Corte di Cassazione, V Sezione Penale, sentenza 16 marzo 2022, n. 8973
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE (sintesi massimata)
- Il ricorso è nel suo complesso infondato.
- Il primo articolato motivo, concernente la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, è complessivamente infondato.
2.1. Giova premettere che i titoli in relazione ai quali è stata emessa la misura cautelare oggetto di impugnazione riguardano i gravi episodi di violenza e sopraffazione compiuti il 6 aprile 2020 ai danni dei detenuti ristretti nel reparto (OMISSIS) del carcere di Santa Maria Capua Vetere, e le condotte vessatorie, di falsificazione di atti pubblici e di depistaggio delle indagini commesse nei giorni immediatamente successivi.
Secondo quanto accertato sulla base delle immagini acquisite dal sistema di videosorveglianza del carcere, nonchè dalle chat tra gli agenti di polizia penitenziaria e dalle dichiarazioni dei detenuti, il pomeriggio del 6 aprile 2020, tra ore 15.30 e le 19.30, all’interno del reparto (OMISSIS) del carcere di S. Maria Capua Vetere, numerosi agenti di Polizia Penitenziaria – giunti anche dalle carceri di Secondigliano e di Avellino – hanno esercitato una violenza cieca ai danni di detenuti che, in piccoli gruppi o singolarmente, si muovevano in esecuzione degli ordini di spostarsi, di inginocchiarsi, di mettersi con la faccia al muro; i detenuti, costretti ad attraversare il c.d. “corridoio umano” (la fila di agenti che impone ai detenuti il passaggio e nel contempo li picchia), venivano colpiti violentemente con i m., o con calci, schiaffi e pugni; violenza che veniva esercitata addirittura su uomini immobilizzati, o affetti da patologie ed aiutati negli spostamenti da altri detenuti, e addirittura non deambulanti, e perciò costretti su una sedia a rotelle. Oltre alle violenze, venivano imposte umiliazioni degradanti – far bere l’acqua prelevata dal water, sputi, ecc. -, che inducevano nei detenuti reazioni emotive particolarmente intense, come il pianto, il tremore, lo svenimento, l’incontinenza urinaria.
Dopo le quattro ore di “mattanza”, le sofferenze fisiche e psicologiche venivano perpetrate anche nei giorni immediatamente successivi, in particolare nei confronti dei quattordici detenuti trasferiti dal reparto (OMISSIS) al reparto (OMISSIS) – perchè ritenuti ispiratori della protesta del 5 aprile -, costretti senza cibo, e, per 5 giorni, senza biancheria da letto e da bagno, senza ricambio di biancheria personale, senza possibilità di fare colloqui con i familiari; tant’è che alcuni detenuti indossavano ancora la maglietta sporca di sangue, e, per il freddo patito di notte, per la mancanza di coperte e di indumenti, erano stati costretti a dormire abbracciati; anche ai detenuti rimasti al reparto (OMISSIS) veniva riservato un trattamento degradante, addirittura con la imposizione, volutamente mortificante della capacità di autodeterminazione, del taglio della barba, secondo quanto orgogliosamente rivendicato dal comandante C. in uno dei messaggi inviati sulla chat del gruppo di agenti di Polizia penitenziaria.
Significativo risulta l’audio, rinvenuto nel telefono di Me.Sa., contenente il racconto fatto da un detenuto ad un familiare, secondo cui: “non possiamo parlare, non possiamo scrivere, non possiamo fare nulla, ci hanno tolto tutti i diritti, non esistiamo più, non siamo più detenuti ma prigionieri, una bella differenza”.
Lungi dall’essere un evento eccezionale, determinato dalla pretesa reazione dei detenuti ovvero dalla situazione di tensione determinatasi a causa dell’emergenza pandemica, la fase organizzativa e le reali motivazioni dell’operazione, definita “perquisizione straordinaria” – in quanto formalmente finalizzata alla ricerca di strumenti di offesa occultati dai detenuti, all’indomani della protesta realizzata dai detenuti del reparto (OMISSIS) la sera del 5 aprile 2020 per sollecitare interventi a tutela della loro salute – sono state rivelate dal contenuto delle chat rinvenute nei telefoni degli indagati, e dei messaggi precedenti e successivi alla “mattanza”.
In tale contesto M.G. rivestiva il ruolo di Comandante della Polizia penitenziaria del carcere di Santa Maria Capua Vetere. Con riferimento alla ricostruzione dei fatti rilevanti, nel rinviare alla analitica analisi contenuta nell’ordinanza impugnata (soprattutto alle p. 4-6), va evidenziato che il M., già la sera del 5 aprile, in seguito ai disordini avvenuti in alcune sezioni del reparto (OMISSIS), aveva chiesto al provveditore regionale F.A. l’invio di rinforzi, e l’intervento del “Gruppo di supporto agli interventi” comandato da C.P., nella previsione di un’azione di forza; la sera del 5, tuttavia, in seguito alla cessazione della protesta, M. non autorizzava l’entrata nell’istituto degli agenti esterni; decisione che raccoglieva il malcontento degli agenti di polizia penitenziaria, desiderosi di un’azione di forza esemplare, e le perplessità del C. e del F..
La mattina del 6 aprile F. chiamava M. e gli comunicava la volontà di procedere ad una ‘perquisizione straordinarià, alla quale M. non si opponeva, anzi prospettando il pericolo di nuove proteste; nell’ambito di una fitta comunicazione, mediante messaggi, con il provveditore, M. decideva di estendere la “perquisizione” a tutto il reparto (OMISSIS), e non solo alle due sezioni (la 3 e la 5) resesi protagoniste delle proteste del giorno precedente; decisione che scatenava l’entusiasmo degli agenti di polizia penitenziaria del carcere di SMCV, attestato dagli eloquenti messaggi postati sulla chat di gruppo.
Alle 15.38, nonostante tutti i detenuti fossero rientrati nelle celle, e non si fosse registrata alcuna protesta ulteriore (come comunicato dal M. al F.), nondimeno il Comandante non bloccava la “perquisizione”, confermando anzi l’operazione (“stiamo pianificando l’operazione”); alla 15.59 M. informava la direttrice del carcere che le operazioni stavano per avere inizio (“stiamo per effettuare perquisizione straordinaria”) e alle 16.09 comunicava al F. “utilizziamo anche scudi e manganelli”, avvisandolo anche della necessità di trasferire alcuni detenuti; in successivi messaggi inviati tra le 16.49 e le 16.54 M. confermava che la perquisizione era in corso e che erano impegnati oltre 200 uomini, essendo intervenuti anche quelli del nucleo di Secondigliano; alla 18.33 inviava al F. un messaggio con cui indicava i 15 detenuti da spostare – che verranno poi trasferiti nel reparto (OMISSIS) -, e stilava una relazione, che fotografava e inviava al funzionario del Provveditorato Sanges mediante whatsapp, in cui accusava falsamente i detenuti già segnalati di aver commesso atti di resistenza. Successivamente, al termine delle operazioni, M. ringraziava, con un messaggio inviato alle 22.11 sulla chat “Uniti per S. Maria”, da lui stesso creata come veicolo di rapida comunicazione con il personale alle sue dipendenze, tutti gli agenti che avevano partecipato alla “perquisizione”; analogo ringraziamento indirizzava al F. e al C..
Dalle conversazioni intercettate, intrattenute successivamente alla notizia dell’avvio delle indagini, è emersa altresì la partecipazione alla strategia di depistaggio, con creazione di falsi documenti e manipolazioni di prove, alle quali il Comandante M. ha contribuito, consentendo di far scattare foto di bastoni e pezzi di ferro, da attribuire alla disponibilità dei detenuti asseritamente rivoltosi, e firmando una relazione di servizio, lo stesso 6 aprile, in cui venivano falsamente riferiti i comportamenti aggressivi dei detenuti durante la perquisizione, che avrebbero reso necessario un “contenimento attivo”.
2.2. Tanto premesso quanto alla ricostruzione dei fatti, osserva la Corte, le doglianze del ricorrente consistono nella svalutazione del comportamento tenuto in occasione della “perquisizione straordinaria”, mediante una rilettura del compendio indiziario, non soltanto minata da una evidente parcellizzazione valutativa, ma finalizzata a raffigurare il M., Comandante della Polizia Penitenziaria del carcere di SMCV, come un uomo spogliato di ogni potere decisionale, ed ignaro di ciò che si era programmato e di ciò che si stava compiendo all’interno del “suo” carcere.
Tale lettura alternativa è proposta sulla base di una serie di argomenti M. non partecipò ai pestaggi, restando nel suo ufficio, e non scendendo nel reparto (OMISSIS); era stata disposta una legittima “perquisizione straordinaria”, non già un pestaggio; l’ordine di servizio del 6 aprile 2020 aveva interrotto la catena di comando, attribuendo al Dott. C. la direzione delle operazioni; egli era all’oscuro delle modalità concrete con cui sarebbe stata eseguita la “perquisizione straordinaria”; l’assenza di consapevolezza di tali modalità escluderebbe l’effettività di una posizione di garanzia rilevante ex art. 40 c.p., comma 2, – che, nonostante la mole del ricorso (articolato in ben 40 pagine), appaiono prive di specificità, limitandosi ad affermazioni assertive, reiterative, e, soprattutto, prive di confronto argomentativo con il provvedimento impugnato.
Inoltre, tali doglianze sono eminentemente di fatto, sollecitando, in realtà, una rivalutazione di merito preclusa in sede di legittimità, sulla base di una “rilettura” degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, Dessimone, Rv. 207944); infatti, pur essendo formalmente riferite a vizi riconducibili alle categorie del vizio di motivazione e della violazione di legge, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., sono ictu oculi dirette a richiedere a questa Corte un inammissibile sindacato sul merito delle valutazioni effettuate dal Tribunale (Sez. U, n. 2110 del 23/11/1995, Fachini, Rv. 203767; Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, Dessimone, Rv. 207944; Sez. U, n. 24 del 24/11/1999, Spina, Rv. 214794).
In particolare, va ribadito il consolidato insegnamento di questa Corte secondo cui, in tema di misure cautelari personali, il ricorso per cassazione che deduca insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, o assenza delle esigenze cautelari, è ammissibile solo se denuncia la violazione di specifiche norme di legge o la manifesta illogicità della motivazione del provvedimento, ma non anche quando propone censure che riguardano la ricostruzione dei fatti, o che si risolvono in una diversa valutazione degli elementi esaminati dal giudice di merito (Sez. 2, n. 31553 del 17/05/2017, Paviglianiti, Rv. 270628); in sede di giudizio di legittimità sono rilevabili esclusivamente i vizi argomentativi che incidano sui requisiti minimi di esistenza e di logicità del discorso motivazionale svolto nel provvedimento e non sul contenuto della decisione; sicchè il controllo di logicità deve rimanere all’interno del provvedimento impugnato e non è possibile procedere a una nuova o diversa valutazione degli elementi indizianti o a un diverso esame degli elementi materiali e fattuali delle vicende indagate e, nel ricorso afferente i procedimenti “de libertate”, a una diversa valutazione dello spessore degli indizi e delle esigenze cautelari (Sez. 1, n. 1083 del 20/02/1998, Martorana, Rv. 210019; Sez. 6, n. 49153 del 12/11/2015, Mascolo, Rv. 265244; Sez. U, n. 19 del 25/10/1994, De Lorenzo, Rv. 199391).
Tanto premesso, precisa la Corte, con le censure proposte il ricorrente non lamenta una motivazione mancante, contraddittoria o manifestamente illogica – unici vizi della motivazione proponibili ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. e) -, ma una decisione erronea, in quanto fondata su una valutazione asseritamente sbagliata della sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, in particolare sotto il profilo del ruolo effettivamente assunto dal M. nelle operazioni di c.d. “perquisizione straordinaria”.
Il controllo di legittimità, tuttavia, concerne il rapporto tra motivazione e decisione, non già il rapporto tra prova e decisione; sicchè il ricorso per cassazione che devolva il vizio di motivazione, per essere valutato ammissibile, deve rivolgere le censure nei confronti della motivazione posta a fondamento della decisione, non già nei confronti della valutazione sottesa, che, in quanto riservata al giudice di merito, è estranea al perimetro cognitivo e valutativo della Corte di Cassazione.
Pertanto, nel rammentare che la Corte di Cassazione è giudice della motivazione, non già della decisione, ed esclusa l’ammissibilità di una rivalutazione del merito cautelare, va al contrario evidenziato che l’ordinanza impugnata, come più ampiamente si dirà, ha fornito logica e coerente motivazione in ordine alla ricostruzione dei fatti ed alla affermazione della sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, con argomentazioni prive di illogicità (tantomeno manifeste) e di contraddittorietà.
2.3. Le doglianze, soggiunge la Corte, sono peraltro manifestamente infondate, in quanto, secondo la ricostruzione dei fatti accertata dai giudici del merito cautelare, una serie di significativi elementi – non soltanto rappresentativi, ma anche logici hanno confermato la piena e consapevole partecipazione del M. alle operazioni di “perquisizione straordinaria” del 6 aprile 2020, sfociate in vere e proprie torture, alle successive vessazioni riservate, anche nei giorni successivi, in particolare ai detenuti trasferiti nel reparto (OMISSIS), ed alle operazioni di falsificazione di atti pubblici, calunnia e depistaggio.
In particolare, va al riguardo evidenziato che:
– una volta informato da F. della decisione di eseguire una “perquisizione straordinaria” – che pure non competeva al provveditore, bensì al medesimo Comandante -, M. non sollevò obiezioni, ma rafforzò il proposito del provveditore, prospettando il pericolo di una imminente rivolta, e successivamente decise lui di estendere la perquisizione all’intero reparto (OMISSIS);
– M. partecipò, dirigendola, alla breve riunione organizzativa prima dall’inizio delle operazioni, impartendo indicazioni ai propri subordinati, rassicurandoli che gli “uomini” di C. “sanno cosa fare”, lasciando il comando dei “suoi uomini” (gli agenti del carcere di SMCV) all’ispettrice Co., e consentendo al personale del gruppo di supporto guidato dal C. di operare senza freni;
– già nel corso della riunione preliminare individuò i 14 detenuti da portare via, e che successivamente saranno trasferiti nel reparto (OMISSIS), dove saranno abbandonati per giorni, in stato di degrado fisico ed umano, senza cibo, vestiti e coperte;
– M. era ben consapevole della delicatezza e della eccezionalità dell’operazione, avendo contezza dell’arrivo di oltre 200 colleghi provenienti da Secondigliano e da Avellino armati con scudi e manganelli, e manteneva il potere di farli accedere o meno alla struttura carceraria, tant’è che il giorno precedente non aveva consentito l’accesso;
– M. comunicò al F. l’uso di scudi e manganelli alle 16:09 del 6 aprile 2020;
– successivamente inviò messaggi di ringraziamento al F. e al C., e alle 21:25 rispondeva a tale A., rivendicando “oggi perquisizione e forza”.
Tali elementi sono stati qualificati dal Tribunale in termini di concorso omissivo, ai sensi dell’art. 40 c.p., comma 2, sul rilievo che il Comandante della Polizia penitenziaria del carcere di SMCV avesse il dovere di garantire il rispetto della legalità, e l’obbligo giuridico di impedire gli eventi poi verificatisi. Tale ricostruzione, pur essendo in parte corretta, appare tuttavia parziale, essendo basata sull’elemento – evidentemente frainteso nella sua consistenza dimostrativa – dell’assenza del M. nel reparto (OMISSIS), e della sua mancata partecipazione “fisica”, esecutiva, alle torture inflitte ai detenuti.
Al riguardo, osserva la Corte, va infatti rammentato che il concorso di persone nel reato, proprio in ragione del modello unitario di tipizzazione del fatto di partecipazione adottato dall’art. 110 c.p., è fondato sul modello c.d. di tipizzazione causale, alla stregua del quale tutte le condotte dotate di efficacia eziologica nei confronti dell’evento lesivo sono riconducibili alla fattispecie concorsuale; nell’ambito di tale quadro normativo, dunque, il concorso materiale non può essere limitato – come sembrerebbe dedursi dalla qualificazione del Tribunale – al solo autore, cioè a colui che compie gli atti esecutivi del reato (nella fattispecie, gli atti di vessazione fisica e psicologica), ma è, evidentemente, esteso anche al c.d. ausiliatore (o complice), cioè colui che si limita ad apportare un qualsiasi aiuto materiale nella preparazione o nella esecuzione del reato; ulteriore rilievo assume, peraltro, il determinatore – che fa sorgere in altri un proposito criminoso prima inesistente -, e l’istigatore – che si limita a rafforzare o eccitare in altri un proposito criminoso già esistente -, che integrano la fattispecie del concorso morale.
Tanto premesso, prosegue la Corte, va evidenziato che la mera assenza del M. dal reparto (OMISSIS), e la sua mancata partecipazione agli atti esecutivi di tortura, non priva di rilevanza, sotto il profilo materiale, ma anche morale (di istigazione), il contributo fornito prima (e anche dopo, per occultare il reato) dell’inizio delle operazioni di pestaggio, allorquando: ha chiesto l’intervento del Gruppo di supporto comandato dal C.; ha autorizzato l’ingresso nel carcere di oltre 200 agenti provenienti da altri istituti penitenziari armati di scudi e manganelli; ha comunicato l’uso di scudi e manganelli al F.; ha partecipato e diretto la riunione preliminare organizzativa che ha preceduto l’inizio della “perquisizione straordinaria”, impartendo indicazioni ai propri subordinati, rassicurandoli che gli “uomini” di C. “sanno cosa fare”, lasciando il comando dei “suoi uomini” (gli agenti del carcere di SMCV) all’ispettrice Co., e consentendo al personale del gruppo di supporto guidato dal C. di operare senza freni; già nel corso della riunione preliminare ha individuato i 14 detenuti da portare via, e che successivamente saranno trasferiti nel reparto (OMISSIS), dove saranno abbandonati per giorni, in stato di degrado fisico ed umano, senza cibo, vestiti e coperte.
La versione della inconsapevolezza delle modalità con cui sarebbe stata eseguita la (formalmente legittima) “perquisizione straordinaria” – che avrebbe altresì privato l’indagato della concreta posizione di garanzia – è stata correttamente ritenuta inverosimile dal Tribunale, che, con apprezzamento di fatto immune da censure di illogicità, e dunque insindacabile in sede di legittimità, ha evidenziato che M. era ben consapevole della delicatezza e della eccezionalità dell’operazione, avendo contezza dell’arrivo di oltre 200 colleghi provenienti da Secondigliano e da Avellino armati con scudi e manganelli, e manteneva il potere di farli accedere o meno alla struttura carceraria, tant’è che il giorno precedente non aveva consentito l’accesso, e che la fitta trama di messaggi con F. e con altri dirigenti e/o subordinati consente di escludere che egli fosse ignaro di quanto stava per accadere; del resto, la smentita della versione dell’ormai proverbiale “a sua insaputa” è plasticamente fornita dal messaggio con cui, la sera stessa del 6 aprile, rispondeva ad un messaggio, con l’icastica espressione “oggi perquisizione e forza”.
2.4. Le doglianze con cui il ricorrente contesta la qualificazione giuridica, sotto il profilo della tipicità e del dolo, sono generiche, risolvendosi in assertive deduzioni meramente contestative, prive di concreto confronto con la ricostruzione dei fatti accertata e con il provvedimento impugnato, e manifestamente infondate, nella parte in cui tentano di circoscrivere la consistenza dei fatti ad un evento singolo ed eccezionale, privo del requisito di abitualità.
Al riguardo, è sufficiente rammentare che il delitto di tortura è stato configurato dal legislatore come reato eventualmente abituale, potendo essere integrato da più condotte violente, gravemente minatorie o crudeli, reiterate nel tempo, oppure da un unico atto lesivo dell’incolumità o della libertà individuale e morale della vittima, che però comporti un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona (Sez. 5, n. 47079 del 08/07/2019, R., Rv. 277544, che, in motivazione, ha precisato che per l’integrazione del reato nella sua forma abituale sono sufficienti due condotte, reiterate anche in un minimo lasso temporale); ai fini dell’integrazione del delitto di tortura di cui all’art. 613-bis c.p., comma 1, la locuzione “mediante più condotte” va riferita non solo ad una pluralità di episodi reiterati nel tempo, ma anche ad una pluralità di contegni violenti tenuti nel medesimo contesto cronologico (Sez. 5, n. 50208 del 11/10/2019, S., Rv. 277841).
Peraltro, chiosa ancora la Corte, le condotte di tortura risultano non essersi fermate a quelle inflitte il pomeriggio del 6 aprile, essendo proseguite, con ulteriori vessazioni (in particolare nei confronti dei 14 detenuti trasferiti nel reparto (OMISSIS)), anche nei giorni successivi.
Quanto al dolo, premesso che, in tema di tortura, anche quando il reato assuma forma abituale, per l’integrazione dell’elemento soggettivo non è richiesto un dolo unitario, consistente nella rappresentazione e deliberazione iniziali del complesso delle condotte da realizzare, ma è sufficiente la coscienza e volontà, di volta in volta, delle singole condotte (Sez. 5, n. 4755 del 15/10/2019, dep. 2020, U., Rv. 277856), gli elementi già evidenziati infra p. 2.3. sono esaustivi della piena consapevolezza, da parte del M., della finalità e dei metodi dell’operazione di pestaggio e vessazione che era stata programmata, ed eseguita mentre lui si tratteneva nel proprio ufficio.
2.5. Le doglianze concernenti i gravi indizi di colpevolezza in relazione ai reati di falso, calunnia e depistaggio, sono infondati e generici, nella parte in cui omettono un concreto confronto argomentativo con l’ordinanza impugnata.
La circostanza che M. fosse in congedo il 7 aprile e poi dal 9 al 27 aprile 2020, e che quindi non possa aver sottoscritto le relazioni di servizio del 7 e del 10 aprile oggetto di alcune contestazioni non si confronta, infatti, con il rilievo, pure sottolineato dal Tribunale, che l’indagato ha redatto, lo stesso 6 aprile, la relazione di servizio con cui accusava falsamente i 14 detenuti poi trasferiti al reparto (OMISSIS) dei reati di resistenza e minaccia a p.u., che avrebbe determinato la necessità di un “contenimento attivo”, e che, secondo quanto emerso dalle intercettazioni, anche nei giorni in cui era assente dal servizio interloquiva costantemente con gli agenti che erano stati incaricati di predisporre prove fotografiche e relazioni di servizio false, nell’operazione di depistaggio delle indagini avviata immediatamente dopo la cessazione dell’operazione del 6 aprile; invero, risulta che M. suggeriva in realtà di ridurre al minimo la predisposizione di false prove dirette a simulare il rinvenimento di armi bianchi nei confronti dei detenuti, pur concedendo il “via libera per tutto” (f. 14 dell’ordinanza impugnata).
Dunque, il coinvolgimento nei falsi, nelle calunnie e nel depistaggio è fondato non tanto sulla sottoscrizione delle relazioni, quanto sul coinvolgimento del M. nella predisposizione di false prove, fotografiche e documentali, in merito alla disponibilità di armi improprie da parte dei detenuti.
- Il secondo motivo, con cui si contesta la sussistenza delle esigenze cautelari, è inammissibile sotto diversi profili, perché propone doglianze di fatto, dirette a sollecitare una non consentita rivalutazione del merito, mediante una lettura alternativa del compendio probatorio, oltre che del tutto prive di specificità, omettendo qualsivoglia concreto confronto argomentativo con la motivazione dell’ordinanza impugnata, e con il poderoso materiale indiziario in essa richiamato, e manifestamente infondate.
Preliminarmente va rilevata la non pertinenza delle censure riguardanti il pericolo di inquinamento e la connessa sollecitazione di una diversa misura (sulla base del luogo di residenza dell’indagato e dell’assenza, in esso, di strutture carcerarie), atteso che la motivazione del Tribunale fa riferimento soltanto alle esigenze cautelari del pericolo di reiterazione, e non altresì al pericolo di inquinamento.
Le doglianze con cui si contesta la sussistenza dell’attualità e concretezza delle esigenze cautelari e l’adeguatezza delle misure sono inoltre inammissibili, perché riposano, in realtà, sull’erroneo presupposto che il pericolo di reiterazione di reati della stessa specie coincida con la reiterazione degli stessi fatti-reato contestati nel procedimento, e che, dunque, l’eccezionalità dei fatti, legati alle tensioni derivanti dalla gestione dell’emergenza pandemica, lo stato di incensuratezza, la distanza temporale dai fatti, impedisca al ricorrente la reiterazione dei fatti contestati.
Al riguardo, va infatti ribadito che, in tema di esigenze cautelari, il pericolo di reiterazione di reati della stessa specie non va inteso come pericolo di reiterazione dello stesso fatto reato, atteso che l’oggetto del “periculum” è la reiterazione di astratti reati della stessa specie e non del concreto fatto reato oggetto di contestazione (Sez. 5, n. 70 del 24/09/2018, dep. 2019, Pedato, Rv. 274403 – 02, con riferimento ad una fattispecie relativa al reato di bancarotta fraudolenta, in cui la Corte ha precisato che il pericolo di reiterazione non può essere escluso in assoluto dall’attuale assenza in capo all’indagato di cariche sociali in altre società).
Dunque, soggiunge la Corte, con riferimento al pericolo di recidiva, non va confuso il pericolo di reiterazione di reati della stessa specie, con il pericolo di reiterazione dello stesso fatto-reato, poiché dal tenore dell’art. 274 c.p.p., lett. c), emerge in maniera evidente che l’oggetto del periculum è la reiterazione di astratti reati della stessa specie, non del concreto fatto-reato oggetto di contestazione, che, talvolta, non potrebbe neppure essere naturalisticamente reiterato (come nell’ipotesi di più grave aggressione al bene vita dell’omicidio).
Tanto premesso, l’ordinanza impugnata ha, al contrario, compiutamente evidenziato le circostanze di fatto dalle quali è stato desunto, con apprezzamento di fatto immune da censure, e dunque insindacabile in sede di legittimità, l’attuale e concreto pericolo di reiterazione di reati della stessa specie, desunto da:
– l’esistenza di un vero e proprio “sistema” (denominato, dal Comandante C., “(OMISSIS)”), che priva i fatti del carattere di episodicità ed eccezionalità pure rivendicato dal ricorrente, anche considerando che il “(OMISSIS)” è stato applicato, ricorrendone la necessità, in un diverso carcere rispetto a quello dove è, evidentemente, vigente (quello, appunto, di S. Maria Capua Vetere);
– l’organizzazione, non improvvisata, ma ben rodata, ed attestata dalle chat di gruppo degli agenti, della “chiamata alle armi” di tutti gli agenti di Polizia Penitenziaria, provenienti anche da altre carceri, convocati per “abbattere i vitelli”, dare “tante di quelle mazzate”;
– la perpetrazione di violenti pestaggi e degradanti umiliazioni nei confronti di circa 350 detenuti, “passati e ripassati” con “divertimento” dagli agenti di Polizia penitenziaria, e con cinica soddisfazione per il lavoro “di altissimo livello” fatto, proprio nei confronti di persone che sono affidate alla custodia degli autori;
– la personalità del M., evidenziata anche dall’indifferenza verso la formulazione delle accuse calunniose a carico dei 14 detenuti trasferiti nel reparto (OMISSIS).
Tali elementi sono stati, dunque, posti a fondamento dell’affermazione di sussistenza del pericolo attuale e concreto di reiterazione di reati della stessa specie nei confronti dell’odierno ricorrente. Va aggiunto che il pericolo di reiterazione e l’applicazione della misura domiciliare sono stati fondati anche sulle condotte successive, consistite nelle vessazioni imposte nei giorni successivi ai detenuti (soprattutto a quelli trasferiti nel reparto (OMISSIS)), e nella partecipazione, con ruolo ideativo, alla falsificazione di relazioni di servizio ed al depistaggio delle indagini.
- Il terzo motivo con cui lamenta la sproporzione e l’inadeguatezza della misura cautelare domiciliare è inammissibile, perché, oltre a sollecitare una rivalutazione del merito cautelare, è del tutto generica ed assertiva, nella sua estrema laconicità.
Peraltro, il Tribunale ha espressamente motivato in merito alla inadeguatezza di una misura meno afflittiva, ed in particolare della misura interdittiva, considerando l’estrema gravità dei fatti ed il ruolo primario, organizzativo e decisionale, assunto dal M., non soltanto in relazione ai pestaggi del 6 aprile 2020, ma altresì in relazione alle successive condotte degradanti nei confronti dei detenuti (in particolare, di quelli trasferiti al reparto (OMISSIS), e tenuti come “prigionieri”), nonché alla falsificazione di atti pubblici e al depistaggio delle indagini.
La proporzione e l’adeguatezza della misura domiciliare risultano dunque ben calibrate, nonostante la mitezza della scelta cautelare, sul numero di reati (almeno 43 imputazioni ascritte al M.) e sulla assoluta gravità degli stessi, nonché sulla inidoneità di misure meno afflittive ad elidere il periculum individuato.
- Con una doglianza non meglio precisata nei suoi contorni (anche fattuali) il ricorso sembra altresì contestare l’attualità delle esigenze cautelari, in quanto il ricorrente sarebbe destinatario della sospensione cautelare disciplinare (p. 35 del ricorso).
Il motivo è manifestamente infondato.
Al riguardo, la giurisprudenza di questa Corte ha affermato, con riferimento ai reati contro la P.A., che, anche dopo l’introduzione, nell’art. 274 c.p.p., lett. c), ad opera della L. 16 aprile 2015, n. 47, del requisito dell’attualità del pericolo di reiterazione del reato, il giudice di merito può ritenere sussistente il pericolo di reiterazione di reati della stessa specie ex art. 274 c.p.p., comma 1, lett. c), pure quando il soggetto in posizione di rapporto organico con la P.A. risulti sospeso o dimesso dal servizio, purché fornisca adeguata e logica motivazione in merito alla mancata rilevanza della sopravvenuta sospensione o cessazione del rapporto, con riferimento alle circostanze di fatto che concorrono a evidenziare la probabile rinnovazione di analoghe condotte criminose da parte dell’imputato nella mutata veste di soggetto ormai estraneo all’amministrazione, in situazione, perciò, di concorrente in reato proprio commesso da altri soggetti muniti della qualifica richiesta (Sez. 5, n. 31676 del 04/04/2017 Lonardoni, Rv. 270634; Sez. 6, n. 8060 del 31/01/2019, Romanò, Rv. 275087, con riferimento ad una fattispecie in cui la Corte ha ritenuto che tale pericolo giustificasse l’adozione della misura del divieto temporaneo di esercitare l’attività medica nei confronti di un soggetto sospeso dal servizio, rilevando che, per la risalenza dei rapporti corruttivi, per la rete di collegamenti creata e per lo stretto collegamento esistente tra l’attività professionale privata e quella pubblica, il libero esercizio della prima avrebbe potuto favorire la ripresa dei contatti in ambito imprenditoriale, sanitario e accademico e, pertanto, la reiterazione delle condotte criminose).
Nel caso in esame, osserva la Corte, il principio affermato va calibrato sulla diversa fattispecie di tortura, che, a differenza dei reati “propri” contro la P.A., è un reato comune, così come tutti i reati a base violenta, oggetto del pericolo di reiterazione di reati della stessa specie: mentre con riferimento ai reati propri contro la P.A., ferma la compatibilità tra la sospensione disciplinare e la misura processuale, viene richiesta una motivazione sull’attualità del pericolo di reiterazione di reati della stessa specie, poiché richiedono un rapporto qualificato tra l’autore e il bene giuridico tutelato, una particolare qualifica giuridica in capo al soggetto attivo, con riferimento ai reati comuni, ed in particolare ai reati a base violenta, non viene in rilievo un tale rapporto qualificato, sicché il pericolo di reiterazione di reati della stessa specie non può essere eliso dalla sospensione della qualifica giuridica.
Ne consegue che la sospensione disciplinare non può ritenersi idonea ad elidere il pericolo di reiterazione di reati della stessa specie, innanzitutto per l’interinalità del provvedimento amministrativo, ma altresì per la diversa finalità che ne sottende l’adozione, che, nel caso della sospensione disciplinare da parte dell’autorità amministrativa, è diretta alla salvaguardia di interessi pubblici concernenti il rapporto di servizio con l’amministrazione, mentre nel caso della misura cautelare processuale oggetto di impugnazione concerne la tutela della collettività, con finalità di prevenzione generale (in tema, Sez. 6, n. 3971 del 18/10/1994, dep. 1995, Caneschi, Rv. 200628). Del resto, l’inidoneità della sospensione cautelare disciplinare ad elidere l’attualità del pericolo di recidiva è legata alla già evidenziata erroneità dell’impostazione che confonde il pericolo di reiterazione di reati della stessa specie, con il pericolo di reiterazione dello stesso fatto-reato, poiché dal tenore dell’art. 274 c.p.p., lett. c), emerge in maniera evidente che l’oggetto del periculum è la reiterazione di astratti reati della stessa specie, non del concreto fatto-reato oggetto di contestazione, che, talvolta, non potrebbe neppure essere naturalisticamente reiterato (come nell’ipotesi di più grave aggressione al bene vita dell’omicidio).
- Al rigetto del ricorso consegue la condanna al pagamento delle spese processuali.