Cass. pen., III, ud. dep. 21.10.2022, n. 39835
1. Il ricorso è infondato per quanto di ragione.
2. Come prevede il chiaro dettato letterale, la speciale causa di non punibilità prevista dall’art. 131 bis c.p. – applicabile, ai sensi del comma 1, ai soli reati per i quali è prevista una pena detentiva non superiore, nel massimo, a cinque anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta – è configurabile in presenza di una duplice condizione, essendo congiuntamente richiesta la particolare tenuità dell’offesa e la non abitualità del comportamento.
Il primo dei due requisiti richiede, a sua volta, la specifica valutazione della modalità della condotta e dell’esiguità del danno o del pericolo, da valutarsi sulla base dei criteri indicati dall’art. 133 c.p., cui segue, in caso di vaglio positivo – e dunque nella sola ipotesi in cui si sia ritenuta la speciale tenuità dell’offesa -, la verifica della non abitualità del comportamento, che il legislatore esclude nel caso in cui l’autore del reato sia stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza, ovvero abbia commesso più reati della stessa indole, anche se ciascun fatto, isolatamente considerato sia di particolare tenuità, nonché nel caso in cui si tratti di reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate.
3. Con riguardo ai reati che, in materia tributaria, prevedono una soglia di punibilità, si è chiarito, la causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, prevista dall’art. 131-bis c.p. può trovare applicazione, qualora il giudice accerti la minima offensività del fatto sulla base degli indicatori rappresentati dalle modalità della condotta, dall’esiguità del danno o del pericolo da essa derivante e dal grado di colpevolezza (Sez. 3, n. 58442 del 02/10/2018, dep. 28/12/2018, Colzani, Rv. 275458). In altri termini, la causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, prevista dall’art. 131-bis c.p. può trovare applicazione a condizione che la fattispecie concreta, all’esito di una valutazione congiunta degli indicatori afferenti alla condotta, al danno erariale e alla colpevolezza, risulti caratterizzata da un’offensività minima, ossia quando il fatto abbia riguardato un ammontare vicinissimo alla soglia di punibilità (Sez. 3, n. 16599 del 20/02/2020, dep. 03/06/2020, Latorre, Rv. 278946), secondo un apprezzamento fattuale che è devoluto al giudice di merito.
4. Va inoltre/ chiarito che i fatti successivi alla commissione del reato non assumono alcuna rilevanza di fini della valutazione del grado dell’offesa.
Invero, è al momento della consumazione del reato che devono essere verificati i presupposti integranti la causa di non punibilità ex art. 131-bis c.p., sicché è in quel momento che deve valutarsi se l’offesa cagionata al bene protetto dalla norma incriminatrice violata sia o meno di “particolare tenuità”.
Ciò significa, in relazione al delitto in esame, che l’offesa deve essere apprezzata con riferimento all’imposta evasa come risultante al momento della scadenza per il pagamento del debito tributario, nel quale, consumandosi il reato, si realizza la lesione del bene tutelato; di conseguenza, è del tutto ininfluente, ai fini dell’applicazione dell’art. 131-bis c.p., il successivo pagamento, totale o parziale, del debito tributario, ciò che, invece, può assumere rilevanza in relazione all’applicazione degli istituti disciplinati dagli D.Lgs. n. 74 del 2000 artt. 13 e 13-bis.
5. Orbene, nel caso in esame, la Corte di merito, con una valutazione di fatto non manifestamente illogica, ha escluso la tenuità dell’offesa, posto che, essendo pacificamente irrilevante il successivo parziale versamento dell’imposta, il superamento della soglia, pari a oltre tremila Euro, non è stato ritenuto così vicinissimo alla soglia di punibilità medesima, tale da qualificare l’offesa in termini di “particolare tenuità”, anche in relazione al complessivo danno cagionato all’erario quale conseguenza del mancato pagamento delle imposte.
6. Nel caso in esame, inoltre, vi è un elemento ulteriore che osta all’applicazione della caso di non punibilità in esame.
7. In relazione alla non abitualità del comportamento, è opportuno richiamare l’interpretazione fornita dalle Sezioni Unite di questa Corte a proposito della commissione di “più reati della stessa indole”, che, integrando un comportamento abituale, osta all’applicazione della causa di non punibilità in esame. In particolare, le Sezioni Unite (sent. n. 13681 del 25 febbraio 2016, Tushaj) hanno chiarito, in primo luogo, che “il tenore letterale lascia intendere che l’abitualità si concretizza in presenza di una pluralità di illeciti della stessa indole (dunque almeno due) diversi da quello oggetto del procedimento nel quale si pone la questione dell’applicabilità dell’art. 131-bis”; ciò significa che “il terzo illecito della medesima indole dà legalmente luogo alla serialità che osta all’applicazione dell’istituto”.
Quanto alla definizione di “reati della stessa indole”, le Sezioni Unite hanno richiamato la definizione racchiusa nell’art. 101 c.p., che “individua due categorie: una formale, riferita alla violazione della stessa disposizione di legge, ed una per così dire sostanziale, connessa ai caratteri fondamentali comuni dovuti alla natura dei fatti che li costituiscono o ai motivi determinanti”. In particolare, “la categoria sostanziale individua diversi parametri, di cui va rimarcata la alternatività; e che, per espressa enunciazione della definizione legale, afferiscono ai casi concreti. Il primo parametro, d’impronta oggettiva, attiene alla natura dei fatti. L’altro, soggettivo, coglie i motivi determinanti, le finalità della condotte”. In relazione al parametro oggettivo, nella sua vaghezza legata all’evocazione della natura dei fatti, chiama in causa diversi fattori, quali “la natura dei beni giuridici protetti dalle diverse incriminazioni”, nonché “le connotazioni delle diverse condotte concrete, che pure possono ben esprimere le sostanziali connessioni tra gli illeciti rilevanti ai fini del giudizio affidato al giudice”.
In altri termini, per “reati della stessa indole”, ai sensi dell’art. 101 c.p., devono intendersi quelli che violano una medesima disposizione di legge e anche quelli che, pur essendo previsti da testi normativi diversi, presentano nei casi concreti – per la natura dei fatti che li costituiscono o dei motivi che li hanno determinati – caratteri fondamentali comuni (da ultimo, Sez. 3, n. 38009 del 10/05/2019, dep. 13/09/2019, Assisi, Rv. 278166).
8. Orbene, come emerge dagli atti, l’imputato ha riportato tre condanne definitive (postate ai n. 3, 5 e 7 del certificato del casellario giudiziale) per il reato di omesso versamento di ritenute previdenziali.
In applicazione dei principi dinanzi indicati, può affermarsi che si tratta di reati della stessa indole rispetto al delitto di omessa presentazione della dichiarazione, essendo entrambi gli illeciti accomunati dal mancato pagamento di somme che, in ambito lavorativo, sono dovute o quali contributi previdenziali ovvero a titolo di imposta, il che, anche dal punto di visto soggettivo, sta parimenti a denotare una comunanza di motivazione, insita, appunto, nella volontà di sottrarsi al pagamento di somme dovute per legge.
Si è in presenza, inoltre, di una condotta pacificamente seriale, posto che l’imputato ha riportato, in precedenza, ben tre condanne per reati della stessa indole.
9. Dunque – e conclusivamente – stante la ritenuta non tenuità dell’offesa ed essendosi in presenza di comportamento abituale, desunto dalla serialità dei reati della stessa indole, non vi sono le condizioni per l’applicazione dell’istituto di Cui all’art. 131-bis c.p..
10. Il ricorso deve perciò essere rigettato, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.