, sempre che l’imputato o la persona offesa non vi si oppongano;
- ciò quando, rispetto all’interesse giuridicamente tutelato, l’esiguità del danno o del pericolo che ne è derivato e la pertinente occasionalità, nonché il grado della colpevolezza non giustificano l’esercizio dell’azione penale;
- il tutto tenuto conto, altresì, del pregiudizio che l’ulteriore corso del procedimento può recare alle esigenze di lavoro, di studio, di famiglia o di salute della persona sottoposta ad indagini o dell’imputato;
- ci si chiede se, per i fatti criminosi in relazione ai quali sia già applicabile l’art.34 del decreto legislativo 274.00, possa assumersi applicabile anche l’art.131 bis c.p., fronteggiandosi sul punto, come sovente accade, più opzioni ermeneutiche;
- un primo orientamento, rimasto minoritario, predica l’applicazione anche dell’art.131 bis c.p. pur nei processi appannaggio del Giudice di Pace, quale norma sopravvenuta più favorevole al reo rispetto all’art.34 del decreto legislativo 274.00; stando a questa prospettiva, sarebbe già di per sé logicamente irragionevole (oltre che potenzialmente in frizione con l’art.3 Cost.) pensare di non applicare la disciplina del “fatto tenue” in un processo, quello dinanzi al Giudice di Pace, che per primo ha visto il Legislatore introdurre il pertinente istituto e che si riferisce peraltro a fattispecie criminose meno gravi di quelle giudicate da autorità giudiziarie “superiori”; vale inoltre considerare la “generalità” che caratterizza il nuovo art.131 bis c.p., tale da prescindere dalla competenza processuale del singolo giudice chiamato ad applicarlo; ciò, a fortiori, laddove si consideri come si sia al cospetto di un ius superveniens più favorevole al soggetto attivo per il relativo afferire alla sola “offesa” all’interesse giuridico penalmente presidiato, e non già all’intero “fatto” come accade invece sotto l’usbergo precettivo dell’art.34 del decreto legislativo 274.00, che peraltro prevedrebbe condizioni di applicazione maggiormente stringenti rispetto a quelle capaci di far scattare l’art.131 bis c.p.; proprio quest’ultima considerazione, incentrandosi sulla (anche se solo parziale) convergenza (e sovrapponibilità) delle situazioni disciplinate dalle due (distinte fattispecie), spingerebbe nel senso della operatività dello stesso principio di specialità ex art.15 c.p., con possibile abrogazione dell’art.34 del decreto legislativo 274.00 da parte dell’art.131 bis c.p. o, in ogni caso, di giustificata “convivenza” e “co-operabilità” tra le due norme; quanto infine ai lavori preparatori, che hanno assunto rimanere vigenti entrambe le norme, si ventila l’eccesso di delega laddove si sostiene che giammai il Parlamento (delegante) avrebbe autorizzato il Governo (delegato) a prevedere – come invece ha poi in qualche modo fatto – una disciplina di coordinamento tra di due istituti; ancora, si osserva come l’art.131 bis c.p. venga assunto generalmente applicabile anche nei confronti di imputati minorenni, quantunque campeggi l’art.27 del D.p.R. 488.88 che, in quel particolare processo, autorizza il giudice ad emanare sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto tenue ed occasionale;
- un secondo orientamento – pur muovendo dal fatto che in entrambi i casi si è al cospetto di una valutazione “in concreto” affidata al giudice penale – si esprime in senso negativo quanto all’applicabilità dell’art.131 bis anche al processo di competenza del Giudice di Pace; e ciò sulla scorta delle seguenti, divaricanti ragioni: h.1) l’art.34 del decreto legislativo 274.00 compendia una (processuale) causa di “non procedibilità” senza limiti edittali, riservata ai fatti di competenza del Giudice di Pace, palesandosi dunque permeata dalla finalità “conciliativa” tipica di quel processo; la norma richiede al giudice penale una valutazione congiunta di tutti gli indici che essa elenca, ovvero l’esiguità del danno inferto o del pericolo creato, l’occasionalità del fatto, il grado di colpevolezza del soggetto agente, in una con lo scandaglio del pregiudizio che la prosecuzione del processo potrebbe sortire per le esigenze di vita (lavoro, studio, salute) del soggetto agente ridetto, con correlata ponderazione dell’istanza punitiva con i pertinenti interessi individuali; la natura conciliativa tipica del processo innanzi al Giudice di Pace, ed i connotati semplificati del pertinente rito, giustificano poi la facoltà del soggetto offeso di opporsi, con effetti inibitori, alla declaratoria di non procedibilità; h.2) l’art.131 bis c.p. si atteggia invece a (sostanziale) causa di non punibilità, applicabile solo in presenza di reati puniti con pena detentiva massima non superiore a 5 anni; si è al cospetto di un complesso sindacato in ordine alla particolare tenuità del fatto ed alla non abitualità della condotta del soggetto agente, scandaglio che si affida al giudice penale imperniandolo sulle modalità della condotta tenuta e sulla marginalità del danno o del pericolo arrecato, secondo lo schema di cui all’art.133 c.p., con elementi ostativi riconducibili ex lege, assieme, in positivo, all’abitualità del comportamento del soggetto agente (siccome talvolta ex lege presunta: comma 3) e, in negativo, alla non tenuità dell’offesa perpetrata dal soggetto agente (talvolta ex lege stabilita: comma 2); inoltre, l’eventuale dissenso delle parti processuali – soggetto agente (in veste di sottoposto a indagini o imputato), da un lato; parte offesa, dall’altro – affiorano come del tutto irrilevanti, non potendo massime quest’ultima (la parte offesa) opporsi alla declaratoria di non punibilità per “fatto tenue” siccome deliberata dal giudice penale, fatto salvo il solo caso dell’art.469, comma 1 bis, c.p.p. (che, in tema di proscioglimento predibattimentale, prevede appunto che la sentenza di non doversi procedere sia pronunciata anche quando l’imputato non è punibile ai sensi dell’articolo 131 bis del codice penale, previa tuttavia l’audizione in camera di consiglio anche della persona offesa, se compare). Si tratta dell’orientamento maggioritario, alfine abbracciato anche dalle SSUU del 2017, che precisano come – stante proprio l’incompatibilità tra le due distinte discipline – non potrebbe in alcun modo predicarsi l’abrogazione dell’art.34 del decreto legislativo 274.00 ad opera della successiva introduzione dell’art.131 bis c.p. nel 2015 (circostanza che affiora peraltro dagli stessi lavori preparatori del decreto legislativo 28.15, alla cui stregua vanno assunte vigenti entrambe le norme), con conseguente prevalenza del principio della riserva di codice ex art.16 c.p. – laddove prevede l’applicabilità del codice penale solo se le diverse leggi penali non “dispongano altrimenti” (e che scatta in presenza di meri rapporti di “interferenza”, ma non di “specialità”, tra le diverse discipline a confronto, come accade appunto nel caso di specie) – su quello, “abrogativo” e cronologico, che normalmente presidia la successione di leggi (anche penali: lex posterior derogat priori), ovvero su quello (del pari abrogativo) di “specialità pura” in astratto, siccome scolpito all’art.15 c.p. ed alla cui stregua l’applicazione della normativa speciale esclude l’operatività di quella generale.
Cosa occorre rammentare dei rapporti tra l’art.131 bis c.p. e la fattispecie della ricettazione ex art.648 c.p.?
- occorre muovere dalla circostanza onde l’operatività dell’art.131 bis c.p. è ab origine condizionata – tra l’altro – al limite edittale previsto per il reato commesso, pari a 5 anni di pena detentiva, non potendosi dunque applicare ai crimini per i quali sia prevista una pena massima detentiva ultraquinquennale;
- in presenza di questa “dirimente”, l’applicazione dell’art.131 bis scatta anche laddove siano previste, con riguardo al reato per il quale si procede, circostanze attenuanti fondate sulla particolare tenuità del danno o del pericolo arrecato all’interesse giuridico penalmente presidiato;
- ai fini del calcolo del limite edittale infraquinquennale ridetto, nella determinazione della pena detentiva massima di 5 anni si deve tenere conto (art.131 bis, comma 4) delle sole circostanze autonome e ad effetto speciale siccome operanti nel singolo caso concreto (non rilevando per giunta in alcun modo pro reo – in presenza delle ridette circostanze, e laddove aggravanti – l’eventuale giudizio di bilanciamento con elementi circostanziali di natura attenuante, ai sensi dell’art.69 c.p.);
- ora, se si porge il fuoco dell’attenzione sulla ricettazione, ci si avvede che la pertinente fattispecie attenuata (art.648, comma 2, c.p.), configurando una circostanza attenuate speciale o ad effetto speciale (che peraltro riproduce l’attenuante “comune” di cui all’art.62, n.4, c.p.), commina proprio per i casi di particolare tenuità la (assai elevata) pena della reclusione fino a 6 anni, facendo scattare irrimediabilmente l’inapplicabilità dell’art.131 bis c.p., con disposizione che è stata tacciata di incostituzionalità per sostanziale irragionevolezza e frizione con gli articoli 3,13, 25 e 27 Cost.;
- nel 2017 la Corte costituzionale ha, nondimeno, rappresentato di non poter intervenire direttamente su di una materia appannaggio del Legislatore alla cui iniquità si potrebbe porre agevolmente riparo attraverso la previsione, nel contesto letterale dell’art.131 bis c.p., di una soglia di pena minima al di sotto della quale poter considerare “comunque” il fatto come “particolarmente tenue”; l’inerzia “post-monito” del Legislatore ha tuttavia sospinto il Giudice delle Leggi ad un nuovo intervento nel 2020, ed oggi l’art.131 bis sul c.d. “fatto tenue” è applicabile anche a fattispecie che superino, nel massimo, la soglia quinquennale, laddove il Legislatore medesimo non abbia (contestualmente) previsto un minimo di pena detentiva e si applichi, pertanto, il limite minimo generale di 15 giorni previsto dall’art.23 c.p.
Cosa occorre rammentare dei rapporti tra l’art.131 bis c.p. e la c.d. responsabilità degli enti?
- occorre muovere dalla c.d. responsabilità amministrativa da reato degli enti di cui al decreto legislativo 231.01, per un approfondimento in ordine alla quale si rinvia all’apposito CRONOPERCORSO;
- nel caso in cui la persona fisica che ha commesso un presunto reato abbia agito nell’interesse o a vantaggio dell’ente e sia stata successivamente assolta per “fatto tenue”, il problema è capire se di tale assoluzione possa giovarsi l’ente di riferimento;
- sul punto, la giurisprudenza si è pronunciata in senso negativo, muovendo dalla considerazione onde il “fatto tenue” è comunque un fatto inadempimento reato accertato come tale, seppure dall’offesa, per l’appunto, tenue e, come tale, senza conseguenze sanzionatorie penali, facendo luogo ad una “responsabilità senza condanna”, come dimostra l’iscrizione nel certificato del casellario giudiziale e la rilevanza di giudicato nei giudizi civile e amministrativo ex art.651 bis c.p.p.; una conferma della tesi negativa si rinverrebbe anche nell’art.8 del decreto legislativo 231.01, laddove viene confermata la responsabilità dell’ente ancorché il fatto criminoso commesso dalla persona fisica si sia estinto per cause diverse dall’amnistia, apparendo irragionevole assumere per l’appunto responsabile l’ente in ipotesi di reato estinto e negare, ad un tempo, tale responsabilità in ipotesi di reato accertato e solo non punito perché “tenue”;
- riguardo a quest’ultima considerazione non sono tuttavia mancate voci critiche in quella dottrina che ha ventilato una inammissibile applicazione analogica contra reum dell’art.8 del decreto legislativo 231.01 ridetto ad ipotesi da esso non contemplata – ovvero la causa di non punibilità ex art.131.bis c.p. – trattandosi di una disposizione che esplicitamente si riferisce alle cause di estinzione del reato (escludendo peraltro l’amnistia).