Corte di Cassazione, Sez. Unite Civili, sentenza 12 ottobre 2022 n. 29862
PRINCIPI DI DIRITTO
a) Ai fini dell’accoglimento della domanda di condanna generica al risarcimento del danno è sufficiente che l’attore dimostri la colpa e il nesso causale; mentre è sufficiente che l’esistenza del danno appaia anche solo probabile.
b) Ai fini dell’ammissibilità della domanda di condanna generica al risarcimento del danno non è necessario che l’attore indichi le prove di cui intende avvalersi per dimostrare il quantum debeatur.
c) Il danno civile all’immagine della pubblica amministrazione può essere arrecato tanto da un pubblico funzionario, quanto da persona estranea all’amministrazione stessa, ed è risarcibile in ambo i casi.
d) Il danno causato dall’evasione fiscale, allorché questa integri gli estremi di un reato commesso dal contribuente o da persona che del fatto di quest’ultimo debba rispondere direttamente nei confronti dell’erario, non può farsi coincidere automaticamente con il tributo evaso, ma deve necessariamente consistere in un pregiudizio ulteriore e diverso, ricorrente qualora l’evasore abbia con la propria condotta provocato l’impossibilità di riscuotere il credito erariale.
e) Il danno causato dall’evasione fiscale, allorché questa integri gli estremi di un reato commesso da persona diversa dal contribuente e non altrimenti obbligata nei confronti dell’erario, può coincidere sia con il tributo evaso, sia con ulteriori pregiudizi, ma nella prima di tali ipotesi il risarcimento sarà dovuto a condizione che l’erario alleghi e dimostri la perdita del credito o la ragionevole probabilità della sua infruttuosa esazione.
f) Nel giudizio di danno promosso dall’erario nei confronti di persona diversa dal contribuente, cui venga ascritto di avere concausato la perdita del credito erariale, spetta all’amministrazione provare l’esistenza del credito, la perdita di esso ed il nesso causale tra la lesione del credito e la condotta del convenuto; spetta, invece, al convenuto dimostrare che la perdita del credito sia avvenuta per negligenza dell’amministrazione, negligenza che rientra nella previsione di cui all’art. 1227, primo comma, c.c..
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
3. Il terzo motivo del ricorso principale.
Col terzo motivo la ricorrente prospetta, ai sensi dell’articolo 360, n. 3, c.p.c., la violazione degli articoli 1227, 2056, 2059 e 2697 c.c. Il motivo investe la sentenza d’appello nella parte in cui ha ritenuto di poter pronunciare una condanna generica a carico dei convenuti ed a favore del Ministero delle finanze.
3.1. Il motivo, se pur formalmente unitario, contiene cinque censure tanto processuali quanto sostanziali, che questa Corte – nell’esercizio del proprio potere-dovere di qualificazione ed interpretazione degli atti processuali – ritiene siano così riassumibili: a) la Corte d’appello non poteva pronunciare una condanna generica al risarcimento del danno, perché le parti civili avevano a tal riguardo formulato domande generiche; b) la Corte d’appello non poteva pronunciare una condanna generica al risarcimento del danno, perché le parti civili non avevano indicato le prove di cui intendevano avvalersi nel futuro giudizio sul quantum debeatur; c) la Corte d’appello aveva accolto (anche) la domanda di risarcimento del danno all’immagine della pubblica amministrazione, danno concepibile solo con riferimento alle condotte di soggetti appartenenti alla pubblica amministrazione, ma non con riferimento alle condotte di soggetti estranei ad essa; d) la pronuncia di condanna generica al risarcimento del danno presuppone l’accertamento in concreto dell’esistenza d’un danno, accertamento che nel caso di specie era mancato; e) il danno sofferto della pubblica amministrazione in caso di evasione fiscale non coincide con il tributo evaso, se non nei casi in cui l’erario, in conseguenza del fatto illecito, abbia perduto la possibilità di recuperare l’imposta con gli ordinari strumenti a tal fine previsti dall’ordinamento.
3.2. Prima di esaminare tali doglianze nel merito, va premesso che le censure appena riassunte, sub (a), (b) e (c), non possono ritenersi già esaminate e decise dall’ordinanza di rimessione, nonostante in essa si dica delle prime due che sono “smentite” dagli atti; e della terza che “appare inammissibile”. Infatti, il dispositivo dell’ordinanza di rimessione non contiene altra statuizione che la rimessione alle SS.UU.; né vi è una statuizione espressa di rigetto delle due censure suddette.
Pertanto, le affermazioni di “inammissibilità” di cui alle pp. 26-28 dell’ordinanza di rimessione debbono ritenersi delle mere valutazioni preliminari ai fini della motivazione sulla rilevanza della questione di massima, questione che riguardava un profilo del motivo logicamente subordinato a quelle valutazioni.
3.3. Sulla prima censura (genericità delle domande).
L’allegazione secondo cui la Corte d’appello non avrebbe potuto pronunciare una condanna generica al risarcimento del danno, poiché i danneggiati avevano formulato domande generiche, è infondata.
La prima ragione è che le parti civili provvidero ad indicare il tipo di danni che assumevano di aver subìto: turbamento della normale attività dell’amministrazione; perdita del tributo; costi dell’attività di accertamento del fatto-reato; danno all’immagine; danno da sviamento di funzione.
3.4. Sulla seconda censura (inammissibilità della domanda per mancata indicazione dei mezzi di prova).
La ricorrente allega poi che la domanda di condanna generica al risarcimento del danno si sarebbe dovuta dichiarare inammissibile, perché non corredata dall’indicazione dei mezzi di prova di cui le parti danneggiate avevano intenzione di avvalersi nel successivo giudizio di liquidazione, a dimostrazione dell’entità del danno sofferto.
Tale censura è infondata. Infatti, ai fini dell’accoglimento della domanda di condanna generica al risarcimento del danno è sufficiente che siano dimostrati la colpa e il nesso causale, mentre è sufficiente che sia anche solo probabile l’esistenza del danno.
Se dunque, ai fini dell’accoglimento della domanda generica, è necessario che il danno sia soltanto “probabile”, l’unica prova che il danneggiato deve offrire è quella della “probabilità” del danno, non della sua certezza. Ma se ai fini della condanna generica è sufficiente la dimostrazione della “probabilità” del danno, non si comprende a qual fine e per qual frutto l’attore avrebbe l’onere, nel giudizio sull’an, di indicare analiticamente i mezzi di prova di cui intende avvalersi nel futuro e separato giudizio sul quantum.
La prova analitica del quantum debeatur andrà fornita nel relativo e successivo giudizio, sicché a pretendere che essa debba essere offerta già nel giudizio sull’an si perverrebbe al paradosso di obbligare la parte, a pena di inammissibilità della domanda, ad indicare mezzi di prova irrilevanti, perché non aventi ad oggetto una questione devoluta al giudicante.
Quel che è sufficiente, nel giudizio limitato all’an debeatur, è che l’attore fornisca la prova della probabile esistenza d’un danno, prova che ovviamente può essere fornita con ogni mezzo, ivi comprese le presunzioni semplici.
Infine, non pertinente è la giurisprudenza invocata dalla ricorrente a p. 17, nota 13, del ricorso. In tutti e quattro i precedenti ivi richiamati, infatti, non si afferma affatto che una domanda di condanna generica sia inammissibile se non corredata dall’indicazione della prova del quantum debeatur, ma si afferma il diverso principio secondo cui ai fini d’una condanna generica è sufficiente che l’attore alleghi e provi la mera “potenzialità dannosa” del fatto illecito.
In particolare: – ) Sez. L, Sentenza n. 1631 del 22/01/2009, ha affermato il suddetto principio in tema di danno da perdita di chance; – ) Sez. 3, Sentenza n. 25638 del 17.12.2010, ha affermato il suddetto principio in tema di danno da distruzione dell’azienda commerciale; – ) Sez. 2, Ordinanza n. 6235 del 14.3.2018, ha affermato il suddetto principio in tema di danno da violazione delle norme sulle distanze legali: qui, per di più, la domanda di condanna generica venne rigettata per difetto di “allegazione” del danno, sicché il riferimento alla prova costituiva una motivazione ad abundantiam; – ) Sez. 2, Sentenza n. 21326 del 29.8.2018, ha affermato il suddetto principio in tema di danno da inadempimento d’un contratto preliminare.
3.4.1. In talune decisioni della Corte, ivi compresa l’ultima di quelle appena elencate, si legge la tralatizia affermazione secondo cui “l’art. 278 cod. proc. civ. (…) non esonera l’attore, all’atto della rimessione della causa al collegio, dall’onere di (…) indicare i mezzi di prova dei quali intenda avvalersi per la determinazione del “quantum”, secondo la disciplina generale, con la conseguenza che, in difetto di tali adempimenti, il giudice deve pronunciarsi sulla domanda di risarcimento, rigettandola se non adeguatamente provata” (così Sez. 1, Sentenza n. 5736 del 23/03/2004, e, prima ancora, Sez. 2, Sentenza n. 5193 del 28/05/1999).
Questo principio, tuttavia, non è pertinente rispetto al caso che qui ci occupa. Esso venne infatti affermato dalla sentenza capostipite (Cass. 5193/99, cit.), in un caso in cui l’attore, al momento della rimessione della causa al collegio, aveva chiesto sì una condanna generica del convenuto, ma nella forma d’una sentenza non definitiva, con rimessione della causa sul ruolo per il prosieguo del giudizio ai fini dell’accertamento del quantum.
E’ dunque ovvio che, in quel caso, si pretese dall’attore la formulazione anche delle richieste istruttorie, giusta la previsione dell’art. 189 c.p.c.. Lo stesso principio, però, non potrebbe valere quando l’attore chieda che il quantum debeatur sia accertato in un separato giudizio, e non nel prosieguo del medesimo giudizio.
3.5. Sulla terza censura (insussistenza d’un danno all’immagine dell’Amministrazione).
Con una terza censura la ricorrente ha dedotto che la Corte d’appello avrebbe illegittimamente accolto (anche) la domanda di risarcimento del danno all’immagine della pubblica amministrazione, danno non concepibile con riferimento alle condotte di soggetti estranei alla pubblica amministrazione.
Il motivo è, in primo luogo, inammissibile per estraneità alla ratio decidendi. La sentenza impugnata, infatti, non ha preso affatto posizione sull’esistenza d’un “danno all’immagine”, sicché il motivo censura una statuizione che nella sentenza impugnata manca.
3.5.1. Benché tale rilievo sia assorbente, osserva il Collegio ad abundantiam che la censura sarebbe comunque infondata. Il principio di diritto invocato dalla ricorrente, secondo cui soltanto soggetti appartenenti alla pubblica amministrazione potrebbero essere condannati a risarcire il danno all’immagine sofferto da quest’ultima, non è infatti corretto.
Il danno civile è atipico: chiunque può arrecarlo a chiunque, e con qualunque condotta. Così, ad esempio, il funzionario di fatto, il calunniatore, il millantatore, l’appaltatore infedele, il concessionario di pubblici servizi disonesto, pur non appartenendo alla pubblica amministrazione, con le loro condotte ben potrebbero arrecare un danno all’immagine di quest’ultima.
L’esistenza di un danno all’immagine della p.a. è un giudizio analitico a posteriori che dipende dalla natura della condotta illecita e dalle sue conseguenze, e non un giudizio sintetico a priori che dipenda dalla qualità soggettiva del responsabile. Che un reato doganale possa nuocere all’immagine della p.a. è stato del resto già ammesso dalla giurisprudenza penale di questa Corte (Sez. 5 pen., Sentenza n. 12777 del 22.3.2019, in motivazione, § 8.3; Sez. 3 pen., Sentenza n. 35457 del 1/10/2010, Rv. 248632 – 01), così come in ripetute occasioni si è ammesso che il reato commesso dall’extraneus alla p.a. possa recare nocumento all’immagine di questa, suscitando nei cittadini la sensazione dell’inefficienza o della collusione di essa col reo (così Sez. 3, Sentenza n. 11752 del 17/03/2008, Rv. 239464; Sez. 3, n. n.35868 del 1.10.2002, Rv. 222512; nonché Sez. 2 pen., Sentenza n. 150 del 4/01/2013, Rv. 254675, e Sez. 1 pen., Sentenza n. 10371 del 18/10/1995, Rv. 202736, ambedue con riferimento al danno all’immagine causato da una associazione criminale all’amministrazione comunale nel cui territorio si era insediata ed aveva operato).
3.5.2. Né rileva, ai fini qui in esame, il disposto dell’art. 17, comma 30 ter, del d.l. 1.7.2009 n. 78 (c.d. “lodo Bernardo”), ovvero la contestata norma la quale, nel novellare le regole sulla responsabilità erariale dei pubblici dipendenti, stabilì che “procure della Corte dei conti esercitano l’azione per il risarcimento del danno all’immagine nei soli casi e nei modi previsti dall’articolo 7 della legge 27 marzo 2001, n. 97”, e quindi soltanto nel caso di delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione.
Quale che sia, infatti, l’interpretazione che si volesse adottare di tale norma (se, cioè, essa escluda o meno la responsabilità dei pubblici dipendenti nei confronti della p.a. per i danni all’immagine causati in conseguenza di reati comuni), quel che è certo è che: a) quella norma disciplina unicamente i limiti della responsabilità per danno erariale, la quale ha ambito e presupposti diversi dalla responsabilità civile; b) essa disciplina unicamente la responsabilità dei pubblici funzionari, non dei privati; c) il secolare canone ermeneutico inclusio unius, exclusio alterius, impone di ritenere che l’espressa limitazione della responsabilità dei pubblici funzionari verso la p.a. non possa estendersi anche ai soggetti ad essa estranei.
In tal senso si è già espressa la Corte costituzionale con la sentenza 15.12.2010 n. 355, stabilendo che l’art. 17, comma 30 bis, d.l. cit. è norma la quale ha inteso limitare unicamente la responsabilità dei pubblici funzionari, e limitarla solo nell’ambito della giurisdizione contabile.
3.6. Sulla Quarta censura (inammissibilità della condanna generica in assenza di prova del danno).
Con una quarta censura, come accennato, la ricorrente deduce che la pronuncia di condanna generica al risarcimento del danno presuppone l’accertamento in concreto dell’esistenza d’un danno, accertamento che nel caso di specie era mancato.
La censura è infondata in quanto, come già detto, presupposto della condanna generica ex art. 278 c.p.c. è la mera probabilità del danno, non la prova certa della sua esistenza.
Questa Corte, da molti anni e con orientamento costante, viene ripetendo che dinanzi ad una domanda di condanna generica al risarcimento del danno “l’attività e la indagine del giudice (…) è principalmente diretta ad acquisire la certezza giuridica sui punti pregiudiziali dell’illiceità e della colpa e, quindi, della responsabilità. La pronunzia positiva sull’an debeatur si deve fondare sulla certezza giuridica dell’illiceità della condotta della persona contro la quale la condanna stessa viene pronunziata, e, quindi, sulla responsabilità di questa, sulla prova di un fatto idoneo, sia pure potenzialmente, a produrre conseguenze dannose, secondo un apprezzamento anche di semplice probabilità o di verosimiglianza dell’evento (…), nel senso che per la particolare natura dell’illecito sia legittimo presumere il verificarsi di dette conseguenze, la cui valutazione, in concreto sarà poi compiuta in sede di liquidazione, e sull’esistenza del nesso di causalità fra il comportamento illecito dell’agente ed il danno” (così, testualmente, ovvero Sez. 1, Sentenza n. 2507 del 09/08/1962). E questa mera “potenzialità dannosa” del fatto illecito, per altrettanto pacifica giurisprudenza, prescinde dalla misura e anche dalla stessa concreta esistenza del danno, come già stabilito da queste Sezioni Unite (Sez. U, Sentenza n. 8545 del 03/08/1993; nello stesso senso, ex multís, Sez. 2, Sentenza n. 21326 del 29/08/2018, Rv. 650031 – 01; Sez. 2 – , Ordinanza n. 6235 del 14/03/2018, Rv. 647851 – 01; Sez. L, Sentenza n. 1631 del 22/01/2009, Rv. 606294 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 16123 del 14/07/2006, Rv. 591479 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 9709 del 18/06/2003, Rv. 564383 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 6257 del 02/05/2002, Rv. 554050 – 01; Sez. 2, Sentenza n. 2724 del 25/02/2002, Rv. 552505 – 01; Sez. 2, Sentenza n. 10453 del 01/08/2001, Rv. 548638 – 01; Sez. 2, Sentenza n. 14454 del 06/11/2000, Rv. 541416 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 985 del 14/05/1962, Rv. 251626 – 01).
3.7. Sulla quinta censura (possibilità di qualificare come “danno aquiliano”, per l’erario, l’evasione d’un tributo).
Con la quinta censura del secondo motivo la ricorrente, come accennato, lamenta che erroneamente la Corte d’appello ha ritenuto che nei reati tributari il danno patito dall’erario coincida col tributo evaso.
Deduce la ricorrente che la commissione d’un reato tributario non fa venir meno la perdita del credito erariale; che l’amministrazione finanziaria può sempre agire per la riscossione coattiva del tributo evaso; che pertanto l’esistenza d’un danno risarcibile potrebbe ammettersi soltanto se l’amministrazione deduca e dimostri che, in conseguenza del reato, abbia perduto irrimediabilmente il proprio credito tributario.
3.7.1. La quinta censura del terzo motivo del ricorso principale è una delle due che l’ordinanza 38711/21 ha ritenuto meritevole di essere sottoposta a queste Sezioni Unite.
A tale riguardo l’ordinanza di rimessione riferisce innanzitutto dell’esistenza d’un contrasto nella giurisprudenza delle sezioni penali di questa Corte.
Segnala che secondo Cass. pen. 5554/91 il “danno da reato”, di cui all’art. 185 c.p., derivante da un reato tributario, non coincide col tributo evaso, se non a due condizioni: che a causa del reato l’erario abbia perduto il credito tributario, e che il reo sia persona diversa dal debitore d’imposta.
Secondo Cass. pen. 52752/14, invece, la astratta possibilità di ravvisare il danno da reato nel tributo evaso deve ammettersi sempre, e non soltanto nel caso di non coincidenza tra reo e contribuente.
L’ordinanza di rimessione prosegue chiedendosi se, ad exemplum di quanto comunemente ammesso in tema di concorso dell’azione contrattuale di danno con quella aquiliana, non possa parimenti accordarsi all’erario la facoltà di scelta tra la riscossione coattiva del tributo e l’ordinaria azione di danno mediante costituzione di parte civile, e come debba ripartirsi nel relativo giudizio di danno l’onere della prova che il credito tributario sia andato perduto in conseguenza della commissione del reato.
L’ordinanza di rimessione conclude la propria illustrazione formulando – con riferimento a questo terzo motivo di ricorso – tre quesiti così riassumibili: 1) se e a quali condizioni il danno causato da una evasione fiscale coincida con l’imposta evasa; 2) se, in caso di evasione fiscale, l’amministrazione finanziaria abbia l’onere di procedere all’accertamento ed alla riscossione coattiva del tributo, o possa scegliere di agire ai sensi dell’articolo 2043 c.c. nei confronti del responsabile civile; 3) se nel giudizio di risarcimento del danno proposto dall’erario nei confronti dell’evasore o del suo correo debba essere l’amministrazione a dover dimostrare di aver perduto senza colpa il proprio credito in conseguenza del fatto illecito, oppure se debba essere il convenuto a dimostrare che l’erario non ha perduto il proprio credito tributario, ovvero l’ha perduto per propria colpa.
Tali questioni saranno esaminate separatamente.
3.7.2. (A) Evasione fiscale e azione aquilíana: il rapporto tra erario e contribuente.
Il debito d’imposta è una obbligazione scaturente dalla legge, ai sensi dell’art. 1173 c.c.. Non mette conto in questa sede seguire le sottilissime distinzioni dottrinarie sulla natura dell’atto d’accertamento o della autodichiarazione nella tassonomia delle fonti dell’obbligazione. Per l’art. 1173 c.c. le fonti dell’obbligazione possono essere solo tre: il contratto, il fatto illecito e la legge: e poiché l’obbligazione tributaria ovviamente non sorge né da contratti, né da fatti illeciti, è giocoforza inquadrarla nella terza.
Questa obbligazione ha ad oggetto una somma di denaro, ed è dunque una obbligazione pecuniaria. Il creditore di una obbligazione pecuniaria, in caso di inadempimento, conserva il diritto di esigere coattivamente il proprio credito, ed acquista quello di pretendere il risarcimento del danno (art. 1218 c.c.).
Diritto alla prestazione e diritto al risarcimento del danno formano oggetto di due obbligazioni diverse: la prima nascente dalla legge, la seconda dall’inadempimento della prima.
Il creditore d’una obbligazione pecuniaria non perde il credito sol perché il debitore sia inadempiente: il debito di denaro è infatti debito di cosa generica, e genus numquam perit. Il creditore d’una obbligazione pecuniaria, se questa resti inadempiuta, resta creditore e il suo credito conserva intatti fonte, struttura, contenuto e mezzi di tutela.
“Danno” in senso tecnico, invece, è il pregiudizio causato dall’inadempimento, non la prestazione dovuta. Ed infatti nelle obbligazioni pecuniarie il creditore che domandi la condanna del debitore non esercita un’azione di danno, ma un’azione di adempimento.
La stessa esecuzione forzata non è un “risarcimento” per il creditore, ma la coattiva realizzazione di quel risultato non garantito spontaneamente dal debitore.
Dalla distinzione tra prestazione dovuta e risarcimento del danno discende che l’imposta non versata dall’evasore non costituisce – di norma – per l’erario un “danno” in senso tecnico.
In primo luogo perché il credito accertato e non adempiuto spontaneamente non è perduto, ma se ne potrà esigere l’esecuzione forzata.
In secondo luogo perché l’amministrazione finanziaria dispone d’una vasta gamma di strumenti sostanziali, processuali e cautelari per tutelare le proprie ragioni e riscuotere i propri crediti tributari. L’esistenza di tali strumenti, e la concreta possibilità di ricorrervi, impedirà di norma all’erario di pretendere a titolo di risarcimento del danno l’importo dell’imposta evasa. Gli atti di imposizione o di accertamento compiuti dall’amministrazione finanziaria le consentiranno infatti di procedere alla riscossione coattiva del tributo, e soddisfarsi sul patrimonio del debitore ai sensi dell’art. 2740 c.c..
In terzo luogo, perché l’amministrazione finanziaria è titolata ad emettere provvedimenti idonei ad acquistare ex se l’efficacia del titolo esecutivo, ed il creditore munito di titolo esecutivo senza utilità ne pretenderebbe un secondo, sicché un’azione di danno sarebbe inammissibile per difetto di interesse.
In definitiva, nei rapporti tra l’erario ed il contribuente che abbia commesso un reato tributario, il capitale dovuto da quest’ultimo a titolo d’imposta costituisce l’oggetto dell’obbligazione tributaria, non un “danno” che a quella vada ad aggiungersi ai sensi dell’art. 1218 c.c..
Dunque in tutti i casi in cui l’amministrazione non abbia perduto il diritto di agire esecutivamente nei confronti del debitore, e questi abbia un patrimonio capiente, il danno causato dal reato non può ravvisarsi nell’importo del tributo evaso.
3.7.3. Si è già detto che il debito del contribuente verso l’erario è una obbligazione pecuniaria. L’evasione del tributo costituisce dunque inadempimento d’una obbligazione pecuniaria, e l’inadempimento d’una obbligazione pecuniaria può generare un solo tipo di danni patrimoniali: quelli disciplinati dall’art. 1224 c.c..
Nell’ordinamento tributario gli interessi di mora formano oggetto di una disciplina ad hoc, che deroga all’art. 1224, primo comma, c.c. quanto a saggio applicabile e decorrenza (art. 13, comma 3, d. Igs. 24.9.2015 n. 159). Anche il credito per interessi moratori, tuttavia, deve essere obbligatoriamente liquidato e riscosso secondo le forme della riscossione delle imposte. E l’esistenza di tale obbligo esclude che di tale credito si possa chiedere la liquidazione al giudice penale, a titolo di risarcimento del danno da reato, per le stesse ragioni già esposte al § precedente.
3.7.4. Non può tuttavia escludersi che l’evasione fiscale possa causare all’erario un pregiudizio ulteriore o diverso rispetto a quello ristorato dagli interessi di mora, e per il quale non sia possibile ricorrere agli strumenti di riscossione coattiva previsti dal diritto tributario.
Tali ipotesi, avendo ad oggetto un danno diverso od ulteriore rispetto a quello ristorato ope legis dagli interessi di mora, rientrano nell’ipotesi del “maggior danno” di cui all’art. 1224, secondo comma, c.c.. Infatti il secondo comma dell’art. 1224 c.c. è espressione d’un precetto generale. Pertanto in assenza di norme che ad esso deroghino espressamente è applicabile anche alle obbligazioni tributarie, come ripetutamente affermato da questa Corte (Sez. 5, Sentenza n. 4131 del 20.2.2009; Sez. 5, Sentenza n. 14909 del 28.6.2007; Sez. 5, Sentenza n. 10783 del 11.5.2007; Sez. 5, Sentenza n. 17919 del 6.9.2004; Sez. 5, Sentenza n. 2087 del 04/02/2004).
Quale possa essere nel caso concreto questo “maggior danno” non è ovviamente possibile stabilire a priori. Esso potrà sussistere – ad esempio – allorché in presenza di forti fenomeni inflazionistici l’Amministrazione alleghi e dimostri che la tardiva riscossione del tributo le abbia impedito di adottare adeguate misure per salvaguardare il valore reale del proprio credito; oppure allorché l’evasore abbia con la propria condotta provocato l’impossibilità giuridica o di fatto di riscuotere il credito erariale, per decadenza od altra causa (beninteso, sempre che non ricorrano le condizioni per ritenere prorogato il dies a quo del termine di decadenza, come stabilito in tema di dazi doganali da Corte giust. UE, 16 luglio 2009, in cause C-124/08 e C125/08, Gilbert Snauwaert e altri, e come già ritenuto da questa Corte: Sez. 5 – , Sentenza n. 25979 del 15/10/2019, Rv. 655445 – 01).
Va però escluso che il “maggior danno” di cui si discorre possa ritenersi in re ipsa ed identificarsi nel c.d. “danno funzionale” (e cioè nel “turbamento dell’attività amministrativa” conseguito all’attività di accertamento dell’evasione). L’attività di accertamento è infatti una delle funzioni per le quali gli uffici dell’amministrazione finanziaria sono costituiti e finanziati, e non può ritenersi “danno” ex art. 1218 c.c. lo svolgimento proprio di quell’attività per la quale una struttura amministrativa è costituita.
Un “maggior danno” ex art. 1224, comma secondo, c.c., derivante dalla commissione d’un reato tributario, potrà dunque ammettersi solo a condizione che l’amministrazione deduca e dimostri l’esistenza d’uno specifico pregiudizio, che sia conseguenza immediata e diretta dell’illecito (art. 1223 c.c.), ulteriore o diverso rispetto a quello costituito dal costo della propria normale attività istituzionale (come già ritenuto dalle Sezioni penali di questa Corte: in tal senso, Sez. 5 pen., Sentenza n. 3555 del 1°.2.2022; Sez. 3, Sentenza n. 52752 del 19.12.2014).
3.7.4.1. Le conclusioni che precedono ricevono indiretta conferma dall’evoluzione del quadro normativo.
L’art. 6 del d.l. 31.12.1996 n. 669 (convertito nella I. 28.2.1997, n. 30) stabilì come dovesse effettuarsi il risarcimento spontaneo del danno, nell’ambito del processo penale per reati tributari, chiarendo che degli importi a tal fine versati dovesse “tenersi conto” nella liquidazione dell’imposta dovuta in base all’accertamento tributario.
Tale norma suscitò in parte della dottrina la convinzione che in presenza d’un reato tributario, il “danno da reato” di cui all’art. 185 c.p. consistesse per l’appunto nell’imposta evasa.
La norma, tuttavia, ebbe vita breve, dal momento che fu successivamente abrogata dall’articolo 25, comma 1, lettera m), del d. Igs. 10.3.2000, n. 74, e sostituita dalla introduzione (art. 14 d. Igs. cit.) d’una circostanza attenuante, rappresentata dallo spontaneo versamento di un importo indicato dallo stesso imputato, a titolo di “equa riparazione” nell’ipotesi in cui il credito erariale fosse andato perduto per prescrizione o decadenza.
Ora, se l’imputato d’un reato tributario è ammesso a versare del denaro all’erario a titolo di “equa riparazione” solo quando il credito tributario sia andato perduto, mentre tale facoltà non è prevista nel caso in cui l’erario abbia conservato le proprie ragioni di credito, ciò dimostra indirettamente che solo nel primo, ma non nel secondo caso, il legislatore ha ritenuto ipotizzabile un “danno da inadempimento”, diverso dall’imposta non versata.
3.7.4.2. Resta solo da aggiungere che, ovviamente, ai fini del problema qui in esame non vengono in rilievo le opinioni contenute nella Circolare del Ministero delle Finanze 4 agosto 2000 n. 154.
Con tale Circolare l’amministrazione finanziaria ha ritenuto di fornire “istruzioni operative” agli Uffici finanziari interpretando il d. Igs. 74/2000, e affermando (al g 7.1) che nel caso di costituzione di parte civile degli uffici finanziari le domande da essi avanzate dinanzi al giudice penale, “per quanto non possano essere rappresentate, di per sé, dall’esercizio della pretesa tributaria, potranno avere come contenuto (…) una richiesta di risarcimento del danno coincidente con il debito tributario”.
Ma va da sé, per un verso, che il concetto di “danno risarcibile” ed i suoi limiti sono stabiliti dalla legge (artt. 1223 e ss. c.c.), e non possono essere modulati per mezzo d’un atto, quale la Circolare, che non è fonte del diritto; per altro verso la suddetta Circolare prevede la mera possibilità, ma non certo la necessità, che il danno patito dall’erario coincida col tributo evaso. Possibilità che, per quanto detto, deve ammettersi nelle residuali ipotesi indicate supra, al § 3.7.4.
3.7.5. In conclusione, nel rapporto tra il contribuente e l’erario il danno patrimoniale da evasione penalmente rilevante di cui l’amministrazione finanziaria può chiedere il risarcimento è necessariamente diverso dall’imposta evasa, dalle sanzioni e dagli interessi moratori previsti dalla legislazione speciale, e potrà consistere solo negli eventuali ulteriori o diversi pregiudizi sopportati dalla p.a.. Tali pregiudizi rientrano nella previsione di cui all’art. 1224, secondo comma, c.c., non sono in re ipsa e vanno allegati e dimostrati in modo preciso. Il danno non patrimoniale da evasione penalmente rilevante, ovviamente, resta soggetto alle regole di cui agli artt. 2059 c.c. e 185 c.p..
3.7.6. (B) Evasione fiscale e azione aquiliana: il rapporto tra erario e reo diverso dal contribuente.
Resta da dire dell’ipotesi in cui il reato tributario sia stato commesso da, o col concorso di, persona diversa dal contribuente.
3.7.7. All’esame della questione va premesso che sul punto non sussiste il contrasto tra i due precedenti segnalati dall’ordinanza di rimessione (Cass. pen. 5554/91 e Cass. pen. 52752/14). La sentenza 5554/91, avente ad oggetto una imputazione per false fatturazioni, si limitò infatti ad affermare il principio secondo cui il danno patito dall’amministrazione finanziaria in conseguenza d’un reato tributario non coincide col tributo evaso, ma consiste nello “sviamento e turbamento dell’attività della pubblica amministrazione diretta all’accertamento tributario” (Sez. 3 pen., Sentenza n. 5554 del 22/04/1991, Rv. 187973 – 01).
Quella decisione non si occupò del problema della coincidenza soggettiva tra autore del reato e debitore d’imposta, e non affermò affatto che il danno da reato tributario coincide con l’imposta evasa “quando il soggetto attivo del reato e il soggetto passivo del tributo non coincidono”.
Questa testuale affermazione, mai compiuta dalla sentenza 5554/91, le venne attribuita da una sentenza di merito: quella cassata da Cass. pen. 52752/14.
Nel caso deciso da quest’ultima decisione l’Agenzia delle Entrate si era costituita parte civile nel procedimento penale a carico d’un contribuente che, falsificando le scritture contabili, aveva evaso l’IVA. Il giudice di merito tuttavia rigettò la domanda di danno proposta dall’erario, affermando che un danno si sarebbe potuto risarcire solo “quando il soggetto attivo del reato e il soggetto passivo del tributo non coincidono”, ed attribuendo (erroneamente) tale affermazione a Cass. pen. 5554/91.
La sentenza 52752/14, cassando tale decisione di merito, affermò il principio che il danno causato da un reato tributario può in determinati casi consistere anche nell’importo del tributo evaso, quando la commissione del reato abbia avuto per effetto l’impossibilità per l’erario di recuperarne l’importo con gli ordinari mezzi di riscossione: e ciò a prescindere dal fatto che reo e contribuente coincidano o no.
3.7.8. Venendo dunque al merito della questione, occorre muovere dal rilievo che l’erario nei confronti del contribuente vanta un credito pecuniario. Se dunque l’evasione è agevolata o concausata da un terzo, non possono che darsi due possibilità: o il credito tributario resta esigibile, oppure la sua esazione in conseguenza del reato è divenuta impossibile o di difficile realizzo.
Nel primo caso non è ipotizzabile alcun danno.
Nel secondo caso, se in conseguenza dell’evasione l’erario perde la possibilità di riscuotere il proprio credito, ecco che il terzo avrà arrecato all’erario un pregiudizio che non può definirsi altrimenti che “danno da lesione del credito”.
Il danno da lesione del credito ha tre presupposti: l’esistenza d’un credito; la sopravvenuta impossibilità (fattuale o giuridica) della sua esazione; un nesso di causa tra l’illecito e la perdita del credito (principio pacifico: così già Sez. 1, Sentenza n. 2938 del 13/06/1978, e poi sempre conforme).
Il terzo correo del reato tributario potrà quindi essere chiamato a rispondere nei confronti dell’erario: a) del danno da perdita del credito tributario, se sia dimostrato che in assenza della condotta illecita l’amministrazione finanziaria avrebbe potuto esigere il proprio credito dal contribuente, secondo la regola causale della preponderanza dell’evidenza; b) di eventuali ed ulteriori danni diversi dal tributo evaso, ai sensi dell’art. 1224, comma secondo, c.c., secondo quanto esposto al § 3.7.4 che precede; c) nel caso di corresponsabilità penale, del danno non patrimoniale di cui agli artt. 2059 c.c. e 185 c.p..
3.7.9. (C) Sull’alternatività tra riscossione coattiva del tributo ed azione aquiliana.
Deve escludersi che, nel caso di reati tributari, l’erario possa scegliere tra la riscossione coattiva del tributo e l’azione aquiliana, per la ragione che questa alternativa non è mai data. Nei confronti del contribuente, infatti, l’alternativa tra riscossione coattiva e azione di danno è esclusa dalla già rilevata circostanza che il “danno” in senso tecnico causato dall’evasore all’erario non coincide con l’imposta evasa (supra, § 3.7.2).
Se si ammette che quella tributaria è una obbligazione rientrante nel novero di cui all’art. 1173 c.c., si dovrà conseguentemente ammettere che il tributo non riscosso è la prestazione dovuta dal contribuente, non il danno che dall’inadempimento è derivato.
Nel caso di evasione fiscale dunque non vi può essere alcuna scelta da parte dell’erario tra la riscossione coattiva e l’azione di danno, perché l’azione aquiliana è inutilizzabile per ottenere l’esatta esecuzione della prestazione dovuta.
Nel caso, poi, in cui l’erario abbia diritto di agire ai sensi dell’art. 1224, comma secondo, c.c., per pretendere il ristoro del maggior danno secondo quanto esposto in precedenza, nemmeno è data alcuna facoltà di scelta, perché le forme speciali della riscossione coattiva dei tributi non consentono di esigere il ristoro del “maggior danno” di cui alla norma citata: e dunque la scelta dell’azione ordinaria di danno non avrebbe alternative.
3.7.10. Anche nei confronti di eventuali correi (ex art. 110 c.p) o corresponsabili (ex art. 2055 c.c.) dell’evasione non è possibile alcuna alternativa tra riscossione coattiva del credito tributario e azione di danno. Delle due, infatti l’una: – ) se l’erario ha titolo, in base alla legislazione di settore, per agire in executivis nei confronti di persona diversa dal contribuente, l’esistenza di tale titolo rende inconcepibile l’azione di danno, secondo quanto già detto al § 3.7.2; – ) se l’erario non ha titolo per agire in executivis nei confronti del responsabile diverso dal contribuente, la via dell’azione aquiliana è obbligata e non vi saranno alternative possibili.
3.7.11. (D) Sull’onere della prova.
Dai princìpi sin qui esposti discende la soluzione dell’ultima questione di particolare importanza segnalata dall’ordinanza di rimessione, ovvero come debba ripartirsi l’onere della prova nei giudizi tra l’erario, l’evasore e il terzo correo (o corresponsabile dell’evasione).
3.7.12. Tra erario e contribuente, poiché l’unico danno (patrimoniale) risarcibile è quello di cui all’art. 1224, secondo comma, c.c., spetterà all’erario dimostrarne l’esistenza, l’entità e la derivazione causale dal fatto illecito.
3.7.13. Tra erario e terzo corresponsabile dell’evasione, come s’è visto il fatto costitutivo della pretesa è la perduta possibile di esigere, in tutto od in parte, il credito tributario nei confronti del contribuente.
Spetterà dunque all’erario dimostrare la titolarità del credito; la perdita di questo per fatto del terzo; il nesso di causa tra condotta del terzo e perdita del credito.
Se poi l’erario, per negligenza, trascuri di riscuotere il proprio credito; incorra colpevolmente in prescrizione o decadenze; trascuri di avvalersi degli strumenti di conservazione della garanzia patrimoniale, tali condotte saranno concausative del danno (che è la perdita del credito), e non aggravative di esso. Rientreranno pertanto nell’ipotesi di cui al primo comma dell’art. 1227 c.c., e spetterà al convenuto eccepire e dimostrare che l’erario ha perso il credito per propria negligenza, ai sensi della norma appena citata.
3.8. Alla luce di quanto esposto nei § 3.7 e ss., la quinta censura del terzo motivo di ricorso deve essere accolta. Raffaella Orsero, infatti, in quanto reputata “colpevole del contrabbando”, era debitrice del dazio doganale, giusta la previsione dell’art. 338 d.p.r. 23.1.1973 n. 43. Nei suoi confronti, pertanto, l’erario vantava un credito tributario.
L’evasione non estingue di per sé il credito erariale, per quanto già detto: e dunque l’accoglimento della domanda di danno avrebbe imposto al giudice di merito di accertare la probabile esistenza di un “maggior danno” ex art. 1224, comma secondo, c.c..
Naturalmente, trattandosi di un giudizio limitato all’an debeatur, tali accertamenti sarebbero potuti avvenire anche solo in via probabilistica, secondo quanto già detto; tuttavia non era consentito al giudice di merito parametrare tout court il risarcimento del danno all’imposta evasa.
3.9. Il terzo motivo di ricorso va dunque accolto in parte, in applicazione dei seguenti princìpi di diritto: a) ai fini dell’accoglimento della domanda di condanna generica al risarcimento del danno è sufficiente che l’attore dimostri la colpa e il nesso causale; mentre è sufficiente che l’esistenza del danno appaia anche solo probabile; b) ai fini dell’ammissibilità della domanda di condanna generica al risarcimento del danno non è necessario che l’attore indichi le prove di cui intende avvalersi per dimostrare il quantum debeatur; c) il danno civile all’immagine della pubblica amministrazione può essere arrecato tanto da un pubblico funzionario, quanto da persona estranea all’amministrazione stessa, ed è risarcibile in ambo i casi; d) il danno causato dall’evasione fiscale, allorché questa integri gli estremi di un reato commesso dal contribuente o da persona che del fatto di quest’ultimo debba rispondere direttamente nei confronti dell’erario, non può farsi coincidere automaticamente con il tributo evaso, ma deve necessariamente consistere in un pregiudizio ulteriore e diverso, ricorrente qualora l’evasore abbia con la propria condotta provocato l’impossibilità di riscuotere il credito erariale; e) il danno causato dall’evasione fiscale, allorché questa integri gli estremi di un reato commesso da persona diversa dal contribuente e non altrimenti obbligata nei confronti dell’erario, può coincidere sia con il tributo evaso, sia con ulteriori pregiudizi, ma nella prima di tali ipotesi il risarcimento sarà dovuto a condizione che l’erario alleghi e dimostri la perdita del credito o la ragionevole probabilità della sua infruttuosa esazione; f) nel giudizio di danno promosso dall’erario nei confronti di persona diversa dal contribuente, cui venga ascritto di avere concausato la perdita del credito erariale, spetta all’amministrazione provare l’esistenza del credito, la perdita di esso ed il nesso causale tra la lesione del credito e la condotta del convenuto; spetta, invece, al convenuto dimostrare che la perdita del credito sia avvenuta per negligenza dell’amministrazione, negligenza che rientra nella previsione di cui all’art. 1227, primo comma, c.c..
6. Il sesto motivo del ricorso principale ed il ricorso incidentale condizionato.
Col sesto motivo la ricorrente lamenta, ai sensi dell’articolo 360, n. 3, c.p.c., la “violazione delle decisioni CE 728/94 e 597/00”. Il motivo censura la sentenza d’appello nella parte in cui ha condannato la ricorrente al risarcimento del danno in favore del Ministero delle finanze. Deduce la ricorrente che l’imposta evasa costituiva un’entrata propria dell’Unione Europea, non del Ministero delle finanze; sicché la sentenza impugnata non avrebbe potuto da un lato affermare che la Commissione non avesse “offerto alcuna prova del danno subito”, e dall’altro condannare la convenuta al risarcimento del danno in favore del Ministero delle finanze.
6.1. Con riferimento a tale motivo di ricorso la Terza Sezione civile di questa Corte ha chiesto di stabilire, qualora si ammetta che il danno causato all’erario dal reato di contrabbando possa consistere nel tributo evaso, “se la pretesa risarcitoria debba riconoscersi in capo all’unione europea ovvero in capo allo Stato membro cui attribuito il compito della relativa riscossione”.
6.2. Il motivo è fondato. A partire dal 1970 (decisione del Consiglio del 21 aprile 1970, n. 70/243), l’Unione Europea si è dotata di un sistema di finanziamento autonomo e diretto, attraverso le c.d. “risorse proprie”, e cioè entrate autonome rispetto alle finanze degli Stati membri. Nell’ambito del sistema delle “risorse proprie”, l’art. 2, lettera (b), della Decisione del Consiglio 94/728/CE, Euratom (abrogata dall’art. 10 della Decisione 29/09/2000 n. 597, ma applicabile ratione temporis ai fatti di causa), stabilì che costituiscono entrate proprie dell’Unione, tra le altre, “i dazi della tariffa doganale comune e da altri dazi fissati o da fissare da parte delle istituzioni delle Comunità sugli scambi con i paesi terzi e dazi doganali sui prodotti rientranti nel trattato che istituisce la Comunità europea del carbone e dell’acciaio”. Il successivo art. 8 della medesima Decisione attribuì agli Stati membri il mero compito di provvedere alla riscossione “conformemente alle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative nazionali, eventualmente adattate alle esigenze della normativa comunitaria”.
Da ciò consegue che qualunque fatto illecito che abbia per effetto la perdita del credito tributario avente ad oggetto un tributo “proprio” dell’Unione Europea costituisce un danno per quest’ultima. Lo Stato italiano, tramite i suoi organi, è certo legittimato a domandare tale risarcimento, ma ovviamente nella qualità di soggetto incaricato della riscossione.
Nel presente giudizio, però, la domanda è stata formulata direttamente dalla Commissione Europea, sicché a quest’ultima andava riconosciuta la qualità di creditore del diritto al risarcimento del danno. In tal senso deve pertanto darsi risposta all’interrogativo posto dall’ordinanza di rimessione circa il problema della legitimatio ad causam.
6.3. La fondatezza del sesto motivo di ricorso principale comporta l’assorbimento del ricorso incidentale condizionato proposto dalla Commissione Europea.