Cass. pen., III, ud. dep. 20.01.2022, n. 2245
MASSIMA
L’art. 14, comma 4, legge n. 537 del 1993 deve essere interpretato nel senso che il sequestro o la confisca escludono la tassazione dei proventi da reato solo se eseguiti nello stesso periodo di imposta in cui si è verificato il presupposto impositivo, dal momento che solo in tale ipotesi i provvedimenti ablatori determinano, in relazione al principio della capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost., una riduzione del reddito imponibile.
Tra il reato di dichiarazione infedele di cui all’art. 4, d.lgs. n. 74 del 2000, e gli illeciti amministrativi di cui agli artt. 1, comma 2, e 5, comma 4, d.lgs. n. 471 del 1997, non sussiste il rapporto di specialità. Ai fini della integrazione dell’illecito amministrativo non è richiesto il dolo specifico di evasione, che qualifica il delitto di “dichiarazione infedele” di cui all’art. 4, d.lgs. n. 74 del 2000, né che il contribuente indichi “elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo od elementi passivi inesistenti”: è sufficiente che, anche solo per colpa, dichiari un reddito o un’imposta inferiori al dovuto, non rilevando l’entità dell’imposta evasa.
La presentazione di dichiarazione infedele costituisce, dunque, un unico fatto materiale che viola due disposizioni tra loro diversamente sanzionate, allo stesso modo in cui un’unica condotta può integrare due reati diversi in concorso formale tra loro.
PRINCIPIO DI DIRITTO
- Non sussiste violazione del divieto di ‘bis in idem’ di cui all’art. 4, § 1, Protocollo n. 7 alla Convenzione EDU, nei casi di litispendenza, quando cioè una medesima persona sia perseguita o sottoposta contemporaneamente a più procedimenti per il medesimo fatto storico e per l’applicazione di sanzioni formalmente o sostanzialmente penali, oppure quando tra i procedimenti vi sia una stretta connessione sostanziale e procedurale; in tali casi, deve essere garantito un meccanismo di compensazione che consenta di tener conto, in sede di irrogazione della seconda sanzione, degli effetti della prima così da evitare che la sanzione complessivamente irrogata sia sproporzionata.
Ne consegue che, in caso di sanzione (formalmente amministrativa ma) sostanzialmente penale ai sensi della Convenzione EDU, irrevocabilmente applicata all’imputato successivamente condannato in sede penale per il medesimo fatto storico, il giudice deve commisurare la pena tenendo conto di quella già irrogata, utilizzando, a tal fine, il criterio di ragguaglio previsto dall’art. 135 cod. pen., applicando, se del caso, le circostanze attenuanti generiche e valutando le condizioni economiche del reo.
- Il meccanismo di compensazione non si applica se la sanzione amministrativa è stata precedentemente pagata da persona diversa dal reo.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
- Il ricorso è fondato limitatamente al secondo motivo (in esso assorbito il terzo).
- Primo motivo è manifestamente infondato.
- Ai sensi dell’art. 14, comma 4, legge n. 537 del 1993, «nelle categorie di reddito di cui all’articolo 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, devono intendersi ricompresi, se in esse classificabili, i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo se non già sottoposti a sequestro o confisca penale». 2 Corte di Cassazione – copia non ufficiale .
3.1. La norma è stata costantemente interpretata da questa Corte di cassazione nel senso che il sequestro o la confisca escludono la tassazione dei proventi da reato solo se eseguiti nello stesso periodo di imposta in cui si è verificato il presupposto impositivo, dal momento che solo in tale ipotesi i provvedimenti ablatori determinano, in relazione al principio della capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost., una riduzione del reddito imponibile (Sez. 3, n. 18575 del 14/02/2020, Rv. 279500 – 01; Cass. civ., Sez. 5, n. 28375 del 05/11/2019, Rv. 655895; Cass. civ., Sez. 5, n. 28519 del 20/12/2013, Rv. 629332; Cass. pen., Sez. 5, n. 7411 del 19/11/2009, Rv. 246095).
3.2. Non sussistevano dunque margini di incertezza o di errore sulla latitudine del precetto violato dalla condotta ascritta al ricorrente, tantomeno sul contenuto dell’obbligo dichiarativo strumentale al corretto adempimento dell’obbligazione tributaria di cui era parta passiva il contribuente, con conseguente inapplicabilità dell’art. 15, d. Igs. n. 74 del 2000, e dell’art. 47, cod. pen.
3.3. Ciò che viene dedotto, in realtà, è un vero e proprio errore inescusabile di diritto che si alimenta dal personale convincimento del ricorrente circa la liceità del proprio agire, convinzione non alimentata però da una errata percezione della realtà di fatto, che non esclude affatto il dolo specifico di evasione (Sez. 3, n. 23810 del 08/04/2019, Rv. 275993 – 02, secondo cui ai fini dell’integrazione del reato di dichiarazione infedele, previsto dall’art. 4 del d.lgs. 74 del 2000, la mancata conoscenza, da parte dell’operatore professionale, della norma tributaria posta alla base della violazione penale contestata, costituisce errore sul precetto che non esclude il dolo ai sensi dell’art. 5 cod. pen., salvo che sussista una obiettiva situazione di incertezza sulla portata applicativa o sul contenuto della norma fiscale extrapenale, tale da far ritenere l’ignoranza inevitabile; nello stesso senso, Sez. 7, n. 44293 del 13/07/2017, Rv. 271487 – 01). Nè il ricorrente spiega quale altra finalità avesse la sua condotta, questione di fatto non dedotta in appello negli esatti termini dedotti in questa sede.
3.4. Del tutto suggestiva è la deduzione della neutralità della condotta, trattandosi, nel caso di specie, di imposta “teorica” ai sensi dell’art. 1, lett. f), d.lgs. n. 74 del 2000, ai sensi del quale «non si considera imposta evasa quella teorica e non effettivamente dovuta collegata a una rettifica in diminuzione di perdite dell’esercizio o di perdite pregresse spettanti e utilizzabili». Sostiene il ricorrente che egli aveva il diritto di portare in diminuzione nella dichiarazione dell’anno successivo le poste attive perse nell’anno procedente. Sennonché, come detto, il sequestro delle somme è avvenuto in un periodo di imposta successivo a quello nel quale il ricorrente aveva conseguito i proventi non dichiarati i quali avevano concorso a pieno titolo alla formazione dell’imponibile. Sicché non vi è stata alcuna perdita dell’esercizio di competenza. 3 Corte di Cassazione – copia non ufficiale.
- Secondo motivo è fondato, in esso assorbito il terzo.
4.1. Va in primo luogo verificata l’applicabilità al caso concreto del principio di specialità di cui all’art. 19, d.lgs. n. 74 del 2000, alla luce dei rapporti strutturali tra fattispecie (Sez. U, n. 20664 del 23/02/2017, Rv. 269668 – 01; Sez. U, n. 1235 del 28/10/2010, dep. 2011, Giordano, Rv. 248864 – 01).
4.2. La presentazione di una dichiarazione annuale nella quale è indicata un’imposta inferiore a quella dovuta è sanzionata dagli artt. 1, comma 2 (per quanto riguarda le imposte sul reddito e sulla produzione), e 5, comma 4 (in materia di IVA), d.lgs. n. 471 del 1997; ai fini della integrazione dell’illecito amministrativo non è richiesto il dolo specifico di evasione, che qualifica il delitto di “dichiarazione infedele” di cui all’art. 4, d.lgs. n. 74 del 2000, né che il contribuente indichi “elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo od elementi passivi inesistenti”: è sufficiente che, anche solo per colpa, dichiari un reddito o un’imposta inferiori al dovuto, non rilevando l’entità dell’imposta evasa. Se è vero che la fattispecie penale richiede, quali elementi specializzanti, il dolo specifico di evasione e il superamento delle soglie di punibilità, è altrettanto vero, però, che la condotta integrante gli illeciti amministrativi consiste nell’indicare un reddito o un’imposta inferiori al dovuto, non gli elementi attivi (componenti cioè del reddito: art. 1, comma 1, n. 2, d.lgs. n. 74 del 2000), e/o quelli passivi fittizi che concorrono alla formazione del reddito. Sul piano strutturale, dunque, non v’è piena sovrapposizione tra le due fattispecie. La condotta del ricorrente, dunque, integra due diversi fatti, autonomamente e separatamente sanzionati in sede penale e amministrativa.
4.2. Ciò non esclude che, ai fini del divieto del “bis in idem” di cui all’art. 4, Prot. n. 7, CEDU, il fatto addebitato possa essere considerato lo stesso sul piano sostanziale/naturalistico.
4.3. Ed, invero, con la sentenza Grande Camera, 10/2/2009, caso Sergey Zolotukhin contro Russia, la Corte EDU, nell’esaminare i trattati e gli strumenti internazionali che sanciscono il divieto del bis in idem, ha constatato che non tutti usano gli stessi termini. L’art. 4 del Protocollo n. 7 della Convenzione EDU, l’art. 14, § 7, del Patto internazionale sui diritti civili e politici adottato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, e l’art. 50 della Carta Europea dei Diritti Fondamentali utilizzano i termini: “[same] offence/[meme] infraction”. L’art. 8 § 4 della Convenzione Americana sui diritti umani utilizza invece i termini “[same] cause”, così interpretato dalla Corte Inter-americana sui diritti umani: «Diversamente dalla formula utilizzata da altri strumenti internazionali di protezione dei diritti umani (ad esempio, il Patto internazionale delle Nazioni Unite sui diritti civili e politici, articolo 14 § 7), che fa riferimento allo stesso “crimine”, la Convenzione americana usa l’espressione “[same] cause/[meme] 4 Corte di Cassazione – copia non ufficiale faits”, che è un termine decisamente più favorevole alla vittima» (Corte Interamericana, caso Loayza-Tamayo c. Perù, 17 settembre 1997, Serie C N. 33, § 66, richiamata dalla Corte EDU al § 40 della sentenza Zolotukhin). 4.52art. 54 della Convenzione Schengen del 1985 utilizza i termini “1-samelfactsgmeme] faits”. L’art. 20 dello Statuto di Roma della Corte penale internazionale utilizza i termini “[same] conduct”/[mémes] actes constitutifs”.
4.4. La Corte EDU annota che la distinzione tra i termini “stessi atti” o “stessi fatti”, da un lato, e “stesso reato”, dall’altro, è stata ritenuta sia dalla CGUE che da quella Inter-americana un elemento importante a favore dell’adozione di un approccio basato strettamente sull’identità degli atti materiali e del rifiuto della qualificazione giuridica di tali atti giudicata come irrilevante. Un tale approccio interpretativo, secondo le due Corti, è più favorevole perché l’autore del reato saprebbe che, una volta condannato o assolto, non deve temere ulteriori procedimenti penali per la medesima condotta o il medesimo fatto. La Corte EDU prende spunto da questa constatazione e, ribadendo che la Convenzione EDU deve essere interpretata ed applicata in modo da rendere pratici ed effettivi e non teorici o illusori i diritti in essa riconosciuti, afferma che l’uso del termine “offence/infraction” nell’art. 4 del Protocollo n. 7 non giustifica un approccio interpretativo di tipo restrittivo; il ricorso alla mera qualificazione giuridica del medesimo fatto rischia di indebolire il divieto di bis in idem piuttosto che renderlo pratico ed effettivo perché non impedisce che per la medesima condotta una persona possa essere processata e/o condannata due volte. Di conseguenza, chiosa sul punto la Corte EDU, l’art. 4 del Protocollo n. 7 deve essere interpretato nel senso che il reato è il medesimo se i fatti che lo integrano sono identici oppure sono sostanzialmente gli stessi (§ 82), dovendosi intendere per fatto «l’insieme di circostanze di fatto concrete che coinvolgono lo stesso imputato e che sono inestricabilmente legate tra loro nel tempo e nello spazio, la cui esistenza deve essere dimostrata al fine di ottenere una condanna o avviare un procedimento penale» (§84).
4.5. Anche secondo la giurisprudenza di questa Corte, l’identità del fatto sussiste quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona (Sez. U, n. 34655 del 28/06/2005, Rv. 231799 – 01; Sez. 7, n. 42994 del 20/10/2021, Rv. 282187 – 01; Sez. 4, n. 54986 del 24/10/2017, Rv. 271717 – 01; cfr., altresì, Corte cost., sent. n. 200 del 2016, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 649, cod. proc. pen., nella parte in cui esclude che il fatto sia il medesimo per la sola circostanza che sussiste un concorso formale tra il reato già giudicato con sentenza divenuta irrevocabile e il reato per cui è iniziato il nuovo procedimento penale; secondo il giudice delle leggi, «è in questi termini, e 5 Corte di Cassazione – copia non ufficiale soltanto in questi, in quanto segnati da una pronuncia delle sezioni unite, che l’art. 649 cod. proc. pen. vive nell’ordinamento nazionale con il significato che va posto alla base dell’odierno incidente di legittimità costituzionale. E si tratta di un’affermazione netta e univoca a favore dell’idem factum, sebbene il fatto sia poi scomposto nella triade di condotta, nesso di causalità, ed evento naturalistico. A condizione che tali elementi siano ponderati con esclusivo riferimento alla dimensione empirica, si è già testata favorevolmente la compatibilità di questo portato normativo con la nozione di fatto storico, sia nella sua astrattezza, sia nella concretezza attribuita dalla consolidata giurisprudenza europea (…) solo un giudizio obiettivo sulla medesimezza dell’accadimento storico scongiura il rischio che la proliferazione delle figure di reato, alle quali in astratto si potrebbe ricondurre lo stesso fatto, offra l’occasione per iniziative punitive, se non pretestuose, comunque tali da porre perennemente in soggezione l’individuo di fronte a una tra le più penetranti e invasive manifestazioni del potere sovrano dello Stato-apparato. Costituzione e CEDU si saldano, dunque, nella garanzia che la persona già giudicata in via definitiva in un processo penale non possa trovarsi imputata per il medesimo fatto storico, e ripudiano l’intorbidamento della valutazione comparativa in forza di considerazioni sottratte alla certezza della dimensione empirica, così come accertata nel primo giudizio»).
4.6. Dunque, la presentazione di dichiarazione infedele costituisce un unico fatto materiale che viola due disposizioni tra loro diversamente sanzionate, allo stesso modo in cui un’unica condotta può integrare due reati diversi in concorso formale tra loro.
- Tanto premesso, secondo la giurisprudenza della Corte EDU, il divieto del bis in idem sancito dall’art. 4, Prot. n. 7, Convenzione EDU, presuppone l’esistenza di una sentenza definitiva di condanna o di assoluzione. Ciò comporta che il diritto di non essere punito due volte si estende a quello di non essere perseguito o giudicato due volte. Se così non fosse, non sarebbe stato necessario aggiungere la parola “condannato” alla parola “processato” poiché si tratterebbe di mera duplicazione (Corte EDU, Grande Camera, 10/2/2009, caso Sergey Zolotukhin c. Russia, §§ 110-111). Tuttavia, poiché il testo della norma fa esplicito riferimento ad una sentenza definitiva (di condanna o di assoluzione), il divieto del bis in idem non si applica ai casi di litispendenza, quando cioè una medesima persona sia perseguita o sottoposta contemporaneamente a più procedimenti penali per il medesimo fatto. Non comporta violazione del divieto l’interruzione del secondo procedimento parallelo dopo che il primo è stato definito con una sentenza di condanna o di assoluzione (Corte EDU, Sez. 1, 3/10/2002 (dec.), caso Zigarella c. Italia), ma se ciò non accade, se cioè il secondo procedimento prosegue il suo corso, sussiste la violazione del divieto 6 Corte di Cassazione – copia non ufficiale (Corte EDU, Sez. 4, 18/10/2011, caso Tomasovie c. Croazia, §§ 29-32; Corte EDU, Sez. 4, 14/1/2014, caso Muslija c. Bosnia ed Herzegovina, §§ 29-32; Corte EDU, Sez. 4, 20/5/2014, Nyk.Jnen c. Finlandia, §§ 47-54, e Corte EDU, Sez. 4, 20/5/2014, caso Glantz c. Finlandia, §§ 57-64, queste ultime due in tema di applicazione di sanzioni amministrative e sovrattasse per la mancata indicazione di ricavi nella dichiarazione dei redditi e di successiva condanna penale per frode fiscale). Per la violazione del divieto è necessaria la discontinuità dei due procedimenti. Tale discontinuità non esiste quando tra i due procedimenti vi è una stretta connessione sostanziale e temporale. Dall’esame della giurisprudenza della Corte emerge che tale connessione sussiste quando il provvedimento amministrativo viene adottato, ‘ex lege’, in conseguenza della condanna penale, senza una apprezzabile soluzione di continuità, sulla base degli stessi fatti così come accertati in sede penale, quando cioè presupposto e condizione per l’adozione del provvedimento amministrativo sia esclusivamente la condanna inflitta in quella sede (oltre le sentenze già citate, cfr., altresì, Corte EDU, Sez. 4, 17/2/2015, caso Boman c. Finlandia e Corte EDU, Sez. 3, 4/10/2016, caso Rivard c. Svizzera). Terreno elettivo di formazione e applicazione di tale principio è proprio quello della materia fiscale.
5.1. Analizzando i sistemi finlandesi e svedesi, la Corte EDU (Grande Camera, 15/11/2016, caso A e B, contro Norvegia) ha rilevato che le sanzioni amministrative fiscali e quelle penali vengono irrogate da autorità diverse all’esito di procedimenti tra loro diversi ed in alcun modo connessi; ciascuno di essi segue la propria strada e viene definito in modo indipendente l’uno dall’altro. Inoltre, nel determinare la sanzione, nessuna delle due autorità prende in considerazione quelle imposte dall’altra; non c’è alcuna relazione tra loro. Non si tratta, però, di una peculiarità dei suddetti paesi. Quasi tutti i Paesi dell’Unione Europea – afferma la Corte – adottano il doppio sistema sanzionatorio, non solo in materia tributaria, ma anche in tema di tutela dell’ambiente e della sicurezza pubblica. La Corte EDU ne è consapevole (§§ 117-118). Ed è consapevole del fatto che il Protocollo n. 7 (contenente il divieto di bis in idem) è stato introdotto circa 40 anni dopo la firma della Convenzione EDU, che quattro di essi (Germania, Paesi Bassi, Gran Bretagna e Turchia) non lo hanno ratificato, e che altri quattro (Italia, Austria, Francia e Portogallo) hanno espresso riserve sull’art. 4 del Protocollo osservando che il termine “reato” deve essere interpretato nel senso attribuito dagli ordinamenti interni (le riserve di Italia ed Austria non sono state ritenute valide). E’ una prerogativa dei singoli Stati contraenti organizzare i propri sistemi processuali, compreso – naturalmente – quello penale. La Convenzione EDU non proibisce che per un medesimo fatto, qualificabile come reato secondo i propri canoni, vengano instaurati processi diversi, 7 Corte di Cassazione – copia non ufficiale contemporaneamente o successivamente definiti con sentenza; da questo punto di vista gli Stati possono legittimamente adottare risposte complementari per sanzionare il medesimo fatto (convenzionalmente definibile come reato) attraverso procedimenti che, formando un insieme coerente, diano una risposta a tutti gli aspetti del problema, purché ciò non si traduca in un onere eccessivo per l’individuo interessato. L’art. 4 del Protocollo n. 7 è impedire l’ingiustizia di perseguire o punire due volta una persona per la medesima condotta, ma ciò non rende illegali gli ordinamenti che adottano un approccio “integrato” al fattoreato sociale che determini reazioni legali parallele da parte di autorità diverse e per scopi diversi.
5.2. Ciò ha indotto la Corte EDU a precisare ulteriormente il concetto di “stretta connessione sostanziale e temporale” tra procedimenti. A tal fine, ha affermato che è onere dello Stato dimostrare, in modo convincente, l’esistenza di tale connessione in base ai vari fattori tra i quali (congiuntamente): – il perseguimento di finalità complementari e la valutazione, non solo in astratto ma anche in concreto, dei diversi aspetti della condotta illecita oggetto di scrutinio; la prevedibilità che la medesima condotta dia origine, sia giuridicamente che di fatto, a due diversi procedimenti; la minimizzazione del rischio, per quanto possibile, di duplicazioni nella raccolta e nella valutazione delle prove, in particolare attraverso un’adeguata interazione tra le varie autorità competenti per determinare che l’accertamento dei fatti in uno dei due procedimenti venga utilizzato anche nell’altro; l’esistenza di un meccanismo di compensazione che consenta di tener conto, in sede di irrogazione della seconda sanzione, degli effetti della prima così da evitare che la sanzione complessivamente irrogata sia sproporzionata (A e B, cit., § 132).
- Quanto alla “connessione sostanziale”, la Corte EDU ricorda che non tutte le accuse (e i procedimenti) penali hanno lo stesso peso in termini di stigma sociale. Sotto questo profilo, l’autonoma elaborazione, da parte della Corte, del concetto di “reato” e di “pena” ai sensi dell’art. 6 della Convenzione EDU, non toglie rilevanza al fatto che l’ordinamento interno qualifica diversamente l’illecito come amministrativo, disciplinare, doganale, fiscale, ecc., e che tale diversa qualificazione riflette l’assenza dell’ubi consistam del reato secondo la legislazione interna. Perciò stabilire in quale misura un procedimento amministrativo rechi i tratti distintivi di un procedimento penale ordinario costituisce un aspetto importante. Se le sanzioni irrogate con procedimenti non classificati formalmente come “penali” sono specifiche per la condotta in questione e differiscono dal “nocciolo duro del diritto penale”, allora è più probabile che la correlazione tra i due procedimenti (penale e amministrativo) soddisfi i criteri di complementarità e coerenza. Se i procedimenti (formalmente) non penali non comportano alcun significativo grado di stigma sarà meno 8 Corte di Cassazione – copia non ufficiale probabile che l’imputato debba sopportare un onere sproporzionato. Al contrario, il fatto che il procedimento amministrativo abbia caratteristiche stigmatizzanti largamente assimilabili a quelle dei procedimenti penali ordinari aumenta il rischio che le finalità perseguite sanzionando la medesima condotta in procedimenti diversi siano duplicate piuttosto che essere complementari (A e B c. Norvegia, cit. § 133).
6.1. La sola connessione sostanziale, come detto, non soddisfa i requisiti stabiliti dalla Corte per ritenere la duplicazione dei procedimenti rispettosa del divieto di bis in idem; è necessaria anche la “connessione temporale”. Questo non significa che i due procedimenti debbano essere condotti simultaneamente dall’inizio alla fine. Gli Stati possono optare per lo svolgimento progressivo quando ciò sia giustificato da ragioni di efficienza e di corretta amministrazione della giustizia e non provochi alla persona interessata un pregiudizio sproporzionato, purché la connessione temporale sia garantita. Tale connessione deve essere sufficientemente stretta da tutelare l’individuo dall’incertezza e dai ritardi e dall’eccessivo protrarsi del procedimento nel tempo, anche lì dove l’ordinamento interno prevede uno schema “integrato” che separa gli aspetti amministrativi da quelli penali. Più debole è il collegamento nel tempo, maggiore è l’onere per lo Stato di spiegare e giustificare qualsiasi ritardo che possa essere imputabile alla conduzione del procedimento (A e B c. Norvegia, cit. § 134. Nel caso scrutinato dalla Corte i due ricorrenti non avevano dichiarato componenti positivi di reddito; per questo fatto erano state applicate delle sovrattasse e contemporaneamente erano stati sottoposti a processo penale e condannati per il reato di frode fiscale.
- La Corte ha escluso, con sei voti a uno, la violazione dell’art. 4 del Protocollo n. 7, osservando che la durata totale dei procedimenti contro i due ricorrenti era stata di circa cinque anni e il procedimento penale era proseguito per meno di due anni dopo che le decisioni in materia fiscale erano divenute irrevocabili. Inoltre, l’integrazione tra i due procedimenti era evidente dal fatto che: a) le accuse penali contro i ricorrenti erano state formalizzate prima che le autorità fiscali decidessero di rettificare le loro dichiarazioni fiscali; b) la condanna era intervenuta sono qualche mese dopo gli accertamenti fiscali).
7.1. Nel caso di specie, l’avviso di accertamento con il quale l’Agenzia delle Entrate ha rettificato la dichiarazione dei redditi del ricorrente è datata 24/04/2015; la sentenza della CTP di Milano è del 2017 (il ricorrente non indica la data precisa); quella della CTR è stata pronunciata il 05/07/2019. Il decreto di citazione diretta a giudizio è del 04/05/2015; la sentenza di condanna di primo grado è dell’11/02/2019, quella della Corte di appello del 21/01/2021. 4.16.1 due procedimenti, dunque, sono stati avviati pressoché contemporaneamente, hanno impiegato un tempo complessivo di sei anni “viaggiando” in parallelo per più di quattro anni, nel corso dei quali le pronunce 9 Corte di Cassazione – copia non ufficiale che hanno definito le singole fasi si sono accavallate tra di loro. Ne consegue che sussiste la connessione temporale tra procedimenti che la Corte di appello con motivazione effettivamente contraddittoria esclude dopo aver affermato il contrario. Si tratta, però, di vizio assolutamente ininfluente.
- E’ però vero che la Corte di appello non ha fornito alcuna risposta alle ulteriori questioni poste dall’imputato con i motivi aggiunti di appello relativamente alla prevedibilità, natura e proporzionalità delle sanzioni.
- Quanto alla prevedibilità, le questioni dedotte sono totalmente infondate perché le sanzioni sono previste da norme preesistenti al fatto, né si può fondatamente sostenere che la prevedibilità, nel caso concreto, dipendesse dalla indisponibilità degli elementi attivi alla data di presentazione della dichiarazione per le ragioni già indicate in sede di esame del primo motivo.
- Quanto alla natura “penale” del procedimento (e dell’accusa), è noto ormai che non è sufficiente la qualificazione formale del fatto-reato data dall’ordinamento interno; se così fosse, la latitudine applicativa del divieto sarebbe lasciata alla discrezione degli Stati contraenti in una misura che potrebbe portare a risultati incompatibili con l’oggetto e lo scopo della Convenzione (Corte EDU, Grande Camera, 10/02/2009, caso Sergey Zolotukhin contro Russia, § 52; Corte EDU, Grande Camera, 21/02/1984, caso Ózteirk contro Turchia, § 49; Corte EDU, Grande Camera, 15/11/2016, caso A e B contro Norvegia, §§ 106-107). Occorre aver riguardo agli stessi criteri autonomamente elaborati dalla Corte EDU in sede di interpretazione della parola “reato” contenuta negli artt. 6 e 7 della Convenzione, in particolare ai cd. “Engel criteria” (Corte EDU, Grande Camera, 15/11/2016, caso A e B contro Norvegia, cit. § 107): 1) la qualificazione dell’illecito in base all’ordinamento interno; 2) la natura in sé dell’offesa; 3) il grado e la severità della sanzione prevista (gli `Engel criteria’ sono stati elaborati per la prima volta dalla Corte EDU in sede di applicazione degli artt. 6 e 7 della Convenzione, nella sentenza Corte EDU, Grande Camera, 8/06/1976, caso Engel ed altri c. Paesi Bassi, § 82).
- Secondo ed il terzo criterio sono alternativi, nel senso che un fatto potrebbe non essere considerato in sé “criminale in natura” o non appartenere alla “sfera criminale” (secondo il linguaggio adoperato dalla Corte EDU in sede di interpretazione degli artt. 6 e 7, Convenzione EDU) e tuttavia potrebbe essere qualificato come reato, ai sensi e per gli effetti della Convenzione EDU, in base al grado e alla severità della sanzione. Questo però non preclude un esame congiunto di tutti i criteri se nessuno di essi, isolatamente considerati, consente di pervenire ad una soluzione chiara sulla qualificazione del fatto come “reato” secondo la Convenzione EDU. La conseguenza è che se uno dei procedimenti o una delle condanne non riguardano fatti considerati “reato” secondo la Convenzione EDU, come autonomamente interpretata dalla Corte EDU, il ricorso 10 Corte di Cassazione – copia non ufficiale che denunzia la violazione del divieto di bis in idem è inammissibile ai sensi dell’art. 35 § 3 della Convenzione (Corte EDU, Grande Camera, caso Paskas contro Lituania, § 69).
- In numerose decisioni e sentenze la Corte EDU ha affermato che le sanzioni amministrative previste per il mancato pagamento delle tasse possono aveva natura sostanzialmente penale e che di conseguenza hanno natura penale i procedimenti per la loro applicazione. Il principio è stato ribadito nella citata sentenza A e B contro Norvegia, cit. (§§ 136-139) che ha affermato la natura penale della sovrattassa del 30% (§ 139). 4.22.Nel caso di specie, la sanzione amministrativa minacciata e concretamente applicata al contribuente ha un’evidente componente dissuasiva (in sede di previsione astratta) e afflittiva (in sede concretamente applicativa), non essendo finalizzata al risarcimento/indennizzo del danno cagionato dal contribuente. La sanzione prevista dagli artt. 1, comma 2, e 5, comma 4, d.lgs. n. 471 del 1997, infatti, va dal novanta al centottanta per cento della maggiore imposta dovuta; quella concretamente applicata è pari ad euro 654.126,00, di gran lunga superiore al 30% dell’imposta evasa. Si tratta di sanzione che, alla luce dei criteri indicati dalla Corte EDU, ha natura sostanzialmente penale ai sensi degli artt. 6 e 7, Convenzione EDU, e 4, Protocollo n. 7 alla Convenzione EDU.
- Tale sanzione si aggiunge a quella applicata in sede penale al ricorrente, pari a un anno e quattro mesi di reclusione (al netto della riduzione per il rito), pena che certamente non è modesta, avuto riguardo ai limiti edittali applicabili ‘ratione temporis’ (da uno a tre anni di reclusione per i fatti commessi prima delle modifiche introdotte dall’art. 36, comma 1, lett. d, di. 26 ottobre 2019, n. 124, convertito con modificazioni dalla legge 19 dicembre 2019, n. 157, che sostituito la pena con la reclusione da due a quattro anni e sei mesi per i fatti commessi dopo il 24 dicembre 2019).
- Quanto alla proporzionalità del complessivo trattamento sanzionatorio applicato per il medesimo fatto storico, occorre svolgere ulteriori considerazioni. 4.25.Un utile criterio può essere fornito, in primo luogo, come condivisibilmente proposto dal ricorrente, dall’art. 135 cod. pen. che fornisce l’unità di misura della sanzione (sostanzialmente e formalmente) penale applicabile per il medesimo fatto storico. Considerando il criterio di ragguaglio previsto da detta norma (euro 250 per un giorno di pena detentiva), la sanzione di euro 654.126,00 corrisponde a oltre sette anni di reclusione (654.126/350= 2616,5), per un complessivo trattamento sanzionatorio, nel caso di specie e per il medesimo fatto, pari a più di otto anni di reclusione. Naturalmente, il giudice penale non può modificare la sanzione amministrativa irrevocabilmente e separatamente già irrogata, ma può e deve tenerne conto ai fini della 11 Corte di Cassazione – copia non ufficiale applicazione della sanzione penale. A tal fine, per meglio adeguare la sanzione al fatto può applicare le circostanze attenuanti generiche di cui all’art. 62-bis cod. pen., che consentono di determinare la pena in misura inferiore al minimo edittale previsto per lo specifico reato; può tener conto anche delle condizioni economiche del reo affinché il trattamento sanzionatorio sia, nel suo complesso, dissuasivo-rieducativo (non solo meramente retributivo). E’ evidente, infatti, che l’effetto dissuasivo della componente pecuniaria della sanzione complessiva è diverso a seconda delle condizioni economiche della persona fisica alla quale è irrogata. La regola stabilita dall’art. 133-bis cod. pen. può essere considerata, al riguardo, espressione di un principio generale coerente con la finalità rieducativa della pena.
- Principio di proporzionalità della pena complessiva non si applica, all’evidenza, quando al giudice penale risulta che la sanzione amministrativa è stata pagata da un soggetto diverso dall’autore del reato (art. 11, commi 5 e 6, d.lgs. n. 472 del 1997), non essendovi, in tal caso, nulla da compensare.
- In conclusione, devono essere affermati i seguenti principi di diritto: «i) tra il reato di dichiarazione infedele di cui all’art. 4, d.lgs. n. 74 del 2000, e gli illeciti amministrativi di cui agli artt. 1, comma 2, e 5, comma 4, d.lgs. n. 471 del 1997, non sussiste il rapporto di specialità; ai fini del divieto di ‘bis in idem’ di cui all’art. 4, § 1, Protocollo n. 7 alla Convenzione EDU, la natura (sostanzialmente) penale della sanzione qualificata come amministrativa dall’ordinamento interno deve essere valutata applicando i cd. “Engel criteria”; iii) non sussiste violazione del divieto di ‘bis in idem’ di cui all’art. 4, § 1, Protocollo n. 7 alla Convenzione EDU, nei casi di litispendenza, quando cioè una medesima persona sia perseguita o sottoposta contemporaneamente a più procedimenti per il medesimo fatto storico e per l’applicazione di sanzioni formalmente o sostanzialmente penali, oppure quando tra i procedimenti vi sia una stretta connessione sostanziale e procedurale; iv) in tali casi, deve essere garantito un meccanismo di compensazione che consenta di tener conto, in sede di irrogazione della seconda sanzione, degli effetti della prima così da evitare che la sanzione complessivamente irrogata sia sproporzionata; v) ne consegue che, in caso di sanzione (formalmente amministrativa ma) sostanzialmente penale ai sensi della Convenzione EDU, irrevocabilmente applicata all’imputato successivamente condannato in sede penale per il medesimo fatto storico, il giudice deve commisurare la pena tenendo conto di quella già irrogata, utilizzando, a tal fine, il criterio di ragguaglio previsto dall’art. 135 cod. pen., applicando, se del caso, le circostanze attenuanti generiche e valutando le condizioni economiche del reo; 12 Corte di Cassazione – copia non ufficiale vi) il meccanismo di compensazione non si applica se la sanzione amministrativa è stata precedentemente pagata da persona diversa dal reo».
- Escluso, dunque, che nel caso di specie la condanna del ricorrente ha infranto il divieto di ‘bis in idem’di matrice convenzionale, la Corte di appello non ha però applicato il meccanismo di compensazione, non avendo tenuto conto, nella commisurazione della pena, della sanzione amministrativa irrogata all’imputato per il medesimo fatto. Ne consegue che la sentenza impugnata deve essere annullata limitatamente al trattamento sanzionatorio con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Milano che, in sede di nuovo giudizio sul punto, applicherà i principi di diritto di cui al § 4.27, cpv. iv) v) e vi). Resta assorbito l’esame del terzo motivo. 4.29.Al sensi dell’art. 624 cod. proc. pen., deve essere dichiarata irrevocabile la penale responsabilità dell’imputato.