Cassazione penale, Sez. V, sentenza 10 settembre 2024, n. 34207
PRINCIPIO DI DIRITTO
Il delitto di tortura previsto dall’art. 613-bis cod. pen. è stato introdotto nell’ordinamento italiano con l’approvazione della legge 14 luglio 2017, n. 110, che ha inteso adempiere – oltre che all’impegno del Costituente a punire ex art. 13, quarto comma, “ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà” – agli obblighi internazionali derivanti dall’adesione dell’Italia alla Convenzione internazionale contro la tortura e le altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti del dicembre 1984 e alla Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo; adempimento che era stato sollecitato dalla Corte EDU nelle sentenze Cestaro C. Italia del 7 aprile 2015 e Bartesaghi, Gallo e altri c. Italia del 22 giugno 2017. La novella ha collocato la previsione incriminatrice in esame tra i delitti contro la libertà individuale e, più precisamente, tra quelli contro la libertà morale, a rimarcare lo specifico bene giuridico tutelato, costituito appunto dalla libertà morale o psichica, intesa come il diritto dell’individuo di autodeterminarsi liberamente, in assenza di coercizioni psichiche. Sul piano strutturale, il delitto in esame è stato costruito dal legislatore italiano come reato comune, con scelta che la dottrina ha talvolta criticato richiamando le differenti indicazioni della giurisprudenza della Corte EDU; un reato che può, dunque, essere commesso da “chiunque”, salva la previsione di una circostanza aggravante nel caso in cui il fatto sia stato posto in essere da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio. Inoltre, la fattispecie in parola si configura come un reato di evento a condotta vincolata eventualmente abituale.
Sul piano della condotta tipica, infatti, quest’ultima deve consistere nella realizzazione di “violenze o minacce”, in entrambi i casi qualificabili come “gravi”, o in comportamenti agiti “con crudeltà”, ossia con un atteggiamento interiore particolarmente riprovevole dell’autore del fatto, il quale intenda determinare nella vittima gratuite sofferenze. Tali condotte devono essere state commesse reiteratamente, nel senso che il fatto deve essere stato realizzato “mediante più condotte”, anche se agite in un minimo lasso temporale; e devono produrre, quale evento tipico, “acute sofferenze fisiche” ovvero “un verificabile trauma psichico” nella persona offesa, che deve essere privata della libertà personale o affidata alla custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza dell’agente o deve, comunque, trovarsi in una condizione di minorata difesa. La condotta può anche essere realizzata uno actu nel caso in cui l’evento sia costituito da “un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona”. Dunque, il delitto in esame, pur essendo funzionale a offrire copertura penale, nell’ordinamento interno, al divieto posto dall’art. 3 della Convenzione EDU, accede a una nozione di tortura più ampia di quella fornita da tale disposizione convenzionale, ricomprendendo anche i trattamenti inumani e degradanti, che la Corte di Strasburgo ha distinto dal concetto di tortura in senso stretto. E coerentemente con questa impostazione, deve ritenersi che rientrino nella fattispecie in esame anche le ipotesi in cui le condotte agite realizzino una mortificazione o un annientamento dei diritti fondamentali che costituiscono il nucleo della dignità della persona, a prescindere dall’aggressione al corpo della persona, quando sia offesa la personalità morale dell’individuo.
Quanto alla “condizione di minorata difesa”, attraverso cui il legislatore ha inteso mutuare le indicazioni della giurisprudenza convenzionale volte a valorizzare la qualità e le condizioni fisiche e psichiche della vittima (come sesso, stato di salute, età), deve ritenersi non necessario che la difesa si presenti impossibile, atteso che la nozione di “minorata” difesa richiama ogni situazione in cui la capacità di resistenza della vittima sia depotenziata, se non annullata, da particolari fattori ambientali, temporali o personali, che invece rafforzino la signoria o il controllo dell’agente sulla vittima.
Con riferimento all’evento tipico, l’inserimento dell’aggettivo “verificabile” all’interno del sintagma “trauma psichico”, lungi dal volere richiamare pleonasticamente l’ovvia necessità di riscontrare un elemento di fattispecie, intende in realtà delimitare i confini della sofferenza psichica alle situazioni oggettivamente riscontrabili, al fine di rendere il più possibile chiara e determinata una nozione che rimanda a un evento “non integrabile” nel sistema psichico pregresso della persona, minacciando di frammentarne la coesione mentale, senza che sia necessario che l’evento critico si traduca in una sindrome di “trauma psicologico strutturato” (PTSD), ben potendo essere sufficiente anche un trauma temporaneo e non inquadrabile in una categoria predefinita, purché, come detto, ancorato a elementi sintomatici ricavabili dalle dichiarazioni della vittima, dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta dell’agente, dalla astratta idoneità di quest’ultima a causare un effetto destabilizzante in una persona comune, avuto riguardo alle effettive condizioni di luogo e di tempo in cui è stata consumata.
Con riferimento, invece, al requisito delle “acute sofferenze fisiche”, la giurisprudenza di legittimità ritiene non necessario che la vittima abbia subito delle lesioni, le quali, ove si verifichino, integrano la circostanza aggravante prevista dall’art. 613-bis , comma quarto, cod. pen.
Quanto, infine, all’elemento soggettivo, la norma non richiede un dolo unitario, costituito dalla rappresentazione e deliberazione iniziali del complesso di condotte da realizzare, essendo invece sufficiente la coscienza e volontà, di volta in volta, delle singole condotte
TESTO RILEVANTE DELLA PRONUNCIA
- Tutti i ricorsi sono inammissibili, fatta eccezione per le censure svolte con il quarto motivo del ricorso di A.A., che devono, invece, ritenersi meritevoli di accoglimento.
- Tutti i ricorsi, pur focalizzandosi su profili differenti, argomentano variamente in ordine all’insussistenza del delitto di tortura contestato ai capi A), B1), D)ed E). In particolare le numerose censure, prospettando la violazione di norme sostanziali e processuali e plurimi vizi motivazionali, attengono alla astratta individuazione degli elementi essenziali della fattispecie incriminatrice (A.A., B.B., C.C.), all’accertamento della concreta sussistenza di taluno di essi (A.A., B.B., C.C., D.D.), alla mancanza dell’elemento soggettivo (A.A., C.C.), all’insussistenza di un contributo concorsuale riferibile allo specifico imputato (D.D.).
- Alla luce delle considerazioni che precedono ritiene il Collegio che le censure articolate con i primi due motivi del ricorso proposto nell’interesse di A.A. siano generiche, aspecifiche e, in ogni caso, manifestamente infondate; e che analogo giudizio debba essere espresso in relazione alle doglianze dedotte in relazione al delitto di tortura con l’unico motivo dei ricorsi di B.B. e di Angelo C.C.
3.1. In particolare, con il secondo motivo del ricorso proposto nell’interesse di A.A. la difesa censura la ritenuta configurabilità del delitto previsto dall’art. 613-bis cod. pen. in relazione a ciascuno degli elementi del fatto materiale tipico e alla sussistenza dell’elemento soggettivo. Con riferimento alle condotte contestate all’imputatosi opina che le sue azioni si sarebbero estrinsecate in un lasso temporale troppo breve, dal dicembre 2019 all’11 gennaio 2021, oltre che in data 16 gennaio 2021; e che le stesse non sarebbero connotate da grave violenza o crudeltà. Tali considerazioni critiche omettono, però, di considerare che secondo il già richiamato orientamento della giurisprudenza di legittimità non è affatto rilevante, ai fini dell’integrazione del delitto in esame, che le condotte siano state poste in essere in un arco temporale limitato, essendo sufficiente che esse siano state semplicemente reiterate. Fermo restando, e il rilievo assume carattere assorbente, che nel caso in esame il periodo indicato non poteva, comunque, ritenersi “assai breve”, come, invece, opinato in ricorso.
3.2. Quanto al requisito della “minorata difesa”, l’impugnazione deduce che esso costituirebbe un elemento accidentale del reato, sicché l’art. 3 Cost. non consentirebbe di elevarlo a elemento costitutivo. Inoltre, esso sarebbe stato accertato, nella specie, sulla scorta delle mere percezioni delle vittime, portatrici di interessi economici all’affermazione di responsabilità dell’imputato, non potendo riconoscersi rilevanza, sul piano logico, allo status di invalido civile riconosciuto a H.H. e a E.E. da parte deIl’ INPS.
3.3. A questo riguardo, con il secondo motivo di impugnazione, la difesa di A.A. lamenta, altresì, l’illegittimo rigetto della richiesta di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale finalizzata all’esperimento di una perizia medicolegale al fine di verificare le condizioni psicofisiche delle persone offese, E.E. e H.H., ricostruite a partire da circostanze di fatto prive di una effettiva capacità descrittiva, c o m e l’uso di tranquillanti o il riconoscimento della qualità di invalido civile. Il mancato approfondimento della condizione delle persone offese avrebbe inciso sulla completezza della motivazione e integrerebbe una violazione dell’art. 603, comma 1, cod. proc. pen., posto che il Giudice di appello sarebbe stato impossibilitato a decidere allo stato degli atti, in presenza di dati probatori contraddittori o, comunque, incerti.
3.4. Analoghe censure vengono svolte con l’unico motivo del ricorso proposto nell’interesse di B.B., ove si è evidenziato come già con i motivi di appello fosse stata formulata istanza di riapertura dell’istruttoria dibattimentale al fine di accertare le effettive condizioni psicofisiche e lo status di disabile attribuito alle persone offese.
3.5. Richiamate le considerazioni già svolte in ordine al significato che tale requisito di fattispecie assume nella giurisprudenza di legittimità, deve osservarsi che le sentenze di merito hanno adeguatamente esplicitato le circostanze di fatto indicative di una condizione di ridotta capacità di reazione delle vittime a fronte delle condotte gravemente vessatorie degli imputati, avuto riguardo sia al riconoscimento dello status di invalido civile legato alla particolare situazione psichica riscontrata a carico di ciascuna delle persone offese, sia a quanto chiaramente evincibile dalle peculiari condizioni personali di esse, addirittura oggetto di videoriprese da parte degli imputati. Del tutto assertiva, dunque, è la ribadita affermazione delle difese circa l’insufficienza di tali indicatori ai fini della dimostrazione della particolare condizione soggettiva di E.E., H.H., I.I. e K.K. Così come apodittica è la censura relativa alla mancata rinnovazione dell’istruttoria in appello, rispetto alla quale la Corte territoriale, alla pago 19 della sentenza di appello, ha fornito una motivazione del tutto adeguata, anche tenuto conto che, in primo grado, il giudizio era stato celebrato nelle forme del rito abbreviato e che, in tali casi, la rinnovazione istruttoria è ammessa esclusivamente ai sensi dell’art. 603, comma 3, cod. proc. pen. e, quindi, solo nel caso in cui il giudice ritenga l’assunzione della prova assolutamente necessaria, perché potenzialmente idonea ad incidere sulla valutazione del complesso degli elementi acquisiti (ex plurimis Sez. 1, n. 12928 del 7-11-2018, dep. 2019, P., Rv. 276318 -02). I Giudici di appello, invero, hanno sottolineato la superfluità dell’integrazione probatoria richiesta, tenuto conto dell’accertata situazione di deficit mentale di H.H. (che nella sentenza di primo grado è indicato come affetto anche da gravi disturbi del comportamento e da crisi epilettiche con frequenza plurisettimanale), della condizione di disagio psichico sia di I.I., invalido civile e paziente del Centro di salute mentale, sia di E.E. Una motivazione con la quale gli odierni ricorsi non si sono adeguatamente confrontati, in particolare per quanto concerne la pacifica circostanza, nel contesto di riferimento, della condizione di marginalità e di disagio psico-sociale delle persone offese e per quanto attiene il richiamo delle due sentenze di merito al contenuto delle videoriprese, che rappresentavano icasticamente la condizione di sostanziale incapacità delle vittime di difendersi dalle angherie cui erano state sottoposte. Ne consegue che le odierne impugnazioni devono ritenersi, sul punto, del tutto aspecifiche.
3.6. Manifestamente infondata, ancora, è l’argomentazione difensiva svolta nel ricorso proposto nell’interesse di A.A. con riferimento alla nozione di “trattamento inumano e degradante”, in relazione alla quale sembra opinarsene l’estraneità rispetto alla nozione di tortura ricava bile dall’art. 3 della Convenzione EDU. In realtà, la decisione del legislatore italiano di estendere, come più sopra ricordato, l’area della tutela penale anche a condotte connotate da una minore gravità rispetto ai fatti di tortura strettamente intesi costituisce una scelta di politica criminale niente affatto irragionevole e, come tale, sottratta a qualunque possibilità di sindacato costituzionale. 3.4. Aspecifica, poi, è la censura con cui la difesa di A.A. deduce che della “causazione di acuta sofferenza fisica o psichica” in capo alle vittime non vi sarebbe alcuna prova, essendosi il Giudice di merito limitato a valutare le condizioni di salute delle persone offese esclusivamente sulla scorta delle loro dichiarazioni. E ad analoga valutazione si espone l’unico motivo del ricorso proposto nell’interesse di B.B. con cui la difesa sostiene, quanto all’episodio del 17 gennaio 2017, che la certificazione medica avrebbe riportato soltanto una prognosi di giorni 10 per “algia da contusione nella regione occipitale”, sì da non integrare il requisito di fattispecie in parola. In entrambi i casi, infatti, le doglianze difensive si limitano a generiche deduzioni fattuali, che lungi dal prospettare vizi della motivazione, propongono inammissibili tentativi di rilettura del materiale probatorio e, in particolare, non consentite sovrapposizioni di apprezzamenti valutativi sull’intensità delle sofferenze causate alle persone offese, che i Giudici di merito hanno potuto riscontrare, oltre che d a i racconti degli interessati, dalla crudezza delle immagini cui hanno avuto accesso nel corso dell’istruttoria.
3.7. Inammissibili sono, infine, le doglianze svolte con riferimento all’elemento soggettivo. Quanto al ricorso proposto nell’interesse di A.A. si opina che l’imputato non sarebbe stato mosso dalla volontà di recare sofferenze e traumi gravi alla vittima, ma solo dall’intento di deriderla, pubblicando i relativi video sui socia-; mentre con l’unico motivo del ricorso proposto nell’interesse di B.B. si deduce che l’imputato non avrebbe inteso causare sofferenze alla vittima, né soddisfare presunti istinti sadici e che avrebbe voluto realizzare uno spiacevole gioco poi degenerato, cui egli non avrebbe nemmeno partecipato sino in fondo, secondo quanto attestato dalla stessa persona offesa. E’, tuttavia, evidente che anche in tali casi le argomentazioni difensive hanno una natura fattuale, muovendo da una ricostruzione alternativa delle vicende processuali, senza in alcun modo confrontarsi con l’ampia e congrua motivazione delle due sentenze di merito, destinate a integrarsi reciprocamente. Peraltro, quanto al delitto contestato al capo A), che l’imputato perseguisse finalità ludiche, traendo una qualche forma di divertimento dall’infliggere umiliazioni e sofferenze alla persona offesa, in evidenti difficoltà nel difendersi, non escluderebbe, in ogni caso, il dolo generico richiesto dalla fattispecie incriminatrice, posto che tali finalità apparterrebbero all’area dei motivi a delinquere e non certo dell’elemento soggettivo del delitto in contestazione. Quanto al delitto contestato al capo E), la Corte territoriale si è in ogni caso confrontata con la tesi difensiva, sottolineando come la versione dello stesso K.K., secondo cui l’episodio andava considerato come un semplice scherzo, trovasse una netta smentita nelle immagini del video n. 9 che lo ritraevano mentre, legato a una poltrona all’internodi una stalla, urlava chiedendo di essere liberato, nonché nelle dichiarazioni del padre della vittima, L.L., secondo cui il figlio era stato preso di mira da persone che lo schernivano e lo picchiavano, sicché il figlio, in totale stato di soggezione, aveva palesato un forte stato di timore, rinunciando a sporgere denuncia. E in questo modo, la Corte territoriale ha implicitamente disatteso le dichiarazioni dei testi difensivi circa il fraterno rapporto tra C.C. e K.K., senza incorrere nei lamentati vizi di motivazione.
3.8. Aspecifiche sono, infine, anche le argomentazioni svolte nell’unico motivo del ricorso proposto nell’interesse di C.C., ove si deduce, anche in relazione all’episodio contestatogli (al capo E), che l’imputato avrebbe inteso mettere in scena uno scherzo, come tale percepito dalla stessa persona offesa, la quale non avrebbe avuto alcuna paura o timore per la propria incolumità, come confermato dall’interessato davanti al Pubblico ministero e come riscontrato sia dalle immagini acquisite, sia dalle testimonianze di M.M., di N.N. e di O.O., che avrebbero riferito degli ottimi rapporti tra C.C. e K.K. e le cui dichiarazioni sarebbero state illegittimamente e illogicamente pretermesse dai Giudici di merito in occasione della valutazione del materiale probatorio. Né la vittima si sarebbe trovata in una condizione di minorata difesa, essendo una persona che viveva da sola, capace di autodeterminarsi benché affetta da un lieve ritardo mentale, che in passato “aveva avuto due bar” e che, in aula, era parsa tranquilla. Quanto alle condotte ascritte all’imputato, il ricorso opina che esse non supererebbero la soglia minima di gravità; mentre quanto alla crudeltà, nel caso in esame vi sarebbe stato soltanto un bambino che aveva colpito la vittima con un bastone, ma non con veemenza, quanto per impedirle di liberarsi. Né vi sarebbe stato alcun trattamento inumano e degradante, non essendovi stata una mortificazione o un annientamento di diritti fondamentali della persona, né un verificabile trauma psichico, avendo lo stesso K.K. parlato di una “babbiata”, cioè di uno scherzo, in relazione all’episodio per cui è processo. Anche in questo caso, invero, il ricorso sostanzialmente ripropone la tesi difensiva già affacciata in sede di merito, senza però confrontarsi con l’ampia motivazione della sentenza impugnata e, in particolare, con la totalità degli elementi di fatto in essa valutati, sollecitando un confronto soltanto parziale con il contenuto delle prove, dalle quali intenderebbe trarre differenti esiti valutativi, anziché contrastare la logicità e coerenza del complessivo ordito motivazionale, fondato su una equilibrata valutazione dell’intero compendio, arricchito da riscontri finanche fotografici, che ha fatto emergere come l’azione dell’imputato e dei suoi complici fosse volta a cagionare una gratuita sofferenza ai danni di una vittima indifesa.
- Manifestamente infondato, aspecifico e in ogni caso non consentito dalla legge processuale è il terzo motivo del ricorso proposto nell’interesse di A.A., con il quale la difesa censura la ritenuta configurabilità del delitto di violazione di domicilio contemplato dall’art. 614 cod. pen., commesso in data 10 gennaio 2021. Aspecifica, invero, è l’affermazione difensiva secondo cui la decisione si sarebbe fondata unicamente sulle dichiarazioni della persona offesa, alla quale verrebbe riconosciuta credibilità nonostante l’assenza di prove certe. Infatti, la sentenza impugnata ha individuato, quali elementi rilevanti del ragionamento probatorio, non soltanto le dichiarazioni rese da E.E. in sede di incidente probatorio e nella denuncia da lui sporta ai Carabinieri della Stazione di L, ma anche il video n. 7, che tali dichiarazioni ha riscontrato. Quanto alla possibilità, in tesi destinata a inficiare la attendibilità della persona offesa, che in considerazione della pregressa conoscenza tra l’imputato e E.E., quest’ultimo abbia volontariamente aperto la porta della propria abitazione, la censura finisce per risolversi nella formulazione di congetturali spiegazioni alternative, certamente non consentite in sede di legittimità. Quanto, infine, al rilievo difensivo secondo cui i Giudici di merito avrebbero omesso di valutare le condotte ascrivibili a ciascun imputato, la circostanza che essi fossero tutti entrati nell’abitazione di E.E., rompendo i vetri del balcone del primo piano e approfittando del fatto che la persona offesa dormisse, consente di ritenere integrata la condotta tipica da parte di ciascuno di essi, di tal che la relativa deduzione appare del tutto generica, oltre che manifestamente infondata.
- Fondato è, invece, il quarto motivo di doglianza, con cui il ricorso deduce la inosservanza o erronea applicazione dell’art. 38, R.D. n. 773 del 1931 e dell’art. 697 cod. pen., nonché la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione nella parte in cui ha ritenuto integrato il reato di detenzione di armi a partire dal rinvenimento, nel domicilio, di tre coltelli a serramanico e di un tirapugni metallico. Nessun dubbio, in primo luogo, può fondatamente ipotizzarsi in relazione alla qualificazione giuridica dei coltelli e del tirapugni. Per quanto concerne i primi, è consolidato, nella giurisprudenza di legittimità, l’orientamento secondo il quale il comune coltello a serramanico (Cioè l’utensile dotato di lama pieghevole nella cavità dell’impugnatura la quale, così, funge anche da guaina) costituisce strumento da punta e-o da taglio ovverosia arma impropria; mentre è arma propria (bianca), la cui detenzione e il cui porto abusivo sono puniti, rispettivamente, ai sensi degli artt. 697 e 699 cod. pen., quella particolare specie di coltello in relazione alla presenza o all’assenza della punta acuta e della lama a due tagli (Sez. 1, n. 19927 del 9-04- 2014, Teti, Rv. 259539 -01; Sez. 1, n. 10979 del 3-12-2014, dep. 2015, Campo, Rv. 262867 -01; Sez. 1, n. 17255 del 1-04-2019, Naccarato, Rv. 275252 -01). Viceversa, quanto al tirapugni metallico, esso costituisce un’arma propria cd. bianca, non avendo altra funzione che quella di incrementare la potenzialità lesiva dell’azione violenta perpetrata a mezzo di esso (Sez. 1, n. 23840 del 13-01-2021, Brassi, Rv. 281398 -01). Ne consegue, che mentre per quest’ultimo la detenzione e il porto ingiustificato integrano, rispettivamente, le contravvenzioni previste dagli artt. 697 e 699 cod. pen., per i coltelli a serramanico, con lama pieghevole azionabile con manovra manuale, non rientrando essi tra le armi proprie, ma tra quelle improprie, la mera detenzione non può ritenersi rilevante ai sensi dell’art. 697 cod. pen., venendo in rilievo unicamente il porto fuori dell’abitazione non sorretto da giustificato motivo, secondo quanto stabilito dall’art. 4, terzo comma, legge 18 aprile 1975, n. 110 (Sez. 1, n. 7404 del 31-01-1978, De Rossi, Rv. 139340 -01; Sez. 1, n. 10832 del 23-10-1984, Angileri, Rv. 166960 -01; Sez. 1, n. 7011 del 19-05-1993, Arditi, Rv. 195502 -01; Sez. 1, n. 392 dell’l-12-1999, dep. 2000, Sannibale, Rv. 215145 -01; Sez. 1, n. 37080 dell’ll10-2011, Scarcella, Rv. 250817 -01; Sez. 1, n. 46264 dell’8-11-2012, Visendi, Rv. 253968 -01; Sez. 1, n. 15945 del 21-03-2013, Cancellieri, Rv. 255640 -01). Ne consegue, pertanto, che in relazione alla detenzione dei tre coltelli a serramanico da parte di A.A. deve pronunciarsi l’annullamento, senza rinvio, della sentenza impugnata, perché il fatto non sussiste.
- Venendo, infine, all’impugnazione proposta nell’interesse di D.D., le censure difensive articolate con i sei motivi di ricorso sono complessivamente inammissibili.
6.1. Con i primi due motivi, il ricorso prospetta violazione di legge e vizio di motivazione in quanto D.D., condannato in primo grado per il delitto contestato al capo C2), sarebbe stato riconosciuto colpevole per il delitto di cui al capo C1), mai contestatogli, sicché la pena di un anno di reclusione inflittagli per quest’ultimo delitto sarebbe stata irrogata illegittimamente. Osserva, nondimeno, il Collegio che la sentenza di appello ha ampiamente motivato, in particolare a pag. 48, sulle ragioni per le quali l’impugnazione proposta nell’interesse di D.D. con riferimento al reato di cui all’art. 377 cod. pen., contestato al capo C2), non poteva essere accolta, in specie per quanto concerne la asserita inattendibilità della persona offesa. Invero, la Corte territoriale ha puntualmente sottolineato, con motivazione non manifestamente illogica, che l’errata collocazione temporale dell’episodio denunciato da E.E., ovvero di essere stato schiaffeggiato da D.D. circa 3 mesi prima, trovasse piena giustificazione nella sua situazione di fragilità e nelle sue complessive condizioni psicofisiche, accentuate dallo stato di paura palesato anche in sede di esame, allorché, a domanda della difesa, egli aveva dichiarato di temere per la propria incolumità, tanto da essersi determinato a non rivelare ad alcuno le sevizie cui era stato sottoposto. Dunque, dalla complessiva lettura della motivazione emerge nitidamente che il riferimento, contenuto a pago 58 della sentenza di appello, al delitto contestato al capo C1), appare frutto di un mero errore materiale, peraltro privo di effetti sul dispositivo, ove esso non è stato ribadito. Ne consegue, pertanto, la manifesta infondatezza delle doglianze prospettate, sul punto, nei primi due motivi.
6.2. Con il terzo motivo, invece, il ricorso deduce la violazione di legge e il vizio di motivazione in relazione alla affermazione di responsabilità di D.D. in relazione ai delitti contestati ai capi A) e B1). Sotto un primo profilo, le censure investono la stessa configurabilità dei delitti de quibus in relazione all’abitualità della condotta, alla configurabilità di un trattamento inumano e degradante, nonché alla crudeltà della condotta. Trattandosi di profili già diffusamente affrontati con riferimento alle posizioni dei coimputati (v. supra par.par. 3.2. e segg.), appare certamente opportuno, per ragioni di economia espositiva, fare integrale rinvio alle considerazioni svolte in precedenza. Sotto altro aspetto, le considerazioni difensive attengono alla ritenuta insussistenza di una congrua motivazione in ordine alla responsabilità concorsuale di D.D. in relazione ai delitti contestati al capo A) e al capo B1). Quanto al primo, il ricorso lamenta che non possa collegarsi a sue azioni od omissioni il requisito della crudeltà. Con riguardo, invece, al capo B1), la difesa deduce che la condotta dell’imputato, consistita nel riprendere a distanza, all’interno di un’automobile, l’aggressione compiuta ai danni di E.E., non sarebbe idonea a integrare un contributo concorsualmente rilevante. Entrambi gli argomenti, tuttavia, si pongono in frontale contrasto con i criteri di elaborazione giurisprudenziale in materia di responsabilità concorsuale, alla luce dei quali per la configurabilità del concorso di persone è necessario che il concorrente abbia posto in essere un comportamento esteriore idoneo ad arrecare un contributo apprezzabile alla commissione del reato, mediante il rafforzamento del proposito criminoso o l’agevolazione dell’opera degli altri concorrenti e che il partecipe, per effetto della sua condotta, idonea a facilitarne l’esecuzione, abbia aumentato la possibilità della produzione del reato (Sez. 5, n. 43569 del 21-06-2019, P., Rv. 276990 -01). E’, infatti, evidente che in base a tali principi non è necessario che il concorrente ponga in essere tutti gli elementi del fatto tipico, ben potendo egli realizzare singoli segmenti di essi, purché idonei a sorreggere, sul piano causale o anche della semplice agevolazione, la condotta descritta dalla norma incriminatrice e agita dall’altro concorrente e finanche una mera condotta di determinazione idonea a realizzare un semplice contributo morale alla commissione del fatto. In tale prospettiva, non è necessario che il contributo di D.D. fosse consistito in comportamenti connotati da crudeltà ai danni della vittima, ben potendo egli essersi limitato a condotte di mera agevolazione di essi, materialmente posti in essere dal complice (capo B1); ed è, per converso, sufficiente che egli si fosse limitato a filmare l’aggressione compiuta dal correo, stante il riconosciuto significato di tale comportamento in chiave di rafforzamento del proposito criminoso di A.A. (capo A). Ne consegue, dunque, che le censure difensive si connotano come generiche, aspecifiche e, in ogni caso, manifestamente infondate.
6.3. Con il quarto, il quinto e il sesto motivo, il ricorso prospetta una serie di censure, involgenti profili di violazione di legge e di vizi della motivazione, in relazione al trattamento sanzionatorio. Secondo l’ordine logico, essi attengono, in primis, alla mancata applicazione del minimo edittale e al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, che sarebbero state fondate sulla gravità dei fatti a sua volta tratta dalla personalità di D.D., dedotta dalla recidiva dei coimputati A.A. e C.C. Inoltre, la difesa lamenta la mancata esplicitazione del criterio di determinazione della pena sia per il delitto di cui al capo A) successivamente al giudizio di assorbimento, nello stesso capo, dei reati contestati ai capi B) e F), sia per il delitto di cui al capo B). Infine, non sarebbero state esplicitate le ragioni degli aumenti per i reati ritenuti in continuazione, né sarebbe stata valutata la congruità della pena, considerato che la percentuale di aumento della pena in concreto operata rispetto al reato base sarebbe stata superiore a quanto stabilito dal Tribunale, con ciò contraddicendo la premessa secondo cui si sarebbe voluto infliggere un trattamento sanzionatorio meno severo di quello applicato dal primo Giudice. Tanto premesso, va ricordato, quanto alla concreta determinazione della pena base e all’eventuale riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, che si tratta di apprezzamenti tendenzialmente rimessi alla valutazione del giudice di merito, sindacabili, in sede di legittimità, soltanto quando del tutto immotivati, o motivati in maniera apparente o, comunque, manifestamente illogica. Inoltre, come ricordato dalla Corte territoriale, per assolvere correttamente all’obbligo motivazionale incombente sul giudice di merito chiamato a determinare in concreto il trattamento sanzionatorio, salvo che nel caso in cui la pena sia di gran lunga superiore alla misura media di quella edittale, nelle altre ipotesi è sufficiente fare ricorso ai criteri di cui all’art. 133 cod. pen., come avvenuto, appunto, nel caso qui in rilievo. Quanto, poi, alla mancata applicazione delle attenuanti generiche, la sentenza impugnata ha posto in luce l’assenza di elementi positivamente valutabili, nemmeno indicati anche nell’odierno ricorso, e soprattutto la grave offensività dei fatti in contestazione. Pertanto, l’affermazione secondo cui la decisione sarebbe stata fondata sulla negativa personalità di D.D., illogicamente dedotta dalla recidiva dei coimputati A.A. e C.C., si connota in termini di evidente aspecificità. Quanto, ancora, alla mancata indicazione del criterio di determinazione della pena inflitta per il più grave delitto di cui al capo A), premesso che, come appena osservato, la sentenza impugnata ha, invece, richiamato i criteri stabiliti dall’art. 133 cod. pen., appare del tutto generica l’affermazione contenuta in ricorso secondo cui non sarebbe stato indicato il criterio di determinazione della pena inflitta per il delitto di cui al capo B), considerato proprio quanto, invece, osservato dalla Corte territoriale in ordine alla necessità di tenere conto dell’assorbimento dei delitti di cui all’art. 605 cod. pen. contestati ai capi B) e F) nel più grave delitto di cui all’art. 613-bis cod. pen. contestato ai capi A) ed E). Infine, quanto alla motivazione dei singoli aumenti per i reati ritenuti in continuazione, essa è stata adeguatamente resa attraverso il passaggio argomentativo con cui la Corte territoriale ha affermato che dovessero essere mantenuti gli aumenti operati dal primo Giudice e che egli stessi dovessero ritenersi congrui in ragione della gravità degli ulteriori fatti contestati. Ciò che, in definitiva, rende manifestamente infondata l’ulteriore censura relativa alla asserita contraddittorietà della motivazione in ordine alla congruità degli aumenti, asseritamente superiori rispetto a quelli stabiliti dal Tribunale, ma, in realtà, identici a questi ultimi.
- Alla luce delle considerazioni che precedono, la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio nei confronti di A.A. perché il fatto non sussiste limitatamente alla detenzione di tre coltelli a serramanico. Ai sensi dell’art. 620, comma 1, lett. I), cod. proc. pen., la pena deve essere rideterminata, in relazione ai residua reati, nella misura di 7 anni e 1 mese di reclusione. Nel resto, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile. I ricorsi di B.B., D.D. e C.C. devono essere dichiarati inammissibili, con condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di tremila Euro in favore della Cassa delle ammende. A.A., B.B. e D.D. devono, inoltre, essere condannati alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile, E.E., che devono essere liquidate in complessivi 4.500,00 Euro, oltre accessori di legge, ai sensi degli artt. 12 e 16, D.M. n. 55 del 2014, come modificato dal D.M. n. 37 del 2018, tenuto conto – in relazione alle voci precisate nella nota spese depositata – dell’attività svolta e delle questioni trattate.
7.1. A norma dell’art. 52, D.Lgs. n. 196 del 2003 va, infine, disposto che, in caso di diffusione del presente provvedimento, siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi delle parti.