Corte Costituzionale, sentenza 07 dicembre 2021 n. 238
Vanno dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 656, comma 9, lettera a), del codice di procedura penale, sollevate, in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 27, terzo comma, della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Napoli con l’ordinanza indicata in epigrafe.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
2.– Le questioni non sono fondate.
3.– L’art. 656, comma 9, lettera a), cod. proc. pen. ha già in più occasioni formato oggetto di esame da parte di questa Corte.
3.1.– L’ordinanza n. 166 del 2010 ha rilevato che la disposizione, nella parte in cui prevede che la sospensione dell’esecuzione delle pene detentive brevi, secondo la regola fissata dal comma 5 del medesimo art. 656, non possa essere disposta «nei confronti dei condannati per i delitti di cui all’art. 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni», costituisce un vincolo per l’attività del pubblico ministero, posto «in funzione della presunzione di pericolosità che concerne i condannati per i delitti compresi nel catalogo appena citato». La medesima ordinanza ha tuttavia precisato che spetta poi al tribunale di sorveglianza «la valutazione delle istanze di condannati, i quali, dopo l’ordine di carcerazione e l’eventuale provvedimento sospensivo che può accompagnarlo, chiedano l’accesso a forme alternative di esecuzione della pena».
3.2.– Con la sentenza n. 125 del 2016 è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale, per violazione dell’art. 3 Cost. (restando assorbita la censura relativa all’art. 27, terzo comma, Cost.), dell’art. 656, comma 9, lettera a), cod. proc. pen., nella parte in cui stabilisce che non può essere disposta la sospensione dell’esecuzione nei confronti delle persone condannate per il delitto di furto con strappo, attesa la ingiustificata disparità di trattamento con la rapina. Ribadendo che tale disposizione, nel prevedere il divieto della sospensione dell’esecuzione prevista dal comma 5 dello stesso articolo, si fonda su una «presunzione di pericolosità» dei condannati per i delitti compresi nel catalogo dei reati di cui all’art. 4-bis ordin. penit., questa sentenza ha condiviso la censura del giudice rimettente, secondo cui gli indici di pericolosità che possono ravvisarsi nel furto con strappo si rinvengono, incrementati, anche nella rapina (non inserita nel citato catalogo). La denunciata disparità di trattamento, si è osservato, non trova giustificazione, in quanto le caratteristiche dei due reati posti in comparazione non consentono di assegnare all’autore di un furto con strappo una pericolosità maggiore di quella riscontrabile nell’autore di una rapina attuata mediante violenza alla persona.
3.3.– La sentenza n. 216 del 2019 ha, invece, dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale – sollevate in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 27, terzo comma, Cost. – dell’art. 656, comma 9, lettera a), cod. proc. pen., nella parte in cui stabilisce che la sospensione dell’esecuzione di cui al comma 5 del medesimo articolo non può essere disposta nei confronti dei condannati per il delitto di furto in abitazione. Dopo aver escluso la irragionevolezza del differente trattamento previsto per i condannati per furto in abitazione rispetto a chi sia stato condannato per rapina semplice o per furto con strappo, ovvero per altre ipotesi di furto aggravato o pluriaggravato, la citata sentenza n. 216 del 2019, quanto alla dedotta violazione del principio del necessario finalismo rieducativo della pena sancito dall’art. 27, terzo comma, Cost., ha evidenziato che l’art. 656, comma 9, lettera a), cod. proc. pen. non esclude la valutazione individualizzata del condannato, in relazione alla possibilità di concedergli i benefici previsti dall’ordinamento penitenziario. Tale valutazione resta, infatti, demandata al tribunale di sorveglianza in sede di esame dell’apposita istanza, che il medesimo condannato può comunque presentare una volta passata in giudicato la sentenza che lo riguarda. Se, allora, è indubbio che il meccanismo di sospensione automatica dell’ordine di esecuzione di cui all’art. 656, comma 5, cod. proc. pen. sia anche funzionale a evitare l’inutile ingresso nel sistema penitenziario di condannati che potrebbero essere ammessi a misure alternative sin dall’inizio dell’esecuzione della pena, non può d’altra parte negarsi un «margine di discrezionalità del legislatore, sempre entro i limiti segnati dalla non manifesta irragionevolezza, nella definizione delle categorie di detenuti che di tale meccanismo possono beneficiare».
Non di meno, nella sentenza n. 216 del 2019 questa Corte ha ritenuto necessario segnalare al legislatore «l’incongruenza cui può dar luogo il difetto di coordinamento attualmente esistente tra la disciplina processuale e quella sostanziale relativa ai presupposti per accedere alle misure alternative alla detenzione, in relazione alla situazione dei condannati nei cui confronti non è prevista la sospensione dell’ordine di carcerazione ai sensi dell’art. 656, comma 5, cod. proc. pen., ai quali – tuttavia – la vigente disciplina sostanziale riconosce la possibilità di accedere a talune misure alternative sin dall’inizio dell’esecuzione della pena: come, per l’appunto, i condannati per i reati elencati dall’art. 656, comma 9, lettera a), cod. proc. pen., diversi da quelli di cui all’art. 4-bis ordin. penit. (per i quali l’accesso ai benefici penitenziari è invece subordinato a specifiche stringenti condizioni). Ciò, in particolare, in relazione al rischio – specialmente accentuato nel caso di pene detentive di breve durata, peraltro indicative di solito di una minore pericolosità sociale del condannato – che la decisione del tribunale di sorveglianza intervenga dopo che il soggetto abbia ormai interamente o quasi scontato la propria pena».
Tali conclusioni si trovano ribadite nell’ordinanza n. 67 del 2020, con la quale sono state dichiarate manifestamente infondate questioni identiche a quelle esaminate nella sentenza n. 216 del 2019.
3.4.– Di particolare rilievo è, poi, nella ricognizione della giurisprudenza di questa Corte in materia di sospensione dell’esecuzione della pena, la sentenza n. 41 del 2018, con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 656, comma 5, cod. proc. pen., nella parte in cui prevede che il pubblico ministero sospende l’esecuzione della pena detentiva, anche se costituente residuo di maggiore pena, non superiore a tre anni, anziché a quattro anni. In tale decisione si è osservato che, se il tendenziale collegamento della sospensione dell’ordine di esecuzione con i casi di accesso alle misure alternative costituisce un punto di equilibrio ottimale, appartiene pur sempre alla discrezionalità legislativa selezionare ipotesi di cesura, quando ragioni ostative appaiano prevalenti.
Resta pertanto possibile che peculiari situazioni suggeriscano al legislatore di imporre un periodo di carcerazione in attesa che l’organo competente decida sull’istanza di affidamento in prova. Ciò può dipendere, ad esempio, dalla particolare pericolosità di cui, secondo il legislatore, sono indice determinati reati, pericolosità alla quale si intende rispondere inizialmente con il carcere, secondo la ratio cui si ispira l’art. 656, comma 9, lettera a), cod. proc. pen., nell’indicare specifici delitti per i quali è esclusa la sospensione dell’ordine di esecuzione della pena.
Il legislatore può anche prendere atto che l’accesso alla misura alternativa è soggetto a condizioni così stringenti da rendere questa eventualità meramente residuale, sicché appare tollerabile che venga sottoposto all’esecuzione carceraria chi all’esito del giudizio relativo alla misura alternativa potrà con estrema difficoltà sottrarsi alla detenzione: è quanto (oltre che per la gravità dei reati) accade, appunto, per i delitti elencati dall’art. 4-bis della legge n. 354 del 1975, che l’art. 656, comma 9, lettera a), cod. proc. pen. esclude dal beneficio della sospensione dell’ordine di esecuzione della pena.
4.– Tanto premesso, deve escludersi la denunciata manifesta irragionevolezza del trattamento stabilito, quanto alla esclusione dalla possibilità di sospensione dell’ordine di esecuzione, per chi commette fatti di contrabbando di tabacchi lavorati esteri adoperando mezzi di trasporto appartenenti a persone estranee al reato.
4.1.– Nella sentenza n. 233 del 2018, questa Corte, nel dichiarare non fondate le questioni di legittimità costituzionale – sollevate in riferimento agli artt. 3 e 27, primo e terzo comma, Cost. – dell’art. 291-bis, comma 1, del d.P.R. n. 43 del 1973, in tema di trattamento sanzionatorio del reato di contrabbando di tabacchi lavorati esteri, ha considerato che il maggior rigore del trattamento sanzionatorio riservato dal legislatore a questo delitto, rispetto a quanto previsto per le altre violazioni doganali, trova giustificazione nel diverso disvalore di dette condotte e nel maggiore allarme sociale che tale forma di contrabbando suscita.
Si è, infatti, osservato nella citata sentenza che: «[i]l contrabbando di t.l.e. è […] fenomeno criminale che – come del resto testualmente si ricavava in considerazione del tenore letterale dell’art. 1, comma 1, della legge n. 50 del 1994 – interseca gli interessi della criminalità organizzata, allettata dagli ingenti profitti che tale iniziativa illecita garantisce immediatamente. Profitti, questi, che risultano acquisiti secondo percorsi analoghi a quelli propri di altri traffici transnazionali (inerenti agli stupefacenti, alle armi, all’immigrazione clandestina), notoriamente dominati dalle organizzazioni criminali; e che costituiscono, a loro volta, l’utile provvista da reimpiegare in altre iniziative, non necessariamente illecite, secondo tecniche sempre più sofisticate».
Quindi, sul rilievo che le condotte sanzionate dal citato art. 291-bis sono «destinate a ledere l’ordine e la sicurezza pubblica, ben più di quanto possa ritenersi per le altre violazioni doganali», in quanto «sono causa di significativi danni nei confronti dello Stato, non esclusivamente limitati al profilo finanziario delle entrate non percepite», la medesima sentenza ha osservato che quell’intervento normativo «abbraccia sempre più l’esigenza di reprimere adeguatamente un fenomeno criminale caratterizzato […] da una crescente recrudescenza alla luce dell’ancora più marcato coinvolgimento delle organizzazioni criminali, anche sul piano internazionale, capaci di movimentare ingenti capitali e di realizzare profitti elevati su vasta scala».
5.– In questa prospettiva, l’aggravante ex art. 291-ter, comma 1, del d.P.R. n. 43 del 1973 intende reagire alla prassi dei contrabbandieri volta all’impiego di mezzi non propri (ad esempio presi a noleggio). L’autore del delitto di contrabbando che utilizza un mezzo di trasporto appartenente ad un terzo estraneo al reato, e cioè a persona che risulti non aver avuto alcun collegamento, né diretto né indiretto, con la commissione del contrabbando, dimostra maggiore pericolosità, tenuto conto che al terzo è consentito di sottrarre il veicolo alla confisca ove dimostri di non averne potuto prevedere l’illecito impiego anche occasionale e di non essere incorso in un difetto di vigilanza (art. 301, comma 3, del d.P.R. n. 43 del 1973).
In tal senso, l’art. 291-ter del d.P.R. n. 43 del 1973 tratta in modo ragionevolmente differenziato la condotta di chi commette i fatti previsti dall’art. 291-bis adoperando mezzi di trasporto appartenenti a persone estranee al reato, che il comma 1 delinea come aggravante comune, e le condotte contemplate nel comma 2, le quali costituiscono circostanze aggravanti ad effetto speciale, che comportano una pena pecuniaria in misura fissa per ogni grammo convenzionale di prodotto e la reclusione da tre a sette anni. Il comma 3 dell’art. 291-ter detta altresì una regola legale per il giudizio di bilanciamento, escludendo che le attenuanti generiche possano essere ritenute prevalenti o equivalenti rispetto alle aggravanti di cui alle lettere a) e d) del comma 2.
L’unificazione delle condotte aggravate di cui all’art. 291-ter del d.P.R. n. 43 del 1973 si riscontra, piuttosto, nel comma 1 dell’art. 4-bis della legge n. 354 del 1975, come modificato dall’art. 6, comma 1, della legge 19 marzo 2001, n. 92 (Modifiche alla normativa concernente la repressione del contrabbando di tabacchi lavorati) e dunque per effetto della ricomprensione dello stesso tra i reati della cosiddetta “seconda fascia” dell’art. 4-bis, per i quali il legislatore subordina la possibile concessione dei benefici penitenziari al presupposto dell’inesistenza di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva, da accertare con peculiari e tipizzate modalità.
La ricomprensione del citato art. 291-ter tra i reati della cosiddetta “seconda fascia” dell’art. 4-bis ordin. penit. risulta, dunque, coerente con il particolare rigore sanzionatorio che l’ordinamento italiano riserva al contrabbando di tabacchi lavorati esteri nell’ambito dei reati doganali, allo scopo di garantire un più efficace contrasto a tale fenomeno delittuoso, ritenuto particolarmente allarmante, tanto da indurre il legislatore ad apprestare un sistema repressivo analogo a quello predisposto per i più gravi reati di criminalità organizzata.
È poi il censurato comma 9, lettera a), dell’art. 656 cod. proc. pen. che include in primo luogo i reati di cui all’art. 4-bis ordin. penit. tra quelli per i quali non opera la sospensione degli adempimenti esecutivi stabiliti per le pene brevi, in vista dell’eventuale applicazione di misure alternative alla detenzione.
5.1.– La presunzione di pericolosità inerente a tutte le ipotesi previste dall’art. 291-ter del d.P.R. n. 43 del 1973, che è a fondamento del loro inserimento tra le fattispecie incriminatrici ostative alla sospensione dell’esecuzione della pena, ai sensi dell’art. 656, comma 9, lettera a), cod. proc. pen., trova giustificazione nella comparazione delle diverse caratteristiche delle condotte di contrabbando di tabacchi lavorati esteri semplice o aggravate.
In questa prospettiva, non può ritenersi manifestamente irragionevole la scelta del legislatore di considerare attratte in un unico regime – quanto alla inclusione nel catalogo dei reati di cui all’art. 4-bis, comma 1-ter, ordin. penit. – le ipotesi aggravate del reato di cui all’art. 291-bis del d.P.R. n. 43 del 1973. In particolare, la condotta descritta dall’art. 291-ter, comma 1, e quindi l’ipotesi di contrabbando di tabacchi lavorati esteri aggravata dall’uso del mezzo altrui, pur se non accompagnata dalla predisposizione di ostacoli all’attività della polizia, e pur se non caratterizzata dalla presenza di specifici pericoli per l’incolumità pubblica (fattispecie, queste, integranti aggravanti ad effetto speciale), appare comunque assimilabile, per il quid pluris che qualifica la condotta, alle altre ipotesi aggravate, piuttosto che all’ipotesi semplice.
6.– Il divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione della condanna per il delitto di contrabbando di tabacchi lavorati esteri commesso adoperando mezzi di trasporto appartenenti a persone estranee al reato trova, dunque, la propria ratio nella discrezionale, e non manifestamente irragionevole, presunzione del legislatore relativa alla particolare gravità del fatto e alla speciale pericolosità soggettiva manifestata dall’autore.
Non è riscontrabile un aprioristico automatismo legislativo, in quanto con il censurato comma 9, lettera a), dell’art. 656 cod. proc. pen., che si riferisce ai reati di cui all’art. 4-bis ordin. penit., e perciò anche all’art. 291-ter del d.P.R. n. 43 del 1973, il legislatore, in ragione della particolare pericolosità che denota l’autore del delitto di contrabbando, il quale utilizza un mezzo di trasporto appartenente ad un terzo estraneo al reato, ha inteso – indipendentemente dalla gravità della condotta posta in essere e dall’entità della pena irrogata – negare in via generale al condannato il beneficio della sospensione dell’ordine di carcerazione, in attesa della valutazione caso per caso, da parte del tribunale di sorveglianza.
Seguendo le direttrici indicate nella sentenza n. 41 del 2018 di questa Corte, la ragionevolezza del divieto di sospensione dell’esecuzione della condanna detentiva per i delitti elencati dall’art. 4-bis della legge n. 354 del 1975 sta già nella considerazione che riguardo ad essi l’accesso alla misura alternativa è soggetto a condizioni così stringenti da rendere questa eventualità meramente residuale.
Né la presunzione di pericolosità, correlata all’inserimento dell’art. 291-ter del d.P.R. n. 43 del 1973 tra i delitti elencati dall’art. 4-bis della legge n. 354 del 1975, può dirsi nella specie superata, come prospetta il Tribunale di Napoli, visto che l’aggravante è stata bilanciata dal giudice del merito con le attenuanti generiche, dovendosi piuttosto ribadire quanto da questa Corte affermato nella sentenza n. 52 del 2020, e cioè che «la previsione di attenuanti […] consente di adeguare la pena al caso concreto, ma non riguarda necessariamente l’oggettiva pericolosità del comportamento descritto dalla fattispecie astratta», sicché la concessione dell’attenuante può dirsi rilevante ai soli fini della determinazione della pena proporzionata al caso concreto, mentre, nella logica dell’attuale art. 4-bis, comma 1-ter, ordin. penit., essa non risulta idonea a incidere, di per sé sola, sulla coerenza della scelta legislativa di ricollegare a quel determinato delitto un trattamento più rigoroso in fase di esecuzione, quale che sia la misura della pena inflitta nella sentenza di condanna.
7.– Non sussiste neppure l’ipotizzata violazione del principio del necessario finalismo rieducativo della pena sancito dall’art. 27, terzo comma, Cost., in quanto il comma 9, lettera a), dell’art. 656 cod. proc. pen. non esclude la valutazione individualizzata del condannato, in relazione alla possibilità di concedergli i benefici previsti dall’ordinamento penitenziario, valutazione che resta demandata al tribunale di sorveglianza in sede di esame dell’apposita istanza.
8.– Per le considerazioni che precedono, le sollevate questioni di legittimità costituzionale devono essere dichiarate non fondate.
9.– Ciò ovviamente non esclude che il legislatore possa diversamente modulare le cause di esclusione della sospensione dell’ordine di esecuzione delle pene detentive.
In questa prospettiva, invero, sembra porsi l’art. 1, comma 17, della legge 27 settembre 2021, n. 134 (Delega al Governo per l’efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari), il quale detta principi e criteri direttivi per procedere ad una revisione organica della disciplina delle sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi, con innalzamento del limite della pena detentiva sostituibile e con agevolazione delle richieste di accesso alle misure alternative alla detenzione, proponibili già nel giudizio di cognizione.