Corte Costituzionale, sentenza 31 gennaio 2023 n. 10
Vanno dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 32, primo comma, numero 2), del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi), sollevate in via principale, in riferimento agli artt. 3 e 53 della Costituzione, dalla Commissione tributaria provinciale di Arezzo; vanno dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 32, primo comma, numero 2), del d.P.R. n. 600 del 1973, sollevate in via gradata, in riferimento agli artt. 3 e 53 Cost., dalla Commissione tributaria provinciale di Arezzo.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
1.– Con ordinanza depositata il 26 aprile 2021 (r. o. n. 150 del 2021), la Commissione tributaria provinciale di Arezzo ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 53 Cost., questioni di legittimità costituzionale dell’art. 32, primo comma, numero 2), del d.P.R. n. 600 del 1973, nella parte in cui pone la presunzione per la quale i prelevamenti sul conto corrente, se non risultano dalle scritture contabili, sono considerati ricavi dell’imprenditore commerciale, salvo che ne sia indicato il beneficiario.
Il giudice a quo rammenta che analoghe questioni di legittimità costituzionale sono state ritenute non fondate dalla sentenza n. 225 del 2005, la quale ha rilevato, sul piano delle censure che investivano il rispetto dell’art. 3 Cost., che la presunzione espressa dalla norma censurata non è manifestamente arbitraria e, con riguardo al parametro di cui all’art. 53 Cost., che neppure è violato il principio di capacità contributiva, in ragione della possibilità, riconosciuta nella giurisprudenza di legittimità, di dedurre in via forfettaria i costi sostenuti per la produzione dei ricavi non dichiarati.
Ricorda, inoltre, il medesimo giudice rimettente che questa Corte, con la successiva sentenza n. 228 del 2014, ha ritenuto fondate le questioni sollevate con riferimento all’estensione, operata dall’art. 1, comma 402, lettera a), numero 1), della legge n. 311 del 2004, della presunzione di equiparazione dei prelievi ai compensi con riguardo ai lavoratori autonomi e professionisti, atteso che, per un verso, l’attività di questi ultimi, diversamente da quella degli imprenditori, è caratterizzata dalla preminenza del lavoro proprio rispetto all’apparato organizzativo e, per un altro, la previsione normativa per lavoratori autonomi e professionisti di sistemi di contabilità semplificata non consente di distinguere l’origine, correlata a spese per la vita personale ovvero per l’attività professionale, dei prelevamenti bancari non contabilizzati.
La CTP rimettente assume la violazione dell’art. 3 Cost. sul piano dell’intrinseca ragionevolezza, atteso che, in mancanza di giustificazione, un prelievo dal conto può essere attribuito, altrettanto ragionevolmente, a costi d’impresa quanto a spese personali, specie nell’ipotesi di piccoli imprenditori individuali che abbiano optato (come il contribuente nel giudizio principale) per il regime di contabilità semplificata. L’acquisizione di fattori produttivi, in ogni caso, avrà in ipotesi prodotto entrate che sono state contabilizzate, e quindi dichiarate, oppure, in caso contrario, già considerate nell’accertamento quali versamenti ingiustificati, con conseguente effetto di «duplicare la posta» se sono sommati i prelevamenti.
A fondamento del dubbio di legittimità costituzionale correlato alla violazione del principio di ragionevolezza, inoltre, la rimettente sottolinea che la giurisprudenza di legittimità, assunta come prevalente, non consente una deduzione automatica dei costi presuntivamente sostenuti per conseguire i ricavi ottenuti grazie alle somme prelevate senza giustificazione. Vi sarebbe dunque che, nella prospettiva del giudice a quo, la presunzione contestata opera nel senso che mediante il prelievo viene effettuato un acquisto di fattori produttivi che genera, nel medesimo anno di imposta, ricavi pari ai prelevamenti non contabilizzati, in violazione del principio di capacità contributiva espresso dall’art. 53 Cost.
2.– In subordine, la rimettente deduce l’irragionevolezza intrinseca della presunzione di equiparazione dei prelievi su conto corrente ai ricavi nella parte in cui essa opera anche nei confronti degli imprenditori assoggettati a contabilità semplificata, poiché tale regime contabile determina, come ha sottolineato questa Corte nella sentenza n. 228 del 2014 quanto a lavoratori autonomi e professionisti, una sorta di «promiscuità» contabile, con conseguente difficoltà di distinguere tra spese personali e spese professionali.
3.– All’esame delle questioni sollevate dalla Commissione tributaria provinciale di Arezzo, è opportuno premettere, in estrema sintesi, il quadro di riferimento, normativo e giurisprudenziale, nel quale si colloca la disposizione censurata, ossia l’art. 32, primo comma, numero 2), del d.P.R. n. 600 del 1973, secondo cui «[i] dati ed elementi attinenti ai rapporti ed alle operazioni acquisiti e rilevati rispettivamente a norma del numero 7) e dell’articolo 33, secondo e terzo comma, o acquisiti ai sensi dell’articolo 18, comma 3, lettera b), del decreto legislativo 26 ottobre 1995, n. 504, sono posti a base delle rettifiche e degli accertamenti previsti dagli articoli 38, 39, 40 e 41 se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto per la determinazione del reddito soggetto ad imposta o che non hanno rilevanza allo stesso fine; alle stesse condizioni sono altresì posti come ricavi a base delle stesse rettifiche ed accertamenti, se il contribuente non ne indica il soggetto beneficiario e sempreché non risultino dalle scritture contabili, i prelevamenti o gli importi riscossi nell’ambito dei predetti rapporti od operazioni per importi superiori a euro 1.000 giornalieri e, comunque, a euro 5.000 mensili».
Tale norma – che è stata in seguito oggetto di diversi interventi normativi e di questa Corte – è stata inserita nel d.P.R. n. 600 del 1973 dall’art. 1 del d.P.R. 15 luglio 1982, n. 463 (Disposizioni integrative e correttive dei decreti del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633, e 29 settembre 1973, n. 600, e successive modificazioni, concernenti istituzione e disciplina dell’imposta sul valore aggiunto e disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi), quale strumento per contrastare efficacemente fenomeni di evasione in un contesto storico nel quale operava ancora il cosiddetto segreto bancario.
Sotto un primo profilo, la disposizione esprime una presunzione – non attinta dalle questioni di legittimità costituzionale in esame – ritenuta comunemente conforme all’id quod plerumque accidit, per la quale i versamenti sul conto corrente, salvo prova contraria del contribuente, ove non dichiarati o risultanti dalle scritture contabili, costituiscono ricavi “occulti” sottratti alla tassazione.
Viene invece in rilievo in questa sede, ed è censurata sotto il profilo, tanto della violazione del canone di ragionevolezza quanto del principio di capacità contributiva, la stessa norma laddove pone la presunzione secondo cui anche i prelevamenti sul conto, se non risultanti dalle scritture contabili dell’imprenditore e salvo che quest’ultimo ne indichi il beneficiario, costituiscono, per un pari importo, ricavi.
Nell’intento di contrastare più efficacemente gravi fenomeni di evasione, il legislatore ha in vero introdotto una sorta di duplice meccanismo inferenziale in forza del quale se un imprenditore effettua un prelievo non risultante dalla contabilità lo stesso deve ritenersi compiuto per sostenere costi “occulti” che a propria volta hanno prodotto pari ricavi “occulti”, salvo che il contribuente indichi il beneficiario del prelievo.
Come è stato evidenziato anche dal giudice rimettente e dall’Avvocatura generale dello Stato nell’atto di intervento, alcune questioni afferenti la legittimità costituzionale, rispetto ai parametri di cui agli artt. 3 e 53 Cost., della presunzione di equiparazione dei prelievi ai ricavi espressa dalla norma censurata sono già state esaminate da questa Corte nella sentenza n. 225 del 2005.
Più in particolare, nella relativa fattispecie, il giudice a quo aveva dubitato della legittimità costituzionale della norma per essere la stessa lesiva, da un lato, del principio di eguaglianza in danno dei titolari di rapporti bancari, nella misura in cui li assoggetta all’irragionevole «doppia presunzione» che i prelevamenti non giustificati siano acquisti e che dagli acquisti derivino pari ricavi, e da un altro, del principio di capacità contributiva, atteso che l’equiparazione prelevamenti/ricavi comporta che i primi costituiscano imponibile per l’intero, stante l’impossibilità di dedurre i costi correlati a tali ricavi, meramente presunti.
Questa Corte, con la richiamata pronuncia, nel dichiarare non fondate le questioni sollevate, ha considerato, innanzitutto, la lamentata violazione dell’art. 53 Cost. rispetto alla quale ha ritenuto sostanzialmente erronea la premessa interpretativa sulla quale si era fondata la Commissione tributaria rimettente poiché, nell’ambito di un accertamento induttivo “puro” (com’era quello compiuto dall’amministrazione finanziaria nella fattispecie concreta), la giurisprudenza di legittimità aveva chiarito che, in detta ipotesi, nel rideterminare i redditi con l’atto impositivo, gli uffici finanziari devono considerare, in conformità al principio di capacità contributiva, non solo i maggiori ricavi ma anche l’incidenza percentuale dei costi relativi, da detrarre dall’ammontare dei prelievi non giustificati.
La medesima sentenza n. 225 del 2005 ha, di poi, escluso anche la dedotta lesione del canone di ragionevolezza, sottolineando la non manifesta arbitrarietà della previsione censurata laddove assume, mediante una presunzione suscettibile di prova contraria, che i prelievi ingiustificati dai conti correnti bancari effettuati da un imprenditore siano stati destinati all’esercizio dell’attività d’impresa e siano, quindi, in definitiva, detratti i relativi costi, considerati in termini di reddito imponibile.
Intanto, la legge n. 311 del 2004 aveva esteso, intervenendo sulla norma censurata, il meccanismo della «doppia presunzione» relativa ai prelievi su conti correnti bancari anche ai professionisti, equiparando detti prelievi ai compensi degli stessi.
Tale estensione è stata dichiarata costituzionalmente illegittima da questa Corte con la sentenza n. 228 del 2014, la quale ha ritenuto, sotto un primo profilo, la non manifesta arbitrarietà della presunzione per la quale i prelevamenti sui conti correnti equivalgono a ricavi non contabilizzati, affermata dalla precedente sentenza n. 225 del 2005, derivante dalla circostanza, evincibile dalla motivazione della stessa, per la quale è «congruente con il fisiologico andamento dell’attività imprenditoriale, il quale è caratterizzato dalla necessità di continui investimenti in beni e servizi in vista di futuri ricavi». Al contrario, l’attività svolta dai lavoratori autonomi e dai professionisti si caratterizza per la preminenza dell’apporto del lavoro proprio, che diviene preminente per coloro i quali esercitano professioni liberali, e per la marginalità dell’apparato organizzativo. Inoltre, l’irragionevolezza dell’estensione della presunzione contestata ai professionisti è corroborata dalla possibilità per gli stessi di avvalersi del regime di contabilità semplificata, caratterizzato sul piano contabile da una sorta di “fisiologica promiscuità” delle entrate e delle spese, professionali e personali.
Mette conto ricordare, infine, che l’art. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973, nella parte in cui pone la presunzione di equiparazione tanto dei versamenti a redditi “occulti”, quanto dei prelevamenti a ricavi non dichiarati, è stato modificato dal d.l. n. 193 del 2016, come convertito, che ha limitato – al duplice scopo di semplificare l’attività di accertamento e di agevolare i contribuenti nella complessa prova contraria da fornire a fronte delle movimentazioni di minore rilievo – l’operare della stessa ai soli prelevamenti per importi superiori a euro 1.000,00 giornalieri e, nel complesso, in ogni caso, a euro 5.000,00 mensili.
4.– Ciò premesso, le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 32, primo comma, numero 2), del d.P.R. n. 600 del 1973, sollevate, in via principale, dalla Commissione tributaria provinciale di Arezzo in riferimento agli artt. 3 e 53 Cost., suscettibili di valutazione unitaria, non sono fondate per essere possibile, nei termini di cui si viene ora a dire, un’interpretazione adeguatrice, orientata alla conformità agli evocati parametri.
5.‒ La disposizione censurata pone, in favore del fisco, una presunzione legale che muove dall’utilizzazione, da parte dell’ufficio, di «dati ed elementi» acquisiti a seguito di indagini finanziarie – e segnatamente, nella specie, di quelle bancarie – per fondare su di essi (o anche su di essi), sia che si tratti di «prelevamenti» (o prelievi), che di «importi riscossi» (id est: versamenti), relativi gli uni e gli altri ad operazioni per importi superiori a euro 1.000,00 giornalieri e, comunque, a euro 5.000,00 mensili, le rettifiche delle dichiarazioni dei redditi, determinati in base alle scritture contabili, delle persone fisiche, e non, di cui agli artt. 38, 39 e 40 dello stesso d.P.R. n. 600 del 1973, e gli accertamenti d’ufficio, di cui al successivo art. 41.
Si tratta di una presunzione a carattere relativo (quindi iuris tantum), e non già assoluto, perché opera solo se il contribuente non offre la prova contraria, potendo in particolare dimostrare, alternativamente: a) che di tali dati ed elementi «ha tenuto conto per la determinazione del reddito soggetto ad imposta»; b) o che essi «non hanno rilevanza allo stesso fine»; c) oppure che i prelevamenti e gli importi riscossi «risult[a]no dalle scritture contabili»; d) o, infine, che gli stessi hanno un determinato «soggetto beneficiario», indicato puntualmente dal contribuente.
In mancanza di prova contraria, i prelevamenti e gli importi riscossi sono considerati «ricavi» e possono essere posti a base delle rettifiche e degli accertamenti suddetti per determinare il reddito imponibile nel regime delle imposte dirette.
La possibilità della prova contraria, così articolata, che può dare il contribuente, assicura, in principio, la non arbitrarietà della presunzione legale in favore del fisco, come questa Corte ha già ritenuto (sentenza n. 225 del 2005). Più in generale si è rilevato che «il valore presuntivo assegnato dalla legge alle risultanze dei conti, con presunzione sempre suscettibile di prova contraria, si fonda ragionevolmente sul carattere oggettivo di dette risultanze, relative a rapporti facenti capo al contribuente» (ordinanza n. 260 del 2000).
La CTP rimettente, in particolare, non dubita della legittimità costituzionale, a fronte dei parametri evocati, della presunzione suddetta quanto agli importi riscossi, ossia ai versamenti bancari ingiustificati, risultanti dai conti del contribuente, imprenditore individuale. Essi, in mancanza di prova contraria, si presumono essere ricavi occulti (“in nero”) dell’attività di impresa.
Il giudice a quo appunta, invece, i suoi rilievi solo in riferimento ai prelevamenti ingiustificati, risultanti dai conti bancari dello stesso contribuente. In tale fattispecie – che è oggetto del giudizio principale – la presunzione legale è in realtà duplice: i prelievi dal conto corrente, in mancanza di prova contraria, fanno presumere che essi siano stati utilizzati nell’esercizio dell’attività d’impresa per sostenere costi occulti; questi ultimi, a loro volta, si presume che abbiano generato ricavi non contabilizzati, che quindi sono calcolati in aumento nella determinazione del reddito imponibile.
Di tale peculiarità, che segna un accentuato favor per il fisco, ha già tenuto conto questa Corte che, con specifico riferimento alla presunzione scaturente da prelievi bancari ingiustificati, ha parlato di «doppia presunzione» (sentenza n. 225 del 2005) o di «doppia correlazione», tale per cui «in assenza di giustificazione deve ritenersi che la somma prelevata sia stata utilizzata per l’acquisizione, non contabilizzata o non fatturata, di fattori produttivi e che tali fattori abbiano prodotto beni o servizi venduti a loro volta senza essere contabilizzati o fatturati» (sentenza n. 228 del 2014).
La ragionevolezza (art. 3, primo comma, Cost.) della presunzione legale, fondata su dati di esperienza generalizzati secondo l’id quod plerumque accidit (sentenze n. 269 del 2017, n. 139 del 2010 e n. 346 del 1999), e l’esigenza del rispetto della capacità contributiva (sentenza n. 188 del 2018) richiedono che una accentuazione così marcata del favor per il fisco sia bilanciata da un regime della prova contraria da parte del contribuente, estesa a ogni presunzione semplice (art. 2729 del codice civile) e integrata dalla deducibilità del fatto notorio (art. 115, secondo comma, del codice di procedura civile).
In particolare, nel dichiarare la non fondatezza di analoga questione di legittimità costituzionale, questa Corte (sentenza n. 225 del 2005) ha ritenuto che il contribuente possa eccepire la «incidenza percentuale dei costi relativi, che vanno, dunque, detratti dall’ammontare dei prelievi non giustificati»; ciò sulla base della «più recente giurisprudenza di legittimità».
In seguito questa Corte (sentenza n. 228 del 2014), ponendo in comparazione la posizione dei contribuenti imprenditori con quella dei lavoratori autonomi e dei professionisti, ha sì ritenuto, quanto a questi ultimi, che tale «presunzione è lesiva del principio di ragionevolezza nonché della capacità contributiva, essendo arbitrario ipotizzare che i prelievi ingiustificati da conti correnti bancari effettuati da un lavoratore autonomo siano destinati ad un investimento nell’ambito della propria attività professionale e che questo a sua volta sia produttivo di un reddito», ma ha anche confermato, quanto ai primi, che la presunzione fondata sui prelevamenti bancari è «congruente con il fisiologico andamento dell’attività imprenditoriale, il quale è caratterizzato dalla necessità di continui investimenti in beni e servizi in vista di futuri ricavi».
Sulla scia di questa giurisprudenza deve, ora, ribadirsi ulteriormente, per un verso, la non manifesta irragionevolezza della «doppia presunzione» che dai prelevamenti bancari ingiustificati, eseguiti dall’imprenditore, inferisce costi e ricavi occulti e pertanto reddito imponibile, oggetto di rettifica e di accertamento da parte del fisco; presunzione che si iscrive nel più ampio contesto della normativa sulla tracciabilità dei movimenti finanziari e sulla regolamentazione limitativa della circolazione del danaro contante al fine di contrastare l’evasione o l’elusione fiscale.
Per altro verso, va ribadito che l’interpretazione adeguatrice, orientata alla conformità ai parametri suddetti, richiede che il contribuente imprenditore possa sempre articolare la prova contraria presuntiva e, in particolare, eccepire la «incidenza percentuale dei costi relativi, che vanno, dunque, detratti dall’ammontare dei prelievi non giustificati» (sentenza n. 225 del 2005) affinché la presunzione in esame risulti compatibile anche con il principio di capacità contributiva (art. 53, primo comma, Cost.).
6.– In questa più mirata prospettiva della idoneità dei prelevamenti bancari ingiustificati a costituire prova di ricavi occulti, la CTP rimettente richiama la giurisprudenza di legittimità, indicata come prevalente, che parrebbe negare la possibilità per il contribuente imprenditore di offrire la prova contraria anche mediante presunzioni semplici, sì da aver sostanzialmente disatteso – sempre ad avviso del giudice a quo – i principi enunciati da questa Corte nella richiamata sentenza n. 225 del 2005.
In realtà, la giurisprudenza di legittimità ben riconosce la facoltà del contribuente di fornire la prova contraria anche mediante presunzioni semplici, sia in quanto le stesse sono prove e non meri argomenti di prova, sia perché la inammissibilità di uno strumento istruttorio dovrebbe essere prevista per legge.
Costituendo la presunzione legale una rilevante eccezione al principio del libero apprezzamento delle prove da parte del giudice e alla regola dell’onere della prova, non è ipotizzabile che, in mancanza di un’espressa previsione del legislatore e per via interpretativa, si predichi una limitazione del principio di libertà delle prove, ritenendo che la prova contraria a una presunzione legale non possa essere costituita da una presunzione semplice (tra le altre, Corte di cassazione, sezione tributaria, sentenza 30 novembre 2011, n. 25502; sezione sesta civile, ordinanza 5 maggio 2017, n. 11102 e sezione quinta tributaria, ordinanza 5 ottobre 2018, n. 24422). La richiamata giurisprudenza ha solo precisato – e qui si innesta il malinteso interpretativo che ha ingenerato i dubbi della CTP rimettente – che la possibilità per il contribuente di fornire, mediante presunzioni semplici, la prova contraria, rispetto alla presunzione legale di cui all’art. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973, non esonera il giudice – peraltro in conformità alle regole generali ritraibili dall’art. 2729 cod. civ. – dalla precisa individuazione dei dati noti dai quali dedurre quelli ignoti, dalla verifica degli indizi offerti dal contribuente in relazione ai movimenti bancari riscontrati e dalla valutazione della gravità, precisione e concordanza degli stessi. Si richiede, in definitiva, che le prove, ancorché presuntive, siano sempre sottoposte a verifica dal giudice.
Del resto la specificità del processo tributario, quanto al regime delle prove, comporta solo la non ammissibilità del giuramento (art. 7, comma 4, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, recante «Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413»), mentre la prova testimoniale è ora ammessa, ove necessaria ai fini del decidere (art. 4 della legge 31 agosto 2022, n. 130, recante «Disposizioni in materia di giustizia e di processo tributari»). Comunque il giudice tributario potrà e dovrà far uso dei poteri riconosciutigli dal comma 1 dell’art. 7 del decreto legislativo n. 546 del 1992 (sentenza n. 18 del 2000), in un contesto processuale di pienezza del contradditorio (sentenza n. 73 del 2022) e di parità delle armi, quale proiezione del canone del giusto processo (art. 111, primo e secondo comma, Cost.).
7.– Più in particolare, occorre considerare che, nella fattispecie concreta che ha dato luogo alla più volte richiamata sentenza n. 225 del 2005, veniva in rilievo un accertamento induttivo cosiddetto “puro” o extracontabile, fondato su indagini bancarie.
Gli uffici finanziari hanno la facoltà di procedere all’accertamento induttivo in senso stretto (o “puro”) se la contabilità dell’impresa è complessivamente inattendibile (tra le altre, Corte di cassazione, sezione quinta tributaria, ordinanze 18 dicembre 2019, n. 33604 e 8 marzo 2019, n. 6861) ovvero se ricorrono gli altri presupposti indicati dall’art. 39 del d.P.R. n. 600 del 1973 (ossia, se il reddito non è indicato nella dichiarazione; o se dal verbale ispettivo risulta che l’impresa non ha tenuto o ha sottratto all’accertamento scritture contabili obbligatorie ai fini fiscali; o se il contribuente non ha dato seguito all’invito a trasmettere o esibire atti o documenti e non ha risposto al questionario).
In queste ipotesi, l’amministrazione finanziaria può esercitare una serie di facoltà istruttorie ulteriori rispetto a quelle ordinarie (ossia può avvalersi dei dati e delle notizie comunque raccolti o venuti a propria conoscenza; prescindere, in tutto o in parte, dalle risultanze della contabilità; avvalersi di presunzioni cosiddette “super-semplici”, ossia prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, ad esempio, medie statistiche e altri dati di carattere astratto, non desunti dalla situazione concreta del singolo contribuente).
Proprio l’impossibilità di una ricostruzione complessiva della contabilità (o, comunque, la generalizzata inattendibilità della stessa) ha da tempo indotto la giurisprudenza di legittimità ad affermare il principio – cui ha fatto riferimento questa Corte nella sentenza n. 225 del 2005 – secondo il quale, nell’ipotesi di accertamento induttivo “puro”, deve riconoscersi la deduzione dei costi di produzione, determinata anche in misura percentuale forfettaria. E anzi, nel caso di accertamento induttivo “puro”, è lo stesso ufficio finanziario ad essere onerato di determinare induttivamente non solo i ricavi, ma anche i corrispondenti costi (Corte di cassazione, sezione quinta tributaria, ordinanza 29 settembre 2017, n. 22868 e sentenza 28 novembre 2014, n. 25317).
Invece, la fattispecie che ha originato l’odierno incidente di legittimità costituzionale riguarda – per quanto può desumersi dall’ordinanza di rimessione – un accertamento analitico-contabile.
Quest’ultima forma di accertamento si caratterizza per la rettifica di singole componenti del reddito dichiarato e può derivare dal confronto tra la dichiarazione e le scritture contabili (il bilancio, in particolare), e dall’esame della documentazione posta a fondamento della contabilità, come, per l’appunto, le risultanze delle movimentazioni bancarie.
Presupposto dell’utilizzo del metodo analitico o “misto” è l’attendibilità complessiva della contabilità, che consente la rettifica di singole componenti reddituali: in sostanza, la determinazione del reddito è compiuta nell’ambito delle risultanze della contabilità, ma con una ricostruzione induttiva di singoli elementi attivi o passivi, dei quali risulta provata aliunde la mancanza o l’inesattezza (Corte di cassazione, sezione quinta tributaria, ordinanza 21 marzo 2018, n. 7025).
Proprio la presenza di una contabilità generalmente attendibile, e una ripresa a tassazione che si realizza mediante rettifiche di singole “poste” della stessa, implica che ai fini della deduzione dei costi, operi in generale la regola ritraibile dall’art. 109 t.u. imposte redditi, in forza della quale, se gli stessi non sono presenti nel conto economico, possono essere dedotti solo se risultano da elementi certi e precisi, dei quali l’onere della prova è a carico del contribuente (Cass., n. 7025 del 2018). Ed è vero – come riferisce il giudice rimettente – che talvolta questa puntualizzazione è stata fatta dalla giurisprudenza anche quando l’accertamento analitico-contabile si fonda su indagini bancarie, e, in particolare, nell’ipotesi di accertamento di maggiori ricavi da parte degli uffici finanziari attraverso il duplice meccanismo inferenziale in contestazione, per il quale a un prelievo non giustificato sul conto corrente dell’imprenditore commerciale corrisponderebbe un costo occulto, che, a propria volta, andrebbe a produrre un ricavo parimenti occulto (Corte di cassazione, sezione quinta tributaria, sentenza 4 marzo 2015, n. 4314).
Tuttavia si tratta di un orientamento che non può essere considerato espressione di un diritto vivente perché relativo a casi limitati, in mancanza peraltro di un intervento delle Sezioni unite sulla questione ai sensi dell’art. 374 cod. proc. civ.
8.– Però, nell’esaminare la questione della deducibilità dei costi anche a fronte di un accertamento analitico contabile compiuto mediante indagini bancarie, occorre considerare che la disposizione censurata consente all’amministrazione finanziaria di avvalersi di una presunzione che, quanto all’equiparazione dei prelevamenti ai ricavi, è in realtà duplice (o di secondo grado): i prelievi sarebbero utilizzati per sostenere costi occulti, i quali a loro volta avrebbero generato pari ricavi non risultanti, anch’essi, dalla contabilità dell’imprenditore.
In una fattispecie siffatta dunque – tanto che il metodo di accertamento sia analitico-induttivo, quanto induttivo cosiddetto “puro” – finirebbe effettivamente con il violare i principi di ragionevolezza e di capacità contributiva un sistema nel quale fosse consentito alla stessa amministrazione dimostrare, in virtù di un meccanismo inferenziale di secondo grado, che i prelievi del contribuente-imprenditore sono serviti per sostenere costi “occulti”, dai quali sono stati prodotti ricavi “occulti”, pari ai prelievi in questione, senza che sia possibile la deduzione dei costi sostenuti dall’imprenditore per produrre tali ricavi, secondo una prova contraria per presunzioni offerta da quest’ultimo.
Da una parte, infatti, da tale sistema deriverebbero esiti irragionevoli perché finirebbe per prevedere un trattamento più severo, quanto al regime della possibile prova contraria rispetto alla presunzione legale in esame, in danno del contribuente che ha tenuto una contabilità complessivamente attendibile (e che può essere destinatario di un accertamento analitico-induttivo), rispetto al regime probatorio di cui si avvale chi, destinatario di un accertamento induttivo, ha omesso qualsiasi contabilità ovvero ne ha tenuta una complessivamente inattendibile o ha posto in essere gravi condotte, quale l’omessa presentazione della dichiarazione dei redditi.
D’altra parte, la presunzione in esame, quanto ai prelievi bancari recuperati a reddito d’impresa quali ricavi “occulti”, si porrebbe in contrasto con il principio della capacità contribuiva poiché, in mancanza di alcuna deduzione di costi, desumibile in via presuntiva, anche con riferimento alle “medie” elaborate dall’amministrazione finanziaria per il settore di riferimento, finirebbe per tassare, in parte, una ricchezza inesistente laddove, invece, ogni prelievo tributario deve avere una causa giustificatrice in indici concretamente rivelatori di ricchezza (ex plurimis, sentenze n. 156 del 2001, n. 111 del 1997, n. 21 del 1996, n. 143 del 1995, n. 179 del 1985 e n. 200 del 1976).
9.– In conclusione, la disposizione censurata in tanto si sottrae alle censure mosse, in riferimento agli evocati parametri, dalla CTP rimettente – sì che le sollevate questioni possono essere dichiarate non fondate – in quanto si interpreti nel senso che, a fronte della presunzione legale di ricavi non contabilizzati, e quindi “occulti”, scaturente da prelevamenti bancari non giustificati, il contribuente imprenditore possa sempre, anche in caso di accertamento analitico-induttivo, opporre la prova presuntiva contraria e in particolare possa eccepire la «incidenza percentuale dei costi relativi, che vanno, dunque, detratti dall’ammontare dei prelievi non giustificati» (sentenza n. 225 del 2005).
10.– Non fondate sono, poi, le questioni di legittimità costituzionale sollevate, in via espressamente gradata, dalla Commissione tributaria provinciale di Arezzo, la quale censura, sempre con riferimento agli artt. 3 e 53 Cost., lo stesso art. 32, primo comma, numero 2), secondo periodo, del d.P.R. n. 600 del 1973, nella parte in cui equipara presuntivamente i prelievi ingiustificati non risultanti dalle scritture contabili ai ricavi anche per gli imprenditori assoggettati a un regime di contabilità semplificata ai sensi dell’art. 18 t.u. imposte redditi.
11.– È opportuno ricordare, ai fini dell’esame di tale censura, che le imprese individuali e le società di persone e assimilate i cui ricavi non abbiano superato, nell’arco di un intero anno solare, determinate soglie (ovvero, gli importi di euro 400.000,00 se hanno per oggetto prestazioni di servizi e di euro 700.000,00 se hanno per oggetto altre attività), adottano il regime della contabilità semplificata come “naturale”, nel senso che lo stesso opera automaticamente per le medesime, ferma la possibilità di optare, in alternativa, per quello ordinario.
Le imprese che adottano un sistema di contabilità semplificata non sono obbligate a redigere il bilancio e sono esonerate dalla tenuta delle scritture contabili (libro giornale, libro inventari e scritture ausiliarie), in quanto devono registrare solo i costi e i ricavi di competenza dell’esercizio, mentre non devono provvedere a rilevare gli incassi e i pagamenti.
12.– I dubbi di legittimità costituzionale del giudice a quo riprendono, in larga parte, le argomentazioni sottese alla richiamata sentenza n. 228 del 2014, con la quale questa Corte, nel dichiarare costituzionalmente illegittima la norma censurata nella parte in cui, dopo l’intervento della legge n. 311 del 2004, aveva esteso anche ai lavoratori autonomi la presunzione iuris tantum per la quale i prelievi su conto corrente si considerano «compensi» così come si considerano «ricavi» per il contribuente imprenditore, ha in motivazione sottolineato che tale declaratoria si imponeva, oltre che per la natura dell’attività dei professionisti, anche per la circostanza che gli stessi possono legittimamente avvalersi di regimi di contabilità semplificata connotati da una sorta di “naturale promiscuità” tra le spese sostenute per l’esercizio dell’attività professionale e quelle personali.
Questa Corte ha quindi ritenuto – proprio con riferimento ai prelevamenti bancari – che fosse costituzionalmente illegittimo l’allineamento della posizione dei lavoratori autonomi e dei professionisti a quella degli imprenditori, anche in regime di contabilità semplificata, quanto alla presunzione di ricavi/compensi “occulti”, deducibili dai prelevamenti stessi. È pertanto venuta meno l’equiparazione dei prelevamenti bancari ingiustificati ai compensi.
Ma, al contrario, non vi è un’esigenza costituzionale che richieda di ripristinare, mutatis mutandis, questo allineamento con l’esclusione anche dell’equiparazione di tali prelevamenti ai ricavi.
Non è possibile, in ragione del solo regime di contabilità in concreto adottato dal contribuente, assumere un’equiparazione tra la situazione dei lavoratori autonomi e professionisti e quello degli imprenditori commerciali; il quale ultimo si caratterizza – come evidenziato dalla stessa sentenza n. 228 del 2014 – per le continue movimentazioni sul conto corrente dovute a un’attività nella quale, a differenza di quanto avviene per lavoratori autonomi e professionisti, prevale, sul lavoro proprio dell’imprenditore, l’apparato organizzativo che lo sostiene.
Peraltro successivamente, con il d.l. n. 193 del 2016, come convertito, lo stesso legislatore è intervenuto sulla disposizione censurata proprio per risolvere il problema delle eventuali difficoltà probatorie derivanti da situazioni come quella dell’imprenditore assoggettato a contabilità semplificata, prevedendo adeguate soglie di movimentazioni giornaliere su conto corrente (sino all’importo di 1.000,00 euro) e mensili (sino all’importo complessivo di 5.000,00 euro), solo dopo il superamento delle quali opera la presunzione in esame.
Quest’ultima, pertanto, non solo non è manifestamente arbitraria (art. 3 Cost.), ma neppure determina un trattamento ingiustificatamente differenziato in peius per gli imprenditori commerciali assoggettati al regime di contabilità cosiddetta semplificata; né è leso il principio della capacità contributiva (art. 53, primo comma, Cost.).