Massima
La riserva di legge costituisce una delle estrinsecazioni del principio di legalità ed è intesa, nella sostanza, a scongiurare che gli elementi costitutivi della punibilità vengano previsti e disciplinati da soggetti diversi dal Legislatore, segnatamente dal Governo e dall’Amministrazione pubblica, essendo al primo (a differenza dei secondi) consustanziale la dialettica tra maggioranza e minoranze. Il principio trova tuttavia dei temperamenti sempre maggiori a cagione dell’iper-tecnicismo che caratterizza il mondo contemporaneo, con la necessità talvolta di integrare o comunque di aggiornare le fattispecie (anche incriminatrici) in modo talmente rapido da rivelarsi talvolta incompatibile con il procedimento legislativo puro. Soccorre allora, a livello accentrato, la Corte costituzionale e, a livello diffuso, il giudice penale che, dopo una prima fase storica tutta incentrata sulla disapplicazione dell’atto amministrativo, si è poi orientato verso un controllo di legalità maggiormente improntato al concreto disvalore penale della fattispecie tipica.
Crono-articolo
Nel diritto romano si può richiamare un noto passo di Ulpiano (Digesto, 1.4.1., pr.) secondo il quale”Quod principi placuit, legis habet vigorem”: ha vigore di legge tutto quello che dispone l’Imperatore. Una espressione che richiama la mera legalità formale e che tuttavia corrisponde al primo postulato del positivismo giuridico onde è il ius positum (da chi è legittimato a produrlo) a prescrivere ciò che si deve e ciò che non si può fare.
1865
Il 20 marzo viene varata la legge 2248, il cui allegato E, all’art.5, prevede la possibilità per il giudice ordinario di disapplicare i provvedimenti amministrativi illegittimi, compresi quelli che incidono sul trattamento sanzionatorio penale, come dimostra la dicitura “in ogni altro caso”.
1889
La codificazione liberale Zanardelli, all’art.1, prevede che a definire i fatti penalmente rilevanti e le rispettive pene sia una legge.
1930
Il codice penale Rocco, all’art.1, conferma che a definire i fatti penalmente rilevanti e le rispettive pene deve essere una legge. Al contempo, vengono tuttavia dettate tutta una serie di disposizioni che si riveleranno significative proprio in tema di riserva di legge, e precisamente:
- l’art.43 in tema di colpa specifica, laddove rinvia regolamenti ed ordini che sono atti amministrativi;
- l’art. 251 in tema di inadempimento di contratti di forniture in tempo di guerra, laddove rinvia alla disciplina dei singoli contratti e del relativo inadempimento;
- l’art.259, che sanziona la disobbedienza di un militare o di un agente della forza pubblica che rifiuta o ritarda indebitamente di eseguire quanto gli viene chiesto dall’autorità competente “nelle forme stabilite dalla legge”;
- l’art.323 in tema di abuso d’ufficio, che punisce chi adotta un provvedimento amministrativo violativo di legge o comunque illegittimo;
- l’art.329 in tema di rifiuto o ritardo indebito del militare a dar seguito ad una richiesta dell’Autorità formalmente legittima;
- l’art. 650 in tema di inosservanza del provvedimento dell’autorità “legalmente” dato, che rinvia al contenuto del singolo provvedimento amministrativo: si tratta di disposizione che, prevedendo un provvedimento amministrativo restrittivo della sfera giuridica del privato, si è a lungo prestata a giustificare il potere disapplicativo in bonam partem del giudice ordinario penale ai sensi dell’art. 5 della L.A.C.
- l’art. 679, comma 3, in tema di ordine “legalmente” dato dalla Autorità di consegnare nei termini prescritti materie esplodenti;
- l’art.698 in tema di ordine “legalmente” dato dalla Autorità di consegnare nei termini prescritti armi e munizioni detenute.
1948
La Costituzione (art.25, comma 2) ribadisce che nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso. L’art. 101, comma 2 dichiara poi solennemente che i giudici sono soggetti soltanto alla legge, autorizzando in qualche modo a disapplicare (o comunque a rendere non operativi) gli atti amministrativi che a tale legge non si conformino.
1966
Il 23 marzo esce la sentenza della Corte costituzionale n.26 (norme di polizia forestale) che, in tema di riserva di legge, delinea la teoria della sufficiente specificazione: la legge può assumersi costituzionale solo laddove – in caso di rinvio ad altre fonti per la disciplina penale – indichi, specificandoli, i presupposti, i caratteri, il contenuto ed i limiti del provvedimento normativo sottoordinato che ove trasgredito implica sanzione penale. Un orientamento che tuttavia può essere pericoloso laddove si lasci all’Amministrazione una discrezionalità nella valutazione (scelta) dei comportamenti punibili così ampia da friggere con il principio, per l’appunto, della riserva di legge, per giunta sovrapponendosi a quello di tassatività.
1971
Il 26 aprile esce l’ordinanza della Corte costituzionale n.84 che – con riguardo alla legge 304/68 di rinvio ad un regio decreto del 1873 in materia di polizia ferroviaria – ritiene legittima costituzionalmente la norma primaria che, per ragioni di economia legislativa, operi un rinvio fisso ad una norma sub-primaria già in vigore al fine di disegnare il comportamento punibile.
L’8 luglio esce la sentenza della Corte costituzionale n. 168 che si occupa dell’art.650 c.p. in tema di inosservanza del provvedimento dell’autorità legalmente dato: poiché si tratta di un provvedimento amministrativo individuo e concreto (e non di un atto generale ed astratto come ad esempio un regolamento), per la Corte è da escludere che esso integri il precetto penale, il quale ultimo trova la propria fonte esclusivamente nella legge; la materialità della contravvenzione per la Corte è descritta dal codice tassativamente e in tutti i relativi elementi costitutivi, dovendo dunque escludersi la frizione con il principio della riserva di legge. Il riferimento al fatto che il provvedimento richiamato dall’art. 650 c.p. debba essere “legalmente dato” dall’Autorità prova che esiste (deve esistere) una legge dello Stato che ne specifica in modo sufficiente le condizioni e l’ambito applicativo, e laddove il giudice accerti questo, il principio della riserva di legge deve assumersi rispettato (attraverso la sommatoria tra la legge penale e quella amministrativa che disciplina il singolo provvedimento).
1977
Il 20 gennaio esce la sentenza della Cassazione “Torosantucci”, una delle prime ad assumere che, in caso di titolo a costruire illegittimo, tale illegittimità ne produce la giuridica inesistenza consentendo al giudice penale di disapplicarlo (in malam partem) ai sensi della L.A.C. e di punire come nel caso di vera e propria assenza del detto titolo: né è possibile invocare la propria buona fede, perché essa si risolve in errore di diritto inescusabile ex art. 5 c.p., neanche nel caso specifico del Sindaco che abbia avuto parere favorevole dalla commissione comunale edilizia.
1983
Il 15 giugno escono le sentenze della Cassazione “Tommasini” e “Dalli Cani”, che riprendono la giurisprudenza del caso Torosantucci (e sentenze successive), equiparando dunque l’illegittimità del titolo edilizio (disapplicato) alla relativa assenza, ma che appaiono più garantiste dal punto di vista soggettivo della fattispecie: muovendo dalla presunzione di legittimità dell’atto amministrativo, esse affermano che il costruttore è penalmente responsabile solo in caso di consapevolezza della palese illegittimità dell’atto, una fattispecie della quale viene rinvenuta nella collusione con l’autorità comunale che rilascia il titolo.
1985
Il 13 marzo esce l’ordinanza della sezione III della Cassazione (“Meraviglia”) che – inaugurando un contrasto rispetto ai precedenti della Corte favorevoli alla disapplicazione – si pone nel solco dell’abbandono del riferimento alla disapplicazione medesima di cui all’art.5 della L.A.C., abbracciando la tesi della c.d. tipicità formale: il giudice penale in realtà non disapplica nulla, ma si limita solo a verificare se il fatto tipico si è verificato o meno. Quando il fatto tipico prevede esplicitamente (per espresso richiamo della norma incriminatrice) che l’atto amministrativo incidente sulla fattispecie sia “legittimo” (come nell’ipotesi dell’art.650 c.p.), solo in quel caso è possibile per il giudice constatare l’illegittimità dell’atto e ritrarne tutte le conseguenze in termini di mancata realizzazione della fattispecie penale. Proprio queste fattispecie testimoniano che il giudice penale, in realtà, non può disapplicare: se al giudice penale fosse consentito disapplicare (piuttosto che, più tecnicamente, verificare la tipicità della fattispecie), gli espliciti richiami della norma alla “legittimità” dell’atto non servirebbero, potendolo egli disapplicare in ogni caso. Ulteriore conseguenza che se ne ritrae è che laddove la norma incriminatrice non faccia alcun riferimento esplicito alla “legittimità” dell’atto amministrativo che integra la fattispecie penale – come nell’ipotesi di cui all’art.17, lettera b), della legge n.10.77 in tema di concessione edilizia mancante (ma non, appunto, illegittima) – al giudice penale non è consentito sindacare dal punto di vista “sostanziale” l’atto amministrativo che, per quanto illegittimo, esiste ed è assistito da presunzione di legittimità: è sufficiente che un atto ci sia e che sia stato adottato dall’organo apparentemente legittimato, a nulla rilevando che esso sia, ad esempio, viziato da eccesso di potere. Diversi solo i casi, macroscopici, di assenza formale dell’atto (laddove adottato da organo in difetto di attribuzione, assolutamente privo del potere di provvedere) e di assenza sostanziale dell’atto (perché frutto di attività criminosa tra soggetto pubblico erogante e soggetto privato ricevente): casi entrambi nei quali anche questo orientamento assume l’atto tamquam non esset e disapplicabile, con conseguente punibilità.
1987
Il 31 gennaio esce la sentenza delle SSUU n.3 (Giordano) che – in tema di reati edilizi – risolve il contrasto inveratosi nella giurisprudenza ed esclude l’operatività della disapplicazione ai sensi dell’art.5 della L.A.C. a provvedimenti che non siano restrittivi della sfera giuridica del cittadino: diversamente opinando si consentirebbe al giudice penale un potere di controllo e di ingerenza esterna sull’attività della PA, in violazione del principio della separazione dei poteri. La Corte muove da un analisi della disapplicazione siccome disegnata agli articoli 4 e 5 della L.A.C.: destinatario ne è all’origine il solo giudice ordinario (per giunta con accertamento incidentale, posto che l’atto continua a produrre effetti per chi è rimasto fuori dal giudizio), ed essa riguarda il solo caso di diritti soggettivi conculcati dall’azione della PA (atti repressivi), non anche il caso degli atti ampliativi della sfera giuridica del cittadino; laddove il giudice penale potesse disapplicare anche gli atti ampliativi, si ingerirebbe ab externo sull’attività di perseguimento dell’interesse pubblico demandata per legge alla PA, entrando in rotta di collisione con il principio della divisione dei poteri. Muovendo da questa premessa, il giudice penale può sindacare la legittimità degli atti ampliativi solo quando vi è espressamente autorizzato dal legislatore (come nel caso dell’art.650 c.p., che tuttavia riguarda atti conculcativi), ovvero quando la legittimità/illegittimità dell’atto amministrativo (anche se non esplicitamente menzionata nella norma incriminatrice) rientra comunque tra gli elementi essenziali del fatto di reato; per verificare tale ultima circostanza, occorre muovere dall’interesse penalmente tutelato: laddove detto interesse si identifichi con quello all’osservanza delle norme di diritto amministrativo sostanziale che disciplinano l’attività edilizia, ogni frizione con detto interesse (affiorante dal costruire sulla base di un atto anche solo illegittimo) sarebbe penalmente sanzionabile; ma in realtà per la Corte l’interesse tutelato dall’art.17 della legge 10.77 è quello (meramente formale) a che chi vuole edificare non lo faccia autonomamente, ma chieda l’autorizzazione preventiva alla competente PA, con la conseguenza che se detta autorizzazione è stata chiesta ed ottenuta, ancorché sia illegittima, il privato può costruire senza essere sottoposto a sanzione penale anche se il suo intervento costruttivo è contrario alla disciplina urbanistica; mentre laddove costruisca in modo pienamente conforme alla disciplina urbanistica, e tuttavia senza chiedere preventivamente la “concessione edilizia”, egli è comunque assoggettabile a sanzione penale.
1989
Il 9 gennaio esce la sentenza della III sezione della Cassazione che rispolvera la disapplicazione in materia di reati edilizi, la cui operatività era stata negata dalle SSUU nel 1987: dire che in caso di atti ampliativi la disapplicazione non è ammessa significa, per la Corte, conculcare grandemente la possibilità per il giudice ordinario penale di scandagliare gli atti amministrativi, peraltro in qualche modo contra legem, in quanto l’art. 5 della L.A.C., laddove dice “in ogni altro caso”, sembra ammettere la disapplicazione anche degli atti ampliativi.
1990
Il 14 giugno esce la sentenza della Corte costituzionale n.282, secondo la quale un problema di riserva di legge si pone soprattutto quando la legge viene prima e la norma sub-legislativa di integrazione viene varata dopo; allorché invece, all’opposto, la norma sub-primaria sia già in vigore e sia fatta oggetto di un richiamo a fini punitivi dalla legge ordinaria successiva, non si pongono problemi di compatibilità con il principio della riserva di legge laddove si tratti di rinvio fisso, mentre più pericoloso è il rinvio mobile, nel quale ultimo caso non deve perdurare la facoltà per la PA di mutare, sostituire o abrogare il proprio atto preesistente integrativo della legge. La medesima pronuncia si occupa del potere di sindacato del giudice penale sull’atto amministrativo (nel caso di specie, concessione edilizia in sanatoria, palesemente illegittima): la questione dei limiti alla disapplicazione del giudice penale ai sensi degli articoli 4 e 5 della L.A.C. viene giudicata (con riguardo al caso di specie) manifestamente infondata, in quanto il realtà il giudice può ampiamente disapplicare (anche in malam partem) l’atto amministrativo, non soltanto in caso di collusione tra privato e funzionario, ma in presenza di qualunque vizio che derivi all’atto dalla violazione della legge penale, come ad esempio nel caso dell’art.328 c.p. (omissione di atti d’ufficio), laddove l’istanza di concessione in sanatoria del privato richieda un accertamento di conformità alla disciplina urbanistica che viene deliberatamente omesso dal funzionario competente al fine di autorizzare, illegittimamente, l’intervento edilizio.
1991
Il 4 giugno esce la sentenza della III sezione n. 6094, in tema di lottizzazione abusiva “materiale” (concreta realizzazione di opere difformi dalla disciplina urbanistica, e dunque diversa dalla lottizzazione abusiva “formale”, quale inequivoca destinazione a scopo edificatorio di terreni sulla base di atti giuridici quali il frazionamento e la vendita di lotti et similia), che ritiene che la sanzione penale possa scattare solo quando manca l’autorizzazione a lottizzare, non anche quando tale autorizzazione è stata ottenuta, ma è illegittima per frizione con la disciplina urbanistica: solo in ipotesi di autorizzazione mancante (o comunque inesistente o macroscopicamente invalida), la lottizzazione è davvero abusiva e merita sanzione penale, non potendo negli altri casi il giudice penale disapplicare l’autorizzazione ottenuta, ancorché illegittima.
L’11 luglio esce la sentenza della Corte costituzionale n.333 che abbraccia la teoria della riserva di legge tendenzialmente assoluta in una fattispecie in materia di stupefacenti: la norma censurata viene giudicata costituzionalmente legittima perché i parametri che essa detta alla PA sono vincoli sufficienti a restringerne la discrezionalità riservandole una valutazione strettamente tecnica.
1992
Il 21 ottobre esce la sentenza delle SSUU “Molinari” che, pronunciandosi su una fattispecie in tema di distruzione o deturpamento di bellezze naturali ex art.734 c.p., afferma l’autonomia della tutela penale (e del sindacato del giudice penale) rispetto alla sfera decisionale riservata alla PA, così avvicinandosi alla tesi della c.d. tipicità sostanziale, sulla base della quale quel che conta è garantire un presidio penale al bene tutelato, ancorché ciò possa comportare – nell’ottica dell’accertamento del fatto tipico – equiparazione di un provvedimento illegittimo ad un provvedimento mancante (e, dunque, sostanziale disapplicazione in malam partem).
1993
Il 21 gennaio esce una sentenza della III sezione della Cassazione che ritiene inesistente, e quindi disapplicabile in malam partem, una concessione edilizia che sia patentemente in contrasto con il PRG per vizio grave, sostanziale e non meramente procedimentale: la pronuncia implementa il sindacato del giudice penale sull’atto amministrativo, in quanto l’atto dal punto di vista del diritto amministrativo non sarebbe inesistente, ma il giudice penale lo considera tale a cagione della gravità sostanziale del vizio riscontrato.
Il 21 dicembre esce la sentenza delle SSUU n. 11635 (Borgia), che torna sulla questione della possibile disapplicabilità dei provvedimenti amministrativi ampliativi da parte del giudice penale nell’ipotesi dei reati edilizi: tale disapplicabilità viene esclusa, ma non perché essa sia applicabile solo in caso di atti repressivi (ed interessi oppositivi dei privati), quanto piuttosto perché il giudice penale è chiamato ad applicare, nella sostanza, una norma penale in bianco (l’art. 20 della legge n.47.85), dinanzi alla quale deve non già ingerirsi ab externo sull’azione della PA, quanto piuttosto verificare quale sia l’interesse penalmente tutelato da tale norma penale in bianco e rapportarlo alla specifica fattispecie che è chiamato a scandagliare, al fine di accertare se il comportamento del soggetto ha o meno soddisfatto tale interesse (presidiato da sanzione penale). Si tratta, nella sostanza, di verificare se chi ha costruito lo ha fatto “bene” o meno, dovendosi vedere nell’atto amministrativo concessorio (che amplia la sfera giuridica del privato) un mero elemento extrapenale della fattispecie con valore puramente descrittivo. Non si tratta di ingerirsi nell’attività della PA, quanto piuttosto di identificare in concreto la fattispecie sanzionata e, in caso di comportamento fuori asse del soggetto agente (quand’anche con la complicità dell’Amministrazione), di punirlo. Secondo la Corte, peraltro, la disciplina urbanistica si è evoluta dall’originaria legge del 1150.42 sino alla legge 47.85, con la conseguenza che ormai l’interesse che la norma penale tutela non è più identificabile nella “costruzione previa autorizzazione” e dunque formalmente legittima, quanto piuttosto nella costruzione sostanzialmente conforme all’assetto urbanistico del territorio e, dunque, sostanzialmente legittima. Al fine di operare questa verifica di conformità sostanziale dell’opera (presunta abusiva) rispetto al quadro ordinamentale (a livello di normativa primaria e secondaria) vigente, il giudice penale è chiamato – configurando l’art. 20 della legge n.47.85 una norma penale in bianco – ad andare più a monte, e dunque a scrutinare gli atti amministrativi (in veste di elementi extrapenali descrittivi: PRG e relative norme tecniche di attuazione, regolamento comunale, regolamento edilizio, altri atti pianificatori, concessione edilizia) al fine di verificare se l’opera realizzata possa o meno considerarsi lecita dal punto di vista penale. La conclusione è che il giudice penale non disapplica nessun atto amministrativo, ma conosce degli atti amministrativi al solo fine di verificare se, sul piano sostanziale e concreto, l’opera divisata è conforme o meno all’assetto urbanistico ed edilizio vigente, dovendo in caso contrario punire anche se il soggetto ha ottenuto un titolo edilizio (che, come tale, si palesa sostanzialmente illegittimo). Dato il bene (interesse) tutelato – costruire in modo conforme all’ordinamento urbanistico-edilizio – il giudice penale accerta la fattispecie concreta (opera costruita) e la confronta con quella astratta (in bianco, ma integrata in via extrapenale dagli atti amministrativi) e, in caso di contrasto, punisce senza disapplicare nulla.
2001
Il 29 gennaio esce la sentenza della III sezione “Matarrese ed altri”, che in tema di lottizzazione abusiva corregge il proprio precedente orientamento e ritiene che essa configuri un reato a consumazione alternativa, dovendosi assumere configurabile a) nel caso in cui manchi l’autorizzazione (lottizzazione abusiva formale); ovvero b) nel caso in cui l’autorizzazione a lottizzare vi sia, ma contrasti con le previsioni degli strumenti urbanistici (lottizzazione abusiva sostanziale). Il problema (come nell’analogo caso dei titoli edilizi) non è quello di presidiare penalmente il controllo della PA sull’attività urbanistica, ma quello di garantire penalmente che detta attività sia pienamente conforme alle norme urbanistiche vigenti.
2002
L’8 febbraio esce la sentenza delle SSUU n. 5115, che in tema di lottizzazione abusiva conferma gli approdi già raggiunti dalle SSUU del 1993, Borgia con riguardo ai titoli edilizi, risolvendo il contrasto sorto in seno alla III sezione della Corte. Lo scopo del giudice penale non è quello di verificare se esiste o meno un dato atto amministrativo (l’autorizzazione a lottizzare), assolvendo nel primo caso e punendo nel secondo; il giudice penale deve piuttosto verificare – anche laddove un atto amministrativo sicuramente vi è, con ampliamento della sfera giuridica privata – se è stata integrata o meno la fattispecie penale e, dunque, se è stato leso l’interesse (bene) penalmente presidiato, che si compendia nel pieno rispetto da parte del soggetto agente della disciplina urbanistica vigente, dovendo punire laddove il bene dell’ordinato assetto urbanistico sia stato leso anche se un provvedimento autorizzativo (illegittimo) in realtà vi è stato: l’autorizzazione rientra tra quegli elementi di natura extrapenale, con effetto descrittivo, che contribuiscono a delineare la fattispecie penale, la cui concreta integrabilità è l’unico oggetto reale della verifica del giudice, il quale non disapplica nulla, verificando solo se la costruzione è “urbanisticamente” lecita o illecita. L’obiettivo è quello di garantire la concreta conformazione del territorio siccome derivata dalle scelte di programmazione effettuate dalla legge o dalla disciplina di piano.
Il 01 marzo escono le sentenze gemelle della III sezione n. 8032-33-34-35-40 che ribadiscono quanto già insegnato, in tema di lottizzazione abusiva, dalle SSUU con la sentenza 5115, chiarendo che trattasi di un reato a consumazione alternativa che si realizza: a) per difetto di autorizzazione a lottizzare; b) per autorizzazione a lottizzare presente, ma contrastante con le prescrizioni della legge e degli strumenti urbanistici.
2004
Il 30 marzo esce la sentenza della III sezione n. 15299 della Cassazione che, nell’abbracciare la tesi sostanzialistica con riguardo al sindacato del giudice penale sull’atto amministrativo, parte dall’art.101 Cost. – il giudice è soggetto soltanto alla legge – per affermarne il potere di vagliare la legittimità di tutti gli atti amministrativi (nel caso di specie, edilizi: concessione edilizia, concessione in sanatoria, condono): poiché l’attività edilizia è soggetta ad autorizzazioni, concessioni e in genere atti ampliativi, laddove tali atti siano illegittimi (e dunque non conformi alla legge, dal punto di vista sostanziale e non solo formale) tale relativa caratteristica patologica (illegittimità sostanziale) non può non rifrangersi sulla fattispecie penale a tutela del bene protetto (assetto urbanistico ed edilizio del territorio), a meno che non intervengano cause di giustificazione.
2006
Il 15 marzo esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 9121 in tema di immigrazione: la fattispecie (disapplicazione in bonam partem) è quella del Prefetto che ha adottato un decreto di espulsione, al quale fa seguito l’ordine del Questore allo straniero di lasciare il territorio nazionale, che tuttavia è motivato per relationem rispetto al precedente decreto di espulsione prefettizio. Laddove lo straniero non esegua l’ordine del Questore, si tratterebbe di reato ex art. 14, comma 5.ter, del decreto legislativo 286/98 (prima della riformulazione del 2011), ma tale ordine, motivato solo per relationem, viene assunto illegittimo per violazione dell’art. 3 della legge 241/90, e viene disapplicato in bonam partem. Il Questore deve infatti dare seguito al provvedimento prefettizio, ma è munito di discrezionalità tecnica potendo alternativamente far accompagnare lo straniero alla frontiera, ovvero trattenerlo presso un centro di accoglienza, ovvero ordinargli di lasciare il territorio dello Stato entro 5 giorni, sicché la motivazione per relationem va considerata illegittima.
Il 21 giugno esce la sentenza della III sezione n. 21487 che conferma – in tema di reati edilizi – l’impostazione “sostanzialistica” della sentenza delle SSUU del 1993 Borgia, escludendo l’operatività della disapplicazione: l’atto amministrativo (titolo edilizio) non viene scrutinato incidentalmente nella relativa legittimità dal giudice penale, ma costituisce elemento costitutivo dell’illecito penale.
2008
Il 28 febbraio esce la sentenza delle SSUU n. 19601 – in tema di sindacato del giudice penale su atti giurisdizionali di altri giudici – secondo la quale il giudice penale investito del giudizio relativo a reati di bancarotta (artt. 216 e seguenti della legge fallimentare) non può sindacare la sentenza dichiarativa di fallimento non solo quanto al presupposto oggettivo dello stato di insolvenza della impresa ma anche quanto ai presupposti soggettivi inerenti alle condizioni previste dall’art. 1 l. fall. per la fallibilità dell’imprenditore; pertanto, le modifiche apportate all’art. 1, l. fall. (prima dal decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5 e poi dal decreto legislativo 12 settembre 2007, n. 169) non esercitano influenza, ai sensi dell’art 2 c.p., sui procedimenti penali in corso. Secondo la Corte ogni sentenza, anche se non definitiva, laddove applica la legge, ha un valore erga omnes e non può essere sindacata e/o disapplicata da un altro giudice: essa può essere messa in discussione solo dalle parti legittimate attraverso i mezzi di impugnazione (ordinari e straordinari) previsti dalla pertinente disciplina processuale.
Il 22 aprile esce la sentenza della III sezione n. 26144, che si occupa del caso in cui sia intervenuto un provvedimento amministrativo di sanatoria di abuso edilizio (genericamente, “concessione in sanatoria”), con effetti estintivi della fattispecie penale (contravvenzione) corrispondente: laddove tale atto amministrativo sia illegittimo, il giudice penale che accerta il mancato verificarsi dell’effetto estintivo del reato – secondo la Corte – non disapplica il provvedimento amministrativo ai sensi dell’art.5 della L.A.C. ma verifica il contrasto tra la costruzione e le norme urbanistiche vigenti, con conseguente lesione dell’interesse penalmente tutelato (assetto del territorio pienamente conforme alle scelte urbanistiche operate). In realtà la dottrina critica questa impostazione in quanto – a differenza delle ipotesi di concessione edilizia o di autorizzazione alla lottizzazione – qui il provvedimento amministrativo non incide ab interno sulla fattispecie incriminatrice, contribuendo (quale elemento extranormativo) ad integrarla – ma opera “ab externo” rispetto ad essa, influendo sulla eventuale estinzione del reato già consumato, con conseguente piena disapplicabilità “tecnica” dell’atto in questi casi (proprio perché esterno alla fattispecie penale).
2010
L’8 aprile esce la sentenza della I sezione della Cassazione che si occupa della fattispecie – in tema di immigrazione – del provvedimento del Questore che fa seguito al decreto di espulsione del Prefetto, ribadendo che l’illiceità penale ai sensi dell’art.5.ter del decreto legislativo n.286.98 va esclusa quando il Questore si limiti a motivare per relationem rispetto al provvedimento espulsivo del Prefetto.
2012
L’8 febbraio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 9157 secondo la quale l’art.650 c.p. è conforme al principio della riserva di legge: si è al cospetto di una norma penale in bianco che tuttavia ha carattere sussidiario e scatta solo quando il fatto non costituisca un più grave reato ovvero non sia comunque assistito da una qualche altra forma di risposta sanzionatoria, anche non penale. Quando il fatto è munito di un proprio specifico meccanismo di tutela, anche non penale (ad esempio di tipo processuale o amministrativo), l’art.650 c.p. non è operativo in forza del principio di sussidiarietà, e questo rende tale norma compatibile con il principio della riserva di legge. La Corte, sotto altro profilo, afferma che nel caso di inottemperanza all’ordine dell’autorità, il sindacato del giudice penale sull’atto amministrativo si estende anche al profilo della eventuale illegittimità meramente formale (procedimentale) dell’atto, in funzione della eventuale disapplicazione in bonam partem.
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Il 13 settembre viene varato il decreto legge n.158, meglio noto come decreto “Balduzzi”, il cui articolo 3 – al fine di mitigare il rigore pretorio in tema di colpa medica – esclude la responsabilità del medico per morte o lesioni del paziente nel caso in cui il medico stesso sia incorso in colpa lieve (non anche, dunque, colpa grave) nello svolgimento della propria attività (non ulteriormente perimetrata con riferimento alla idoneità dell’evento ad integrare specifiche figure di reato “altre”, né quanto alla afferibilità a negligenza, imprudenza o imperizia) attenendosi a linee guida e buone pratiche accreditate presso la comunità scientifica.
Il 12 ottobre esce l’importante sentenza della Corte costituzionale n.230 in tema di c.d. overruling delle SSUU e possibile incidenza in mitius sul giudicato sfavorevole.
In un passaggio argomentativo pertinente ratione materiae, il Giudice delle Leggi menziona un orientamento della Corte EDU da tempo consolidato onde la nozione di «diritto» («law»), utilizzata all’art.7 della CEDU deve considerarsi comprensiva tanto del diritto di produzione legislativa che del diritto di formazione giurisprudenziale.
Si tratta di una lettura «sostanziale», e non già «formale», del concetto di «legalità penale», se pure stimolata dalla necessità di tenere conto dei diversi sistemi giuridici degli Stati parte – posto che il riferimento alla sola legge di origine parlamentare avrebbe limitato la tutela derivante dalla Convenzione rispetto agli ordinamenti di common law – è stata ritenuta valevole dalla Corte europea anche in rapporto agli ordinamenti di civil law, alla luce del rilevante apporto che pure in essi la giurisprudenza fornisce all’individuazione dell’esatta portata e all’evoluzione del diritto penale (tra le altre, sentenze 8 dicembre 2009, Previti contro Italia; Grande Camera, 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia; 20 gennaio 2009, Sud Fondi s.r.l. ed altri contro Italia; Grande Camera, 24 aprile 1990, Kruslin contro Francia).
Proprio tale affermazione dimostra peraltro, prosegue la Corte, come, nell’interpretazione offerta dalla Corte di Strasburgo, il principio convenzionale di legalità penale risulti meno comprensivo di quello accolto nella Costituzione italiana (e, in generale, negli ordinamenti continentali). Ad esso resta, infatti, estraneo il principio – di centrale rilevanza, per converso, nell’assetto interno – della riserva di legge, nell’accezione recepita dall’art. 25, secondo comma, Cost.; principio che, secondo quanto reiteratamente puntualizzato dalla Corte, demanda il potere di normazione in materia penale – in quanto incidente sui diritti fondamentali dell’individuo, e segnatamente sulla libertà personale – all’istituzione che costituisce la massima espressione della rappresentanza politica: vale a dire al Parlamento, eletto a suffragio universale dall’intera collettività nazionale (sentenze n. 394 del 2006 e n. 487 del 1989), il quale esprime, altresì, le proprie determinazioni all’esito di un procedimento – quello legislativo – che implica un preventivo confronto dialettico tra tutte le forze politiche, incluse quelle di minoranza, e, sia pure indirettamente, con la pubblica opinione.
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L’8 novembre viene varata la legge n.189 che converte il decreto Balduzzi n.158.
2015
Il 19 febbraio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.7423, Cervino ed altri, che offre una interpretazione costituzionalmente orientata (e tale da non porsi in contrasto con gli articoli 3, comma 1, 25, comma 2 e 27, comma 1 della Costituzione) dell’art.44 del D.p.R. 380.01, testo unico in materia edilizia: ai fini della configurabilità delle ipotesi di reato previste nelle lettere b) e c) di tale norma, non possono assumersi realizzate “in assenza” di permesso di costruire le opere che hanno alla base un provvedimento abilitativo della PA meramente illegittimo, salvo che non si giunga alla soglia della collusione illecita o che, comunque, tale titolo abilitativo sia macroscopicamente illegittimo, solo in questi casi potendosi ritenere “mancante” anche a fini penali. La Corte precisa di porsi, con questo arresto, in linea di sostanziale continuità con la evoluzione giurisprudenziale in tema di reati urbanistici e riserva di legge, non potendosi assumere valida l’automatica equazione tra illegittimità dell’atto amministrativo (titolo edilizio) e reato urbanistico; solo ragionando in questi termini può infatti scongiurarsi la frizione con il principio di responsabilità penale per fatto proprio colpevole (l’adozione di un provvedimento favorevole da parte della PA è idoneo ad ingenerare nel privato un certo affidamento) e con quello che vieta una equiparazione ermeneutica (che sarebbe in malam partem) tra titolo assente e titolo meramente illegittimo. In proposito, al fine di individuare quali situazioni di illegittimità rendono il titolo abilitativo improduttivo di validi effetti anche a fini penali, occorre giocoforza fare riferimento alle finalità della disciplina urbanistica ed ai presupposti per il rilascio del permesso di costruire, individuati dall’art.12 del D.p.R. 380.01, tra l’altro, nella necessaria conformità alla previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e più in generale della normativa urbanistico-edilizia vigente; onde, lasciando da parte il caso in cui il provvedimento sia addirittura illecito, può configurarsi una illegittimità (macroscopica) rilevante anche in sede penale laddove il titolo abilitativo sia palesemente non conforme alla normativa che ne regola l’adozione e alle disposizioni normative di settore. In sostanza, per la Corte va escluso che il solo fatto della esistenza del permesso di costruire escluda ogni valutazione del giudice penale in ordine alla sussistenza del reato, potendo egli accertarne la configurabilità quando il vizio dell’atto sia macroscopico, oltre che nell’ipotesi di collusione illecita tra chi lo rilascia e chi lo ottiene.
2016
Il 21 gennaio esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n.2598 secondo la quale l’esercizio del sindacato incidentale di legittimità del giudice penale sugli atti amministrativi a contenuto normativo è da assumersi ammesso nei soli casi in cui questi siano frutto di attività criminosa del privato o dell’Amministrazione, ovvero siano viziati da illegittimità tale da potersi considerare sostanzialmente mancanti o inesistenti (gravemente nulli). Per la Corte, nelle fattispecie di opere urbanistiche eseguite sulla base di permessi di costruire rilasciati in forza di un regolamento urbanistico ritenuto illegittimo, il contrasto dell’atto normativo presupposto con disposizioni della normativa regionale o nazionale di riferimento che riverbera in illegittimità dell’atto concessorio può rilevare ai fini della valutazione di astratta configurabilità dei reati previsti dall’art.44, lettere b) e c), del D.p.R. n.380.01 in tema di lottizzazione abusiva, ma nei soli casi in cui si manifesti in termini di evidenza macroscopica. La sentenza viene criticata da parte della dottrina laddove – sulla base del riferimento al concetto indeterminato di illegittimità macroscopica dell’atto amministrativo presupposto – finisce per l’avallare un ritorno alla giurisprudenza penale sulla disapplicabilità / inapplicabilità dell’atto amministrativo a fini penali in malam partem, con corredo di possibile sindacato del giudice penale sul merito dell’atto amministrativo; si propone, da parte della dottrina medesima, di distinguere:
- i casi in cui oggetto di sindacato del giudice penale sia un atto amministrativo “normativo” (o gli atti a valle che esso presuppone), laddove è possibile per il giudice penale semplicemente affidarsi al rapporto di gerarchia tra le fonti primaria e secondaria (con conseguente disapplicazione);
- i casi in cui oggetto di sindacato sia invece un atto amministrativo generale, ma non normativo, ipotesi in cui può rilevare la c.d. macroscopica illegittimità al fine di valutare se si è realizzata la fattispecie penale, ma non già in termini “sciolti”, quanto piuttosto facendo riferimento ai rapporti di “simpatia” o di “antipatia” tra gli atti concessori a valle e l’atto generale illegittimo a monte; b.1) nel primo caso (“simpatia”) palesandosi macroscopicamente illegittimo anche l’atto concessorio a valle, mentre b.2) nel secondo (“antipatia”) dovendosi assumere conforme alla fonte primaria il ridetto atto concessorio a valle.
Il 3 novembre esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 46170 che, nel fornire una prima interpretazione dell’art. 452 bis c.p., fornisce chiarimenti utili a definire l’esatta portata di alcuni elementi della fattispecie di inquinamento ambientale. In particolare, per quanto qui interessa, l’avverbio “abusivamente” (“chiunque abusivamente cagiona una compromissione o un deterioramento significativi e misurabili…”), secondo la Corte, deve essere inteso in un’accezione ampia, comprendente la violazione tanto di leggi (statali o regionali) quanto di prescrizioni amministrative. Per quanto concerne in particolare la possibilità di additare come abusive condotte inquinanti che risultino autorizzate sul piano amministrativo, il si pone proprio la nota questione di individuare i limiti del potere di sindacato del giudice penale sull’atto amministrativo che si presenti difforme dalla legge. La dottrina ha in proposito evidenziato come la pertinente giurisprudenza abbia animato due orientamenti che, pur fornendo un differente inquadramento dogmatico a tale potere, giungono entrambi ad ammettere la possibilità di un tale sindacato piuttosto in misura piuttosto ampia; la prima impostazione fa riferimento all’istituto della disapplicazione dell’atto amministrativo ex art. 5, All. E, L. n. 2248 del 1865 (legge abolitrice del contenzioso amministrativo), mentre il secondo, definito “sostanzialistico”, assume invece che, quando il giudice penale accerta profili di illegittimità sostanziale dell’atto amministrativo autorizzatorio richiamato dalla norma penale di fonte primaria, egli null’altro fa che procedere all’accertamento in concreto della sussistenza degli elementi della pertinente fattispecie, non facendo luogo a veruna disapplicazione riconducibile al citato art. 5, All. E, L. n. 2248 del 1865. Qui la Corte di Cassazione segue la seconda impostazione e, al fine di individuare il limite del sindacato in oggetto, richiama talune pronunce che si sono espresse con riferimento al reato di cui all’art.260, D.Lgs. n. 152/2006, laddove si rinviene una clausola di illiceità speciale analoga a quella di cui all’art. 452 bis c.p., onde il carattere abusivo della condotta sussiste qualora l’attività si svolga continuativamente nell’inosservanza di leggi o in difetto di autorizzazioni amministrative (cosiddetta attività clandestina), potendo tuttavia il giudice di merito assumere abusivi anche quei comportamenti tenuti in presenza di autorizzazioni scadute o manifestamente illegittime, dovendosi altresì additare come abusive quelle fattispecie in cui le autorizzazioni non risultino commisurate alla tipologia di attività richiesta, ovvero siano state violate le prescrizioni e/o i limiti delle autorizzazioni stesse, in modo che l’attività non possa più assumersi giuridicamente riconducibile al titolo abilitativo rilasciato dalla competente autorità amministrativa. Può anche accadere, in senso opposto, che il delitto sia non configurabile pur in difetto di autorizzazione, laddove tale atto assuma un rilievo meramente formale e non sia causalmente ricollegabile agli altri elementi costitutivi del fatto (che invece farebbero considerare realizzata la fattispecie incriminatrice). Proprio collocandosi nel solco di questo orientamento sostanzialistico la Corte sembra dunque rivendicare per il giudice penale un ampio potere di sindacato su quegli atti autorizzatori frutto di condotte penalmente illecite, o in quei casi in cui le condotte inquinanti siano state tenute solo apparentemente nel rispetto di autorizzazioni amministrative (autorizzazioni scadute o manifestamente illegittime), evenienze nelle quali l’atto amministrativo può essere incidentalmente qualificato illegittimo, così consentendo l’integrazione dell’elemento oggettivo del reato.
2017
*Il 21 febbraio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.12389 che ribadisce la necessità di una interpretazione costituzionalmente orientata (e tale da non porsi in contrasto con gli articoli 3, comma 1, 25, comma 2 e 27, comma 1 della Costituzione) dell’art.44 del D.p.R. 380.01, testo unico in materia edilizia: ai fini della configurabilità delle ipotesi di reato previste nelle lettere b) e c) di tale norma, non possono assumersi realizzate “in assenza” di permesso di costruire le opere che hanno alla base un provvedimento abilitativo della PA meramente illegittimo, salvo che non si giunga alla soglia dell’illecito o che, comunque, tale titolo abilitativo sia macroscopicamente illegittimo, solo in questi casi potendosi ritenere “mancante” anche a fini penali. La Corte precisa di porsi, con questo arresto, in linea di sostanziale continuità con la evoluzione giurisprudenziale in tema di reati urbanistici e riserva di legge, non potendosi assumere valida l’automatica equazione tra illegittimità dell’atto amministrativo (titolo edilizio) e reato urbanistico; solo ragionando in questi termini può infatti scongiurarsi la frizione con il principio di responsabilità penale per fatto proprio colpevole (l’adozione di un provvedimento favorevole da parte della PA è idoneo ad ingenerare nel privato un certo affidamento) e con quello che vieta una equiparazione ermeneutica (che sarebbe in malam partem) tra titolo assente e titolo meramente illegittimo. In proposito, al fine di individuare quali situazioni di illegittimità rendono il titolo abilitativo improduttivo di validi effetti anche a fini penali, occorre giocoforza fare riferimento alle finalità della disciplina urbanistica ed ai presupposti per il rilascio del permesso di costruire, individuati dall’art.12 del D.p.R. 380.01, tra l’altro, nella necessaria conformità alla previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e più in generale della normativa urbanistico-edilizia vigente; onde, lasciando da parte il caso in cui il provvedimento sia addirittura illecito, può configurarsi una illegittimità (macroscopica) rilevante anche in sede penale laddove il titolo abilitativo sia palesemente non conforme alla normativa che ne regola l’adozione e alle disposizioni normative di settore. In sostanza, per la Corte va escluso che il solo fatto della esistenza del permesso di costruire escluda ogni valutazione del giudice penale in ordine alla sussistenza del reato, potendo egli accertarne la configurabilità quando il vizio dell’atto sia macroscopico, oltre che nell’ipotesi di collusione illecita tra chi lo rilascia e chi lo ottiene.
L’8 marzo viene varata la legge n.24, c.d. Gelli-Bianco, in materia di responsabilità medica, che – nel tipizzare la colpa medica, con particolare riguardo a quella derivante da imperizia – introduce per il caso di morte o lesioni colpose del paziente la causa di non punibilità prevista dall’art.590.sexies, comma 2, del codice penale, onde qualora l’evento si sia verificato appunto a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto. Interessante in particolare l’art.3 della legge che prevede la istituzione di un Osservatorio delle buone pratiche sulla sicurezza nella sanità, destinato a raccogliere i dati utili per la gestione del rischio sanitario e quelli concernenti le buone pratiche per la sicurezza delle cure, giusta predisposizione di linee di indirizzo con l’ausilio delle società scientifiche e delle associazioni tecnico scientifiche delle professioni sanitarie; all’uopo viene previsto un elenco delle società e delle associazioni in parola, che presentino caratteristiche peculiari idonee a garantirne la trasparenza e la capacità professionale scientifica; si tratta nella sostanza di enti deputati ad elaborare, unitamente alla istituzioni pubbliche e private, le raccomandazioni da includere in Linee guida con la finalità di fungere da parametro per la corretta esecuzione delle prestazioni sanitarie con finalità tanto preventive e diagnostiche quanto terapeutiche, palliative, riabilitative e di medicina legale.
Il 3 aprile esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 37787 onde non integra il reato di inosservanza dei provvedimenti dell’autorità (art. 650 cod. pen.) l’inottemperanza dell’ordinanza contingibile e urgente del Sindaco che non riguardi un ordine specifico impartito ad un soggetto determinato e si risolva in una disposizione di tenore regolamentare data in via preventiva ad una generalità di soggetti, in assenza di riferimento a situazioni imprevedibili o impreviste, non fronteggiabili con i mezzi ordinari, non essendo sufficiente l’indicazione di mere finalità di pubblico interesse per radicare – in caso di inosservanza – la responsabilità penale del soggetto attivo.
*Il 24 maggio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.12389 che ribadisce la necessità di una una interpretazione costituzionalmente orientata (e tale da non porsi in contrasto con gli articoli 3, comma 1, 25, comma 2 e 27, comma 1 della Costituzione) dell’art.44 del D.p.R. 380.01, testo unico in materia edilizia: ai fini della configurabilità delle ipotesi di reato previste nelle lettere b) e c) di tale norma, non possono assumersi realizzate “in assenza” di permesso di costruire le opere che hanno alla base un provvedimento abilitativo della PA meramente illegittimo, salvo che non si giunga alla soglia dell’illecito o che, comunque, tale titolo abilitativo sia macroscopicamente illegittimo, solo in questi casi potendosi ritenere “mancante” anche a fini penali. La Corte precisa di porsi, con questo arresto, in linea di sostanziale continuità con la evoluzione giurisprudenziale in tema di reati urbanistici e riserva di legge, non potendosi assumere valida l’automatica equazione tra illegittimità dell’atto amministrativo (titolo edilizio) e reato urbanistico; solo ragionando in questi termini può infatti scongiurarsi la frizione con il principio di responsabilità penale per fatto proprio colpevole (l’adozione di un provvedimento favorevole da parte della PA è idoneo ad ingenerare nel privato un certo affidamento) e con quello che vieta una equiparazione ermeneutica (che sarebbe in malam partem) tra titolo assente e titolo meramente illegittimo. In proposito, al fine di individuare quali situazioni di illegittimità rendono il titolo abilitativo improduttivo di validi effetti anche a fini penali, occorre giocoforza fare riferimento alle finalità della disciplina urbanistica ed ai presupposti per il rilascio del permesso di costruire, individuati dall’art.12 del D.p.R. 380.01, tra l’altro, nella necessaria conformità alla previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e più in generale della normativa urbanistico-edilizia vigente; onde, lasciando da parte il caso in cui il provvedimento sia addirittura illecito, può configurarsi una illegittimità (macroscopica) rilevante anche in sede penale laddove il titolo abilitativo sia palesemente non conforme alla normativa che ne regola l’adozione e alle disposizioni normative di settore. In sostanza, per la Corte va escluso che il solo fatto della esistenza del permesso di costruire escluda ogni valutazione del giudice penale in ordine alla sussistenza del reato, potendo egli accertarne la configurabilità quando il vizio dell’atto sia macroscopico, oltre che nell’ipotesi di collusione illecita tra chi lo rilascia e chi lo ottiene.
Il 2 agosto viene varato il Decreto del Ministro della Salute che istituisce l’Osservatorio delle buone pratiche sulla sicurezza nella sanità, previsto dall’art.3 della legge Gelli-Bianco.
Il 20 settembre esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n. 43123 che afferma sindacabile la scelta del medico di guardia sulla necessità di compiere o meno la visita richiesta quando ha già consigliato la terapia per via telefonica, dal momento che il delitto di cui all’art. 328 c.p. è reato di pericolo che prescinde dalla causazione di un danno effettivo e postula semplicemente la potenzialità del rifiuto a produrre un danno o una lesione. Si tratta di una pronuncia in cui viene nella sostanza esclusa la “disapplicazione in malam partem” di un rifiuto di un atto di ufficio, laddove tale rifiuto assunto dal giudice quale atto illegittimo, sulla scorta tuttavia della struttura precipua della fattispecie incriminatrice scandagliata, assunta come reato di pericolo: non si tratta di disapplicare il rifiuto (quasi assimilandolo ad una omissione) quanto piuttosto di applicare la fattispecie penale, strutturalmente assunta appunto come di pericolo (e non già di danno).
Il 29 settembre viene varato il Decreto del Ministro della Salute che istituisce l’elenco – previsto dall’art.3 della legge Gelli-Bianco – delle società e associazioni che presentano caratteristiche peculiari idonee a garantirne la trasparenza e la capacità professionale scientifica, quali enti deputati ad elaborare, unitamente alle istituzioni pubbliche e private, le raccomandazioni da includere in Linee guida con la finalità di fungere da parametro per la corretta esecuzione delle prestazioni sanitarie con finalità tanto preventive e diagnostiche quanto terapeutiche, palliative, riabilitative e di medicina legale..
Il 10 novembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 51458 che ribadisce l’orientamento per cui, ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 650 c.p., il giudice è tenuto a verificare previamente la legalità sostanziale e formale del provvedimento che si assume violato sotto i tre profili tradizionali della violazione di legge, dell’eccesso di potere e della incompetenza, con conseguente assoluzione dell’imputato che non si sia conformato ad un provvedimento illegittimo sotto uno dei menzionati aspetti; peraltro, ai fini dell’operatività della norma in ottica punitiva, il provvedimento deve riguardare le esigenze tipizzate dalla norma medesima (sicurezza, ordine pubblico, igiene, giustizia) ed i motivi che hanno determinato il provvedimento devono essere formalizzati in esso, da ciò dipendendo la relativa validità ed efficacia.
*Il 4 dicembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 54496 onde ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 650 c.p., il giudice è tenuto a verificare previamente la legalità sostanziale e formale del provvedimento che si assume violato sotto i tre profili tradizionali della violazione di legge, dell’eccesso di potere e della incompetenza, con conseguente assoluzione dell’imputato che non si sia conformato ad un provvedimento illegittimo sotto uno dei menzionati aspetti; inoltre, l’art. 650 c.p. è una norma penale in bianco a carattere sussidiario, applicabile soltanto quando il fatto non sia previsto come reato da una specifica disposizione ovvero allorché il provvedimento dell’autorità rimasto inosservato sia munito di un proprio, specifico meccanismo di tutela. Peraltro, ai fini dell’operatività della norma in ottica punitiva, il provvedimento deve riguardare le esigenze tipizzate dalla norma medesima (sicurezza, ordine pubblico, igiene, giustizia) ed i motivi che hanno determinato il provvedimento devono essere formalizzati in esso, da ciò dipendendo la relativa validità ed efficacia.
2018
Il 15 febbraio esce la sentenza della II sezione della Cassazione civile n. 3740 in tema di sanzioni irrogate per superamento dei limiti di emissioni elettromagnetiche: per la Corte, l’applicabilità della causa di giustificazione riconducibile – in relazione al disposto della L. n. 689 del 1981, art. 4, comma 1, – all’esercizio di una facoltà legittima non può operare allorquando il provvedimento amministrativo autorizzatorio (che legittimi appunto tale facoltà) non si conformi alle prescrizioni inderogabili della fonte normativa sopraordinata che ne legittima l’emissione (dovendo, se del caso, essere disapplicato ai sensi dell’art. 5 L.A.C. 1865-all. E, con effetti in malam partem) e, a maggior ragione, nel caso in cui detto provvedimento sia stato rilasciato in favore del destinatario sotto condizione dell’osservanza delle norme vigenti, oltre che di procedere alle modificazioni necessarie agli impianti, dettate dall’insorgenza di esigenze comunque implicanti il rispetto degli obblighi di legge.
Il 22 febbraio viene pubblicata la sentenza delle SSUU della Cassazione n.8770 che si occupa della responsabilità penale del medico, a titolo colposo, per morte o lesioni del paziente, e della nuova causa di non punibilità di cui all’art.590 sexies c.p. della legge c.d. Gelli-Bianco n.24.17. Per la Corte, per quanto qui di interesse, il medico – nell’attività medico chirurgica – va assunto responsabile se l’evento (morte o lesioni) si è verificato in capo al paziente per colpa – anche lieve – derivante da negligenza o imprudenza; per colpa – anche lieve – derivante da imperizia, laddove il caso concreto non sia regolato da raccomandazioni, linee guida o buone pratiche assistenziali; laddove esse vi siano, per colpa – anche lieve – da imperizia nella individuazione e nella scelta delle linee guida o di buone pratiche clinico-assistenziali non adeguate alla specificità del caso concreto; infine per colpa (solo) grave da imperizia nella esecuzione di raccomandazioni, di linee guida e o buone pratiche clinico-assistenziali adeguate (qui tenendo conto del grado di rischio da gestire e delle speciali difficoltà dell’atto medico). Viene in tal modo confermata una forma di tipizzazione della colpa medica (già in qualche modo prefigurata, seppure con coordinate diverse, nel c.d. Decreto Balduzzi) strettamente agganciata alle c.d. linee guida che tendono sempre più a concretizzare, proprio dal punto di vista della configurabilità di una colpa da imperizia, i precetti legislativi primari, garantendo anche una maggiore tassatività delle pertinenti fattispecie incriminatrici, altrimenti affidate al soggettivismo decisionale del singolo giudice. La Corte specifica tuttavia come non si tratti di norme regolamentari da applicare in ogni caso ed inderogabilmente, dovendo esse piuttosto essere “disapplicate” dagli operatori sanitari laddove non adeguate allo specifico caso ad essi sottoposto, senza dunque rigidi automatismi: in sostanza, talvolta per andare esenti da colpa (e da responsabilità penale) gli operatori sanitari, dinanzi alla specificità di un caso ad essi sottoposto, devono piuttosto non applicare le linee guida individuate come pertinenti.
Il 1° marzo viene varato il decreto legislativo n. 21 che introduce nel codice penale il nuovo art. 3 bis ai sensi del quale “nuove disposizioni che prevedono reati possono essere introdotte nell’ordinamento solo se modificano il codice penale ovvero sono inserite in leggi che disciplinano in modo organico la materia”. Questa nuova disposizione introduce nell’ordinamento la c.d. “riserva di codice” volta a porre un argine all’affastellarsi di norme incriminatrici sparse in diversi testi normativi e, quindi, facilitare la conoscibilità delle norme incriminatrici. Peraltro, la dottrina non ha mancato di evidenziare come il principio sancito sia in effetti privo di efficacia vincolante dal momento che è stato introdotto al livello di legge ordinaria e quindi derogabile da una fonte successiva di pari efficacia.
Il 22 giugno esce la sentenza della Cassazione n. 29035 che si pronuncia circa la possibilità per il giudice penale, in sede di accertamento del fatto di reato, di ritenere non integrata la fattispecie incriminatrice di cui all’art. 650 c.p., nel caso in cui l’ordine emesso dalla pubblica Autorità, violato dall’agente, sia illegittimo. Nel caso di specie, i Giudici di legittimità confermano l’annullamento del decreto di sequestro preventivo, avente ad oggetto un frigorifero e 239 bottiglie di birra, reso dal Tribunale, poiché il provvedimento di divieto emesso dal sindaco, violato dall’agente, era stato emesso dall’autorità amministrativa non competente. Pertanto, viene ribadito il principio di diritto secondo cui non è integrato il reato di inosservanza dei provvedimenti dell’Autorità quando il provvedimento amministrativo violato difetti dei requisiti di legittimità e quindi debba essere incidentalmente disapplicato in sede penale.
L’ 8 ottobre esce la sentenza della Cassazione n 44957, che si pronuncia in tema del carattere sussidiario del reato di cui all’art. 650 previsto e punito dal codice penale, rispetto alla sanzione amministrativa prevista dal legislatore. La Cassazione chiarisce che l’art. 650 cod. pen. è una norma penale in bianco a carattere sussidiario, applicabile solo quando il fatto non sia previsto come reato da una specifica disposizione ovvero allorché il provvedimento dell’autorità rimasto inosservato sia munito di un proprio, specifico meccanismo di tutela, trovando quindi applicazione solo quando l’inosservanza del provvedimento dell’autorità non sia sanzionata da alcuna norma, penale o processuale o amministrativa.
Il 7 dicembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 54841, che si pronuncia in tema di potere di disapplicazione del giudice penale, in sede di accertamento del fatto di reato di cui all’art. 650 c.p. La Corte ribadisce che in tema di accertamento del reato di inosservanza ai provvedimenti emessi dell’Autorità, di cui all’art. 650 c.p.c., il giudice deve previamente accertare la legittimità – sostanziale e formale – del provvedimento che è stato violato, nel caso di specie. Pertanto, quando il provvedimento di carattere contingibile ed urgente (nel caso di specie, i provvedimenti previsti dall’art. 54, comma 4, del T.U.E.L. – D.Lgs. 267/2000), non sia stato emesso dall’Autorità legalmente competente, (nel caso di specie, dal solo dirigente amministrativo e non dal Sindaco) non può ritenersi integrato il reato di cui all’art. 650 c.p.
2019
Il 18 gennaio 2019 esce la sentenza della I sezione della Cassazione, n. 2365, la quale si occupa di chiarire il potere di disappplicazione del giudice penale nei confronti del provvedimento di rimpatrio emesso dal questore (nel caso di specie, si trattava di una misura di prevenzione, disposta dal questore per aver commesso lo straniero il reato previsto dall’art. 76, comma 3, D.L. vo n° 159 del 2011). La Cassazione chiarisce che il provvedimento questorile di rimpatrio che risulti privo di motivazione o insufficientemente motivato può essere disapplicato dal giudice penale che, attraverso un sindacato di legittimità, verifica la conformità del provvedimento stesso alle prescrizioni di legge. Nel caso di specie, il provvedimento del Questore viene ritenuto contrario alla legge perché nel suo corpo motivazionale fa esclusivo riferimento ad episodi di accattonaggio molesto (non più costituenti reato a seguito della dichiarazione di illegittimità costituzionale della fattispecie incriminatrice prevista dall’art. 670 cod. pen.) senza segnalare condotte illecite penalmente rilevanti così come richiesto dall’ad, 1 del D.L. vo n° 159 del 2011 che al n° 3) che indica tra i soggetti cui possono essere applicati i provvedimenti di prevenzione «coloro che debbono ritenersi sulla base di elementi di fatto, essere dediti alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo … la sicurezza o la tranquillità pubblica».
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Il 4 aprile esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 14725 onde non tutti gli interventi di ristrutturazione edilizia sono soggetti al previo rilascio del menzionato titolo, sì che l’esecuzione dei lavori in assenza del medesimo integra il reato di cui all’art. 44, comma 1, lett. b), d.P.R. 380 del 2001.
Rispetto alla definizione di ristrutturazione edilizia data dall’art. 3, comma 1, lett. d) di tale decreto, il successivo art. 10, comma 1, lett. c), nel testo oggi vigente, assoggetta al regime del permesso di costruire – salve le ipotesi, che nella specie non ricorrono, della modifica della destinazione d’uso nei centri storici o delle modificazioni della sagoma di immobili vincolati – soltanto quegli interventi che «portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino modifiche della volumetria complessiva degli edifici o dei prospetti». Si tratta degli interventi definiti di ristrutturazione edilizia c.d. “pesante” che, a differenza delle residuali ipotesi rientranti nella categoria – per la cui realizzazione è sufficiente la s.c.i.a. in forza della residuale previsione di cui all’art. 22, comma 1, lett. c), d.P.R. 380 del 2001 – sono assoggettati al previo rilascio del permesso di costruire con conseguente realizzazione della fattispecie penale contestata nel caso di assenza del titolo. Se, per contro, si tratti di ristrutturazione edilizia “leggera” per cui è sufficiente la s.c.i.a., quand’anche non fosse stata corretta la qualificazione dei lavori in termini di risanamento conservativo data dai richiedenti, il fatto non integrerebbe gli estremi del reato contestato.
Il Collegio ritiene che la Corte d’Appello sia probabilmente incorsa in errore per aver fatto applicazione dell’originario testo dell’art. 10, comma 1, lett. c), d.P.R. 380 del 2001, che, tra l’altro, qualificava come ristrutturazioni edilizie pesanti anche gli interventi sopra descritti che comportino «aumento delle unità immobiliari», sicché la motivazione della sentenza impugnata si è limitata a tale rilievo per ritenere la sussistenza del reato senza ulteriormente valutare se vi fosse stato aumento di volumetria.
In quella parte, la disposizione è stata tuttavia modificata dall’art. 17, comma 1, lett. d), d.l. 12 settembre 2014, n. 133 (recante, Misure urgenti per l’apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del Paese, la semplificazione burocratica, l’emergenza del dissesto idrogeologico e per la ripresa delle attività produttive), conv., con modiff., in I. 11 novembre 2014, n. 164, che, interpolando la norma definitoria della ristrutturazione edilizia c.d. “pesante”, ha eliminato il citato riferimento allo “aumento delle unità immobiliari” (oltre a quello, parimenti contenuto nell’originaria disposizione, “delle superfici utili”). Il solo aumento delle unità immobiliari – che, peraltro, di regola già rileva per far ritenere che l’organismo che subisca un tale intervento sia “in tutto o in parte diverso dal precedente” – non determina più, dunque, la necessità di munirsi del previo permesso di costruire, essendo al proposito necessario (al di là delle richiamate ipotesi di lavori nei centri storici o su immobili vincolati) che vi sia una modifica della volumetria complessiva o dei prospetti. Questo accertamento è tuttavia mancato da parte del giudice d’appello.
Occorre, ancora, rilevare, come la citata “novella” che ha modificato l’art. 10, comma 1, lett. c), d.P.R. 380 del 2001 – pur intervenuta successivamente alla consumazione del reato – sia retroattivamente applicabile ai sensi dell’art. 2, quarto comma, cod. pen.
Nel sanzionare penalmente l’esecuzione di lavori in assenza del permesso di costruire, di fatti, la norma incriminatrice di cui all’art. 44, comma 1, lett. b), d.P.R. 380 del 2001 richiama implicitamente proprio l’art. 10, comma 1, del testo unico (rubricato interventi subordinati a permesso di costruire), che vale dunque ad integrare il precetto penale nella sua essenziale struttura, individuando le opere che necessitano di tale titolo abilitativo.
Va pertanto applicato il principio secondo cui, in tema di successione di leggi penali, la modificazione della norma extrapenale richiamata dalla disposizione incriminatrice esclude la punibilità del fatto precedentemente commesso se tale norma è integratrice di quella penale. Nel caso di specie, di fatti, non v’è dubbio che il citato art. 10, comma 1, lett. c), d.P.R. 380 del 2001 integri il precetto penale di cui al successivo art. 44, comma 1, lett. b), incidendo sulla struttura essenziale del reato e quindi sulla fattispecie tipica, sì che il principio di retroattività della norma favorevole, affermato dall’art. 2, comma quarto, cod. pen., si applica anche in caso di successione nel tempo di norme extrapenali integratrici aventi tali caratteristiche.
Viene quindi affermato il principio secondo cui, la modifica dell’art. 10, comma 1, lett. c), d.P.R. 380 del 2001, operata con art. 17, comma 1, lett. d), d.l. 12 settembre 2014, n. 133, conv., con modiff., nella I. 11 novembre 2014, n. 164, che ha escluso dagli interventi di ristrutturazione edilizia subordinati a permesso di costruire quelli che comportino aumento di unità immobiliari o di superfici utili, osta alla riconduzione di tali Ipotesi al reato di costruzione sine titulo di cui all’art. 44, comma 1, lett. b), d.P.R. 380 del 2001 e deve trovare applicazione retroattiva, ai sensi dell’art. 2, quarto comma, cod. pen., quale norma extrapenale più favorevole integratrice del precetto.
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Il 30 maggio esce la sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 24249 che interviene a definire i diversi tipi di interventi edilizi.
Occorre richiamare l’attenzione su quanto già precisato in tema di interventi precari (Sez. 3, n. 31388 del 27/4/2018, Serio, non massimata), ricordando che l’art. 10, lett. a) del d.P.R. 380\01 individua, tra gli interventi edilizi soggetti a permesso di costruire, quelli di nuova costruzione, la cui descrizione viene fornita dall’art. 3 dello stesso T.U. nella lettera e), ove si specifica che si intendono come tali tutti gli interventi di trasformazione edilizia e urbanistica del territorio non rientranti nelle categorie definite alle lettere precedenti (che riguardano, lo si ricorda, gli interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria, di restauro e di risanamento conservativo e di ristrutturazione edilizia). La stessa disposizione specifica, poi, che sono comunque da considerarsi come interventi di nuova costruzione tutta una serie di opere singolarmente indicate in un elenco la cui natura è meramente esemplificativa e ricavata utilizzando le qualificazioni operate dalla giurisprudenza, come emerge dalla semplice lettura della relazione illustrativa al T.U.; ai suddetti interventi vanno poi aggiunti quelli eventualmente individuati con legge dalle Regioni ai sensi del comma terzo del menzionato art. 3 e che pertanto, in relazione all’incidenza sul territorio e sul carico urbanistico, sono sottoposti al preventivo rilascio del permesso di costruire.
Sono dunque soggetti a permesso di costruire, sulla base di quanto disposto dal T.U., tutti gli interventi che, indipendentemente dalla realizzazione di volumi, incidono sul tessuto urbanistico del territorio, determinando una trasformazione in via permanente del suolo inedificato (cfr. Sez. 3, n. 1308 del 15/11/2016 (dep.2017), Palma, Rv. 268847; Sez. 3, n. 4916 del 13/11 /2014 (dep.2015), Agostini, Rv. 262475; Sez. 3, n. 8064 del 2/12/2008 (dep. 2009), P.G. in proc. Dominelli e altro, Rv. 242741 • Sez. 3, n. 6930 del 27/1/2004, laccarino, Rv. 227566; Sez. 3, n. 6920 del 21/01/2004, Perani, Rv. 227565; Sez. 3, n. 38055 del 30/9/2002, Raciti, Rv. 222849 ed altre prec. conf.). Tra gli interventi di nuova costruzione indicati, dall’art. 3, alla lettera e5, citata dalla ricorrente, sono elencati, nella attuale stesura, “l’installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, quali roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni, che siano utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, ad eccezione di quelli che siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee o siano ricompresi in strutture ricettive all’aperto per la sosta e il soggiorno dei turisti, previamente autorizzate sotto il profilo urbanistico, edilizio e, ove previsto, paesaggistico, in conformità alle normative regionali di settore”. La medesima disposizione, che ha subito nel tempo diverse modifiche, era così formulata all’epoca dei fatti per cui è processo: “l’installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, quali roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni, che siano utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, e che non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee”. Le differenze, per quel che interessa nel caso di specie, per la Corte non rilevano, essendo chiara la finalità della norma di considerare interventi di nuova costruzione, quindi soggetti a permesso di costruire, tutte le strutture, di qualsiasi genere, tra le quali sono comprese quelle elencate a titolo di esempio, che siano destinate ad una stabile utilizzazione, non meramente transitoria. L’esplicita menzione di detta tipologia di interventi nel Testo Unico ha, di fatto, codificato la figura giuridica di “costruzione” elaborata dalla giurisprudenza prima dell’entrata in vigore del TU. e nella quale rientravano tutti quei manufatti che, comportando una trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio comunale, modificavano lo stato dei luoghi, in quanto, difettando obiettivamente del carattere di assoluta precarietà, erano destinati almeno potenzialmente a perdurare nel tempo, non avendo peraltro alcun rilievo a riguardo la distinzione tra opere murarie e di altro genere, né il mezzo tecnico con cui fosse assicurata la stabilità del manufatto al suolo (o al muro perimetrale di quello esistente), in quanto la stabilità non va confusa con l’irrevocabilità della struttura o con la perpetuità della funzione ad essa assegnata dal costruttore, ma si estrinseca nell’oggettiva destinazione dell’opera a soddisfare un bisogno non temporaneo (così Sez. 3, n. 9138 del 7/7/2000, RM. in proc. Migliorini T ed altro, Rv. 217217 ed altre prec. conf.). Si è successivamente avuto modo di precisare che, ai fini della individuazione della nozione di costruzione urbanistica, non è determinante l’incorporazione nel suolo indispensabile per identificare, a norma dell’art. 812 cod. civ., il bene immobile, essendo sufficiente la destinazione del bene ad essere utilizzato come bene immobile, con la conseguenza che l’elencazione contenuta nel menzionato art. 3, lett. e) non può considerarsi esaustiva, giacché i parametri indicati possono essere analogicamente applicati ad opere simili (Sez. 3, n. 37766 del 7/7/2005, Terrin, non massimata). A conclusioni analoghe è pervenuta anche la giurisprudenza amministrativa, secondo la quale i manufatti non precari, ma funzionali a soddisfare esigenze permanenti, vanno considerati come idonei ad alterare lo stato dei luoghi, con un sicuro incremento del carico urbanistico, a nulla rilevando la precarietà strutturale del manufatto, la rimovibilità della struttura e l’assenza di opere murarie, posto che il manufatto non precario (es.: gazebo o chiosco) non è deputato ad un suo uso per fini contingenti, ma è destinato ad un utilizzo destinato ad essere reiterato nel tempo in quanto stagionale (Cons. Stato Sez. VI n. 2842 del 3/6/2014). Tali considerazioni coincidono – chiosa ancora la Corte – con la nozione di precarietà dell’intervento edilizio in genere, individuata dalla giurisprudenza della Corte stessa.
Gli interventi edilizi precari, categoria già individuata dalla giurisprudenza e dalla dottrina con inequivocabile indicazione delle specifiche caratteristiche, sono espressamente menzionati dall’art. 6 del d.P.R. 380/01 che, nell’attuale formulazione, li descrive al comma 1, lett. e-bis) come opere dirette a soddisfare obiettive esigenze contingenti e temporanee e ad essere immediatamente rimosse al cessare della necessità e, comunque, entro un termine non superiore a novanta giorni, previa comunicazione di avvio lavori all’amministrazione comunale. In precedenza, il testo unico dell’edilizia conteneva riferimenti indiretti, che riguardavano gli interventi di cui all’art. 3, comma primo, lett. e.5 e quelli per le attività di ricerca descritti nell’art. 6. L’opera precaria, per la stessa natura e destinazione che la compendia, non comporta effetti permanenti e definitivi sull’originario assetto del territorio tali da richiedere il preventivo rilascio di un titolo abilitativo e la giurisprudenza della Corte ha costantemente affermato che l’intervento precario deve necessariamente possedere alcune specifiche caratteristiche: la relativa precarietà non può essere desunta dalla temporaneità della destinazione soggettivamente data all’opera dall’utilizzatore; sono irrilevanti le caratteristiche costruttive i materiali impiegati e l’agevole amovibilità; deve avere una intrinseca destinazione materiale ad un uso realmente precario per fini specifici, contingenti e limitati nel tempo; deve essere destinata ad una sollecita eliminazione alla cessazione dell’uso (cfr. ex. p. Sez. 3, n. 36107 del 30/6/2016, Arrigoni e altro, Rv. 267759; Sez. 3, n. 6125 del 21/1/2016, Arcese, non massimata; Sez. 3, n. 16316 del 15/1/2015, Curti, non massimata; Sez. 3, n. 966 del 26/11/2014 (dep. 2015), Manfredini, Rv. 261636; Sez. 3, n. 25965 del 22/06/2009, Bisulca, non massimata). Nel caso di specie, i necessari requisiti individuati dalla richiamata giurisprudenza mancano del tutto ed, anzi, le caratteristiche costruttive accertate depongono, unitamente alla rilevata alterazione pianovolumetrica e pianoaltimetrica del terreno, per un intervento destinato a durare nel tempo che ha già determinato una modifica dell’originario assetto dell’area su cui insiste; un’ulteriore conferma di una simile evenienza, che il ricorrente non coglie, è data dal fatto che, per dette opere, l’interessato ha ritenuto di dover richiedere un permesso di costruire in sanatoria (il cui rilascio viene ripetutamente enfatizzato in ricorso per sostenere la legittimità dell’intervento edilizio), che non sarebbe affatto necessario per un intervento precario nel senso dianzi individuato, atteso che la natura dell’opera precaria, che non determina stabili trasformazioni del territorio, non richiede per la sua realizzazione, come si è detto, alcun titolo abilitativo.
Deve ribadirsi che al fine di ritenere sottratto un manufatto al preventivo rilascio del permesso di costruire in ragione della relativa asserita natura precaria, la stessa non può essere desunta dalla temporaneità della destinazione soggettivamente data all’opera dal costruttore, ma deve ricollegarsi alla intrinseca destinazione materiale dell’opera ad un uso realmente precario e temporaneo per fini specifici, contingenti e limitati nel tempo, con conseguente possibilità di successiva e sollecita eliminazione, non risultando, peraltro, sufficiente la sua rimovibilità o il mancato ancoraggio al suolo.
La giurisprudenza della Corte ha ripetutamente affermato che il giudice penale ha il potere-dovere di verificare in via incidentale la legittimità del permesso di costruire in sanatoria e la conformità delle opere agli strumenti urbanistici, ai regolamenti edilizi ed alla disciplina legislativa in materia urbanistico-edilizia, senza che ciò comporti l’eventuale “disapplicazione” dell’atto amministrativo ai sensi dell’art. 5 della legge 20 marzo 1865 n. 2248, allegato E, atteso che viene operata una identificazione in concreto della fattispecie con riferimento all’oggetto della tutela, da identificarsi nella salvaguardia degli usi pubblici e sociali del territorio regolati dagli strumenti urbanistici (si veda, da ultimo, Sez. 3, n. 46477 del 13/07/2017, Menga e altri, Rv. 273218, nonché, con riferimento all’autorizzazione paesaggistica, Sez. 3, n. 38856 del 4/12/2017 (dep. 2018), Schneider e altro, Rv. 273703). Si tratta, peraltro, di un indirizzo interpretativo ormai consolidato, rispetto al quale si è dato ripetutamente conto anche di soluzioni interpretative solo apparentemente difformi e di altre, isolate, di non decisiva incidenza rispetto ad una stabile giurisprudenza ormai ultraventennale (si veda, a tale proposito, quanto evidenziato in Sez. 3, n. 50648 del 9/10/2018, Fabbri, non massimata; Sez. 3, n. 56678 del 21/9/2018, Lodice, non massimata; Sez. 3, n. 49687 del 7/6/2018, Bruno non massimata). Il conseguimento del permesso di costruire in sanatoria avrebbe comunque comportato l’estinzione dei soli reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche, non spiegando effetti rispetto alle violazioni del codice della navigazione e del codice dei beni culturali e del paesaggio pure contestate nel presente procedimento.
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Il 10 luglio esce la sentenza della Sezioni Unite della Cassazione n. 30475 che interviene sulla rilevanza penale della coltivazione della cannabis all’indomani dell’entrata in vigore della L. 242 del 2016.
In primo luogo la Corte ricorda che, in base al T.U. stupefacenti, la coltivazione della cannabis e la commercializzazione dei prodotti da essa ottenuti, quali foglie, inflorescenze, olio e resina, secondo la testuale elencazione contenuta nella tabella II, in assenza di alcun valore soglia preventivamente individuato dal legislatore penale rispetto alla percentuale di THC, rientrano nell’ambito dell’art. 73, commi 1 e 4, T.U. stup..
Detta fattispecie, infatti, incrimina, oltre alla coltivazione, la produzione, la fabbricazione, l’estrazione, la raffinazione, la vendita, l’offerta o la messa in vendita, la cessione o la ricezione, a qualsiasi titolo, la distribuzione, il commercio, l’acquisto, l’esportazione, l’importazione, il trasporto, il fatto di procurare ad altri, l’invio, il passaggio o la spedizione in transito e la consegna per qualunque scopo o comunque l’illecita detenzione al di fuori dell’ipotesi dell’uso personale, delle sostanze stupefacenti di cui alla tabella II, dell’art. 14, T.U. stup.. E preme evidenziare che, rispetto al descritto piano repressivo delle attività illecite, il legislatore nell’anno 2014 ha espressamente previsto una sola «eccezione», riguardante la «canapa coltivata esclusivamente per la produzione di fibre o per altri usi industriali, diversi da quelli di cui all’art. 27, consentiti dalla normativa dell’Unione europea» (art. 26, comma 2, T.U. stup.); proprio in tale ambito sostanziale si inscrive la seguente novella del 2016, volta a promuovere la coltivazione della filiera agroindustriale della canapa.
Osservano le Sezioni Unite che il sintagma contenuto nell’art. 1, comma 2, legge n. 242 del 2016, ove è stabilito che le coltivazioni di cui si tratta «non rientrano nell’ambito di applicazione del testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza», delinea l’ambito dell’intervento normativo, che riguarda un settore dell’attività agroalimentare ontologicamente estraneo dall’ambito dei divieti stabiliti dal T.U. stup. in tema di coltivazioni.
Ciò consente di comprendere appieno, sul piano sistematico, la ragione per la quale la novella non ha effettuato alcuna modifica al dettato del T.U. stup., neppure nell’ambito delle disposizioni che inseriscono la cannabis e i prodotti da essa ottenuti nel delineato sistema tabellare. Infatti, la novella del 2016 non aveva necessità di effettuare alcuna modifica al disposto di cui all’art. 14, d.P.R. n. 309/1990 (che, come sopra rilevato, pure comprende indistintamente la categoria della cannabis) poiché il legislatore del 2016 ha disciplinato lo specifico settore dell’attività della coltivazione industriale di canapa, funzionale esclusivamente alla produzione di fibre o altri usi consentiti dalla normativa dell’Unione europea, attività che non è attinta dal generale divieto di coltivazione, come sancito dal T.U. stup., pure a seguito delle recenti modifiche introdotte all’art. 26, comma 2, T.U. stup., dal ricordato decreto-legge n. 36 del 2014. Rafforza il convincimento rilevare che l’originaria versione dell’art. 1 limitava l’applicazione della legge alle coltivazioni con percentuale di tetraidrocannabinolo inferiore allo 0,3 per cento e che l’art. 5 prevedeva l’introduzione di una modifica espressa del richiamato art. 14, comma 1, lett. a), n. 6, T.U. stup., con l’indicazione di un limite soglia di principio attivo, superiore allo 0,5 per cento: ma si tratta di previsioni che non si rinvengono nel testo della legge n. 242 del 2016, definitivamente approvato.
Dette considerazioni inducono di riflesso ad attribuire natura tassativa alle sette categorie di prodotti elencate dall’art. 2, comma 2, legge n. 242 del 2016, che possono essere ottenuti dalla coltivazione agroindustriale di cannabis sativa L.: tanto si afferma, atteso che si tratta di prodotti che derivano da una coltivazione che risulta consentita solo in via di eccezione, rispetto al generale divieto di coltivazione della cannabis, penalmente sanzionato. Rafforza il convincimento considerare che la stessa disposizione derogatoria, di cui all’art. 26, comma 2, cit., nel delimitare l’ambito applicativo della ricordata eccezione in cui si colloca l’intervento normativo del 2016, fa espresso riferimento alla finalità della coltivazione, che deve essere funzionale «esclusivamente» alla produzione di fibre o alla realizzazione di usi industriali, «diversi» da quelli relativi alla produzione di sostanze stupefacenti. Tanto chiarito, si richiama l’elenco dei prodotti che è possibile ottenere dalla coltivazione delle varietà di canapa di cui si tratta (cannabis sativa L.):
- a) alimenti e cosmetici prodotti esclusivamente nel rispetto delle discipline dei rispettivi settori;
- b) semilavorati, quali fibra, canapulo, polveri, cippato, oli o carburanti, per forniture alle industrie e alle attività artigianali di diversi settori, compreso quello energetico;
- c) materiale destinato alla pratica del sovescio;
- d) materiale organico destinato ai lavori di bioingegneria o prodotti utili per la bioedilizia;
- e) materiale finalizzato alla fitodepurazione per la bonifica di siti inquinati;
- f) coltivazioni dedicate alle attività didattiche e dimostrative nonché di ricerca da parte di istituti pubblici o privati;
- g) coltivazioni destinate al florovivaismo.
Rilevano le Sezioni Unite che merita condivisione l’orientamento giurisprudenziale che, muovendo dal rilievo che la legge 2 dicembre 2016, n. 242 ha previsto la liceità della sola coltivazione della cannabis sativa L. per le finalità espresse e tassativamente indicate dalla novella, ha affermato che la commercializzazione dei derivati della predetta coltivazione, non compresi nel richiamato elenco, continua a essere sottoposta alla disciplina del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Sez. 6, n. 56737 del 27/11/2018, Ricci, cit.). Invero, la coltivazione di cannabis sativa L. ad uso agroalimentare, promossa dalla legge n. 242 del 2016, è stata utilmente definita sia mediante l’indicazione della varietà di canapa di cui si tratta, sia in considerazione dello specifico ambito funzionale dell’attività medesima, che non contempla l’estrazione e la commercializzazione di alcun derivato con funzione stupefacente o psicotropa. Pertanto, dalla coltivazione di cannabis sativa L. non possono essere lecitamente realizzati prodotti diversi da quelli elencati dall’art. 2, comma 2, legge n. 242 del 2016 e, in particolare, foglie, inflorescenze, olio e resina.
Conclusivamente osservano le SU che non si rinviene alcun dato testuale, né alcuna indicazione di ordine sistematico, come chiarito, che possa giustificare la tesi – che pure è stata espressa – volta far rientrare le inflorescenze della canapa nell’ambito delle coltivazioni destinate al florovivaismo.
Pertanto, la commercializzazione di foglie, inflorescenze, olio e resina, derivanti dalla coltivazione di cannabis sativa L., integra la fattispecie di reato di cui all’art. 73, commi 1 e 4, T.U. stup., atteso che la tabella II richiama testualmente tali derivati della cannabis, senza effettuare alcun riferimento alle concentrazioni di THC presenti nel prodotto. Ed il fatto che la norma incriminatrice di cui all’art. 73, commi 1 e 4, T.U. stup., riguardante la circolazione delle sostanze indicate dalla Tabella II, non effettui alcun riferimento alle concentrazioni di THC presenti nel prodotto commercializzato, non risulta incoerente rispetto ai limiti di tollerabilità di cui all’art. 4, commi 5 e 7, legge n. 242 del 2016, stante la disomogeneità sostanziale dei termini di riferimento. La norma incriminatrice, infatti, riguarda la commercializzazione dei derivati della coltivazione – foglie, inflorescenze, olio e resina – ove si concentra il tetraidrocannabinolo; diversamente, la novella del 2016, nel promuovere la coltivazione agroindustriale della canapa a basso contenuto di THC, proveniente da semente autorizzata, pone dei limiti soglia rispetto alla concentrazione presente nella coltura medesima, rilevanti anche ai fini della erogazione dei benefici economici per il coltivatore ed elenca tassativamente i prodotti che è possibile ottenere dalla coltivazione, tra i quali non sono ricompresi foglie, inflorescenze, olio e resina.
A questo punto della trattazione le S.U. ricordano l’insegnamento giurisprudenziale che da tempo ha valorizzato il principio di concreta offensività della condotta, nella verifica della reale efficacia drogante delle sostanze stupefacenti, oggetto di cessione. Le Sezioni Unite hanno rilevato che, rispetto al reato di cui all’art. 73, d.P.R. n. 309/1990, non rileva il superamento della dose media giornaliera ma la circostanza che la sostanza ceduta abbia effetto drogante per la singola assunzione dello stupefacente (Sez. U, n. 47472 del 29/11/2007, Di Rocco, Rv. 237856). Successivamente, analizzando la specifica questione afferente alla eventuale inoffensività della cosiddetta coltivazione domestica di cannabis, le Sezioni Unite hanno affermato che è indispensabile che il giudice di merito verifichi la concreta offensività della condotta, riferita alla idoneità della sostanza a produrre un effetto drogante (Sez. U, n. 28605 del 24/04/2008, Di Salvia, Rv. 239920). Si tratta di principi recentemente ribaditi dalla Corte Costituzionale, chiamata ad occuparsi della legittimità del reato di coltivazione di piante stupefacenti, anche nel caso in cui la condotta sia funzionale all’uso personale delle sostanze ricavate (Corte cost., sent n. 109 del 2016). Il Giudice delle leggi, nel dichiarare non fondata la questione, ha ribadito la validità del canone ermeneutico fondato sul principio di offensività, operante anche sul piano concreto, nel momento in cui il giudice procede alla verifica della rilevanza penale di una determinata condotta.
Si tratta di coordinate interpretative di certo rilievo, nella materia in esame, posto che la cessione illecita riguarda inflorescenze e altri derivati ottenuti dalla coltivazione della richiamata varietà di canapa, che si caratterizza per il basso contenuto di THC. Come sopra chiarito, secondo il vigente quadro normativo, l’offerta a qualsiasi titolo, la distribuzione e la messa in vendita dei derivati dalla coltivazione della cannabis sativa L., infatti, integrano la fattispecie incriminatrice ex art. 73, d.P.R. n. 309/1990. Ciò nondimeno, si impone l’effettuazione della puntuale verifica della concreta offensività delle singole condotte, rispetto all’attitudine delle sostanze a produrre effetti psicotropi. Tanto si afferma, alla luce del canone ermeneutico fondato sul principio di offensività, che, come detto, opera anche sul piano concreto, di talché occorre verificare la rilevanza penale della singola condotta, rispetto alla reale efficacia drogante delle sostanze oggetto di cessione.
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Il 10 settembre esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 37475 onde non può ritenersi la sussistenza del reato di lavori sine titulo di cui all’art. 44, comma 1, d.P.R. 380 del 2001 per opere realizzate in forza di un permesso di costruire in base al mero rilievo che lo stesso è stato successivamente revocato o annullato in sede amministrativa o giurisdizionale, dovendosi invece accertare se quel titolo potesse considerarsi già in origine tamquam non esset per il suo contrasto con la disciplina normativa e di pianificazione.
Nell’indagine sulla sussistenza del reato urbanistico demandata al giudice penale, cioè, laddove i lavori si siano svolti in base ad un permesso di costruire ritenuto illegittimo, l’attenzione non va focalizzata tanto (o soltanto) sul fatto se il titolo abbia formalmente perduto efficacia in forza di un provvedimento di revoca o annullamento intervenuto prima dello svolgimento dei lavori — non potendosi, in tal caso, evidentemente dubitare della sussistenza della contravvenzione — quanto sulla circostanza se il titolo, pur apparentemente efficace in costanza di esecuzione delle opere, fosse conforme alla disciplina normativa e urbanistica e, dunque, sussistente ai fini dell’esclusione da responsabilità rispetto al reato di costruzione sine titulo.
Secondo una linea interpretativa risalente e ripetutamente ribadita nella giurisprudenza della Cassazione, di fatti, il giudice penale può conoscere della legittimità dell’atto amministrativo che costituisca oggetto della fattispecie incriminatrice se tale potere trova fondamento e giustificazione nell’ambito della interpretazione ermeneutica della norma penale, qualora la legittimità/illegittimità dell’atto si presenti come elemento essenziale della fattispecie criminosa, ciò che certamente avviene nel caso del reato urbanistico in esame, che ha di mira la tutela sostanziale del territorio, il cui parametro di legalità è dato dalla disciplina degli strumenti urbanistici e dalla normativa vigente.
Posto, dunque, che il permesso di costruire deve essere rilasciato «in conformità alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente» (art. 12, comma 1, d.P.R. 380/2001, ribadito dal successivo art. 13, comma 1, d.P.R. 380/2001), laddove il provvedimento amministrativo, pur formalmente rilasciato, sia irrimediabilmente viziato per contrasto con il modello legale, tale da risolversi in una mera apparenza, ai fini dell’applicazione della disposizione penale lo stesso dev’essere considerato mancante e questa valutazione non viola il principio di legalità vigente in materia penale, né, fatta salva la necessità di accertare l’elemento soggettivo, quello di colpevolezza.
In tempi meno recenti, la stessa Cassazione – proprio decidendo in un procedimento relativo al sequestro preventivo di un immobile costruito in forza di un permesso ritenuto illegittimo – ha affrontato diffusamente il tema della compatibilità costituzionale della disposizione incriminatrice in parola qualora interpretata nel senso di equiparare il titolo illegittimamente rilasciato a quello mancante. La pronuncia ha incidentalmente disatteso, dichiarandola manifestamente infondata, una questione di legittimità costituzionale dell’art. 44 d.P.R. 380/2001 interpretato nel senso dell’equiparazione tra costruzione senza permesso e costruzione in forza di permesso illegittimo (era stata dedotta la violazione degli artt. 3, primo comma, 25, secondo comma, e 27, primo comma, Cost. per irrazionale equiparazione di situazioni diverse, violazione del principio di stretta legalità penale, violazione del principio di necessaria colpevolezza per l’applicazione di sanzioni penali). Ripercorrendo le principali tappe della riflessione giurisprudenziale sul tema, la decisione afferma alcuni principi da cui è stata tratta la massima che segue: «ai fini della configurabilità delle ipotesi di reato previste nelle lettere b) e c) dell’art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001, non possono ritenersi realizzate in “assenza” di permesso di costruire le opere eseguite sulla base di un provvedimento abilitativo meramente illegittimo, ma non illecito o viziato da illegittimità macrocospica tale da potersi ritenere sostanzialmente mancante. (In motivazione la Corte ha evidenziato che tale soluzione esclude sia una irragionevole equiparazione interpretativa “in malam partem” tra mancanza “ah origine” dell’atto concessorio e illegittimità dello stesso accertata “ex post“, sia la violazione del principio della responsabilità penale per fatto proprio colpevole)» (Sez. 3, n. 7423 del 18/12/2014, dep. 2015, Cervino e aa ., Rv. 263916).
L’articolata motivazione, richiamando i precedenti della giurisprudenza di questa Corte in materia e muovendo dai rilievi sulla questione di legittimità costituzionale sollevata, li disattende nell’ottica di un’interpretazione costituzionalmente orientata e contiene diverse affermazioni di principio che possono essere così sintetizzate:
- a) i dubbi di legittimità costituzionale sollevati con riguardo alla tesi interpretativa che, ai fini di cui si discute, equipara il provvedimento illegittimo a quello mancante sono in particolare fugati dalla necessità di verificare in concreto la sussistenza del reato anche con riguardo all’elemento soggettivo;
- b) le contravvenzioni urbanistiche tutelano il bene del territorio in conformità alla pianificazione urbanistica e il giudice penale, pur non potendo procedere alla disapplicazione del provvedimento amministrativo, può effettuarne lo scrutinio di legittimità quando esso costituisce elemento oggettivo della norma incriminatrice;
- c) il provvedimento va ritenuto mancante (e cioè nullo o inesistente e non solo illegittimo) quando provenga da soggetto in assoluto non titolare del potere di emetterlo, ovvero sia privo dei requisiti essenziali di forma e contenuto;
- d) il provvedimento illecito, perché frutto di attività criminosa del soggetto pubblico che lo rilascia o del privato che lo ottiene, è sempre tamquam non esset e va parificato al provvedimento mancante;
- e) pur quando non vi è prova della collusione, tanto che non viene neppure iniziata l’azione penale per altri reati, la macroscopica illegittimità del provvedimento può peraltro indurre a qualificare l’atto in termini di illiceità;
- f) il provvedimento non è mai mancante e non origina responsabilità penale quando sia illegittimo perché affetto soltanto da un vizio procedurale.
Il più marcato profilo di novità della decisione appare essere quello secondo cui, ai fini in parola, sarebbe tuttavia possibile ritenere l’illiceità, in via, per così dire, “presuntiva”, dalla macroscopicità del profilo di illegittimità.
La contravvenzione di esecuzione di lavori “sine titulo” sussiste anche nel caso in cui il permesso di costruire, pur apparentemente formato, sia illegittimo per contrasto con la disciplina urbanistico-edilizia di fonte normativa o risultante dalla pianificazione. A proposito della macroscopica illegittimità del permesso di costruire, nelle citate sentenze Iodice e Minosi si pone in luce come la decisione resa nel procedimento Cervino, qui evocata dalla ricorrente, non si ponga in contrasto con tale conclusione, avendo la stessa soltanto voluto escludere ogni automatismo tra mera illegittimità del titolo abilitativo e sussistenza del reato urbanistico.
Richiamando quanto argomentato nella sentenza Iodice sulla scorta di un illuminante precedente, deve dunque qui ribadirsi che la macroscopica illegittimità del permesso di costruire non costituisce una condizione essenziale per l’oggettiva configurabilità del reato (con ciò dovendosi pertanto rilevare l’infondatezza del contrario assunto contenuto in ricorso), ma rileva soltanto con riguardo alla sussistenza dell’elemento soggettivo di fattispecie, rappresentando un significativo indice sintomatico della sussistenza della colpa richiesta per l’integrazione del reato.
* * *
Il 31 ottobre esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 44523 secondo cui, pur potendo gli interventi di ristrutturazione edilizia «portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente» (così, l’art. 3, comma 1, lett. d, T.U.E.), gli stessi presuppongono comunque – come regola – il mantenimento dell’originaria impronta tipologica del manufatto, trattandosi, secondo la citata norma definitoria, di «un insieme sistematico di opere che…comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell’edificio, l’eliminazione, la modifica e l’inserimento di nuovi elementi ed impianti». Laddove sia eccezionalmente prevista la possibilità di demolire integralmente l’edificio e di ricostruirlo ex novo, ciò che rappresenta il limite estremo di estensibilità di siffatta categoria d’intervento, le opere si mantengono all’interno della stessa soltanto se sia rispettato il volume originario del manufatto, trattandosi, altrimenti, di opera qualificabile come “nuova costruzione” e, vale a dire come organismo edilizio integralmente diverso sul piano tipologico da quello autorizzato con il permesso di ristrutturazione edilizia.
Ciò posto, il Collegio afferma il principio secondo cui, laddove sia stato rilasciato un permesso di costruire per un intervento di ristrutturazione edilizia con ampliamento di volumetria, non è consentita – ed integra l’ipotesi di reato di costruzione in totale difformità dal permesso – l’integrale demolizione e ricostruzione dell’edificio. Ricorre, in particolare, l’ipotesi della totale difformità cd. “qualitativa” di cui all’art. 31, comma 1, prima parte, T.U.E., per essere stato realizzato un «organismo edilizio integralmente diverso per caratteristiche tipologiche…da quello oggetto del permesso stesso».
2020
Il 12 maggio esce la sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 14722 che, in tema di circostanza aggravante speciale dell’ingente quantità di sostanza stupefacente, risponde a due quesiti diversi, strettamente collegati:
“– se mantenga validità il criterio per la determinazione dell’ingente quantità fissato dalla sentenza delle Sezioni Unite Biondi, fondato sul rapporto (1 a 2000) fra quantità massima detenibile come prevista nell'”elenco” allegato al D.M. 11 aprile 2006 e quantità di principio attivo contenuto nella sostanza oggetto della condotta, ferma la discrezionalità giudiziale in caso di superamento del limite così ottenuto;
– come debbano essere individuati i fattori della moltiplicazione il cui prodotto determina il confine inferiore dell’ingente quantità nell’ipotesi di reati concernenti le c. d. “droghe leggere“.
Le Sezioni Unite Biondi avevano risolto il contrasto interpretativo sorto nella giurisprudenza di legittimità dopo che le medesime Sezioni Unite, n. 17 del 21/06/2000, Primavera, avevano affermato il principio secondo cui la circostanza aggravante speciale dell’ingente quantità di sostanza stupefacente prevista dal D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 80, comma 2, la cui ratio legis è da ravvisare nell’incremento del pericolo per la salute pubblica, ricorre ogni qualvolta il quantitativo di sostanza oggetto di imputazione, pur non raggiungendo valori massimi, sia tale da creare condizioni di agevolazione del consumo nei riguardi di un rilevante numero di tossicodipendenti, secondo l’apprezzamento del giudice del merito che, vivendo la realtà sociale del comprensorio territoriale nel quale opera, è da ritenersi in grado di apprezzare specificamente la ricorrenza di tale circostanza.
La sentenza Primavera, pur superando apparentemente il riferimento all’incerta nozione di saturazione di un “mercato illecito” di aleatoria definizione sulla quale la giurisprudenza si era fin lì in sostanziale continuità assestata, aveva concluso nel senso che, perchè potesse parlarsi di quantità “ingente” di stupefacente, fosse necessario che il dato ponderale di sostanza tossica oggetto del procedimento superasse notevolmente, con accento di eccezionalità, la quantità usualmente trattata in transazioni del genere nell’ambito territoriale nel quale il giudice del fatto opera: ma con ciò, sostanzialmente, da un lato, riconducendo nuovamente il concetto a valutazioni collegate a realtà locali, necessariamente differenti, “apprezzate specificamente” dal giudice e riaffidandolo, da un altro, all'”abilità dialettica di chi fornisce la motivazione della decisione”.
A tale pronunzia si era conformata a lungo la giurisprudenza successiva, senza che sulla uniformità di tale orientamento – posto in discussione solo a far data dal 2010 – incidesse in qualche misura l’entrata in vigore del D.L. 30 dicembre 2005, n. 272, convertito con modificazioni dalla L. 21 febbraio 2006, n. 49 (c.d. “Fini-Giovanardi”).
Detto intervento normativo aveva disposto (art. 4-vicies ter) che le sostanze stupefacenti “pesanti” e “leggere” fossero raggruppate senza distinzioni nella medesima tabella, di formazione ministeriale, allegata al D.P.R. n. 309 del 1990 (artt. 13 e 14 D.P.R. cit. come allora novellati) ed unificava la sanzione per i reati ad esse relativi (D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 come emendato dall’art. 4-bis).
Nello stesso tempo la riforma aveva sostanzialmente ripristinato l’originario sistema della predeterminazione della quantità detenibile per uso personale, cioè quello dell’individuazione numerica del limite di irrilevanza penale, attribuendo ad un decreto del Ministro della Salute (D.M. 11 aprile 2006) ed all'”elenco” ad esso allegato il compito di fissare i limiti quantitativi massimi delle sostanze stupefacenti e psicotrope riferibili a tale uso esclusivo (art. 73, comma 1 bis, lett. a): del tutto analogo era infatti il sistema precedente – introdotto con la L. 26 giugno 1990, n. 162, poi confluita nel D.P.R. n. 309 del 1990, art. 75, comma 1, e art. 78, comma 1, lett. c), venuto meno all’esito di referendum popolare (D.P.R. 5 giugno 1993, n. 171) nel quale l’irrilevanza penale era riconosciuta a condotte aventi ad oggetto sostanze “in dose non superiore a quella media giornaliera”, l’individuazione della quantità massima del cui principio attivo tollerato era sempre attribuita ad un decreto ministeriale ed alle tabelle ad esso allegate (si emanò in attuazione il D.M. 12 luglio 1990, n. 186).
Solo con la sentenza Sez. 6, n. 20119 del 02/03/2010, Castrogiovanni si era manifestata l’esigenza di ancorare la nozione di ingente quantità ad un parametro improntato, per quanto possibile, a criteri oggettivi e ciò anche per evitare un insanabile contrasto fra la circostanza aggravante in questione ed il principio di determinatezza, aspetto del più generale principio di legalità presidiato dall’art. 25 Cost., comma 2.
Si sottolineava come ai fini di un’applicazione giurisprudenziale che non offrisse il fianco a critiche di opinabilità di valutazioni, se non addirittura casuale arbitrarietà, fosse necessario meglio definire l’ambito di apprezzamento rimesso al giudice del merito e, di riflesso, quello proprio del sindacato di legittimità; il tutto considerando che la giurisprudenza prodottasi successivamente alla sentenza delle Sezioni Unite Primavera, pur prestandovi formalmente adesione, presentava talvolta risultati di evidente disarmonia a fronte di dati qualitativi/quantitativi e di realtà territoriali in tutto assimilabili.
Ritenendo pertanto che ai fini della configurabilità della circostanza aggravante debba rilevare il criterio oggettivo del numero dei possibili fruitori finali e non l’area dove essi insistono e dunque essenzialmente il valore ponderale dello stupefacente considerato in relazione alla qualità della sostanza e specificato in relazione al grado di purezza, la Sezione sesta prendeva atto dei dati derivanti dall’esperienza giudiziaria, apprezzabili a maggior ragione dalla Corte di cassazione, sede privilegiata di conoscenza in quanto terminale di confluenza di una rappresentazione casistica generale, per concludere che ai fini del riconoscimento della circostanza aggravante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 80, comma 2, non possano di regola definirsi “ingenti” i quantitativi di droghe “pesanti” o “leggere” che, sulla base di una percentuale media di principio attivo per il tipo di sostanza, siano rispettivamente al di sotto dei limiti di 2 kg. e 50 kg.
Altre sentenze, tuttavia, contrastavano espressamente tale orientamento, riproponendo i principi della sentenza “Primavera” e ritenendoli idonei a superare i dubbi di determinatezza della norma; ad avviso di questo secondo filone interpretativo, la predeterminazione dell’indice quantitativo che oggettivamente segna il confine tra la quantità ingente e quella non ingente, finendo col proporsi in sostanza come dato avente valenza normativa, non potrebbe che essere prerogativa del legislatore.
In tale quadro di decisioni confliggenti interveniva la sentenza n. 35258 del 24/05/2012, Biondi. Con essa le Sezioni Unite, preso atto dei perduranti contrasti giurisprudenziali e difformità applicative anche risalenti in ordine al significato da attribuire all’espressione “ingente quantità”, su cui si fonda una circostanza aggravante oggettiva “molto soggettivamente interpretata”, alla quale si ricollegano rilevanti effetti commisurativi in pejus, hanno ricercato e rinvenuto la soluzione del quesito all’interno del sistema approntato dalla legislazione (allora) vigente in tema di stupefacenti.
Il punto di partenza del ragionamento espresso in sentenza è stata la constatazione che la normativa prevedesse espressamente indicatori precisi per la determinazione dei limiti quantitativi entro i quali le condotte descritte dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 1 bis, potevano considerarsi di regola penalmente irrilevanti, così fornendo attraverso dati numerici il discrimine tendenziale fra l'”uso personale”, che non comporta sanzione penale, e le condotte viceversa penalmente represse.
Le Sezioni Unite hanno dunque preso le mosse dal riferimento testuale operato dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 1 bis, lett. a), (come introdotto dalla “Fini-Giovanardi”) ai limiti massimi di stupefacente la cui detenzione è tendenzialmente presunta per uso personale, i quali sono indicati con decreto del Ministro della Salute – adottato di concerto con altre autorità di governo – in un “elenco” ad esso allegato contenente la specificazione del quantitativo massimo di principio attivo detenibile: quantitativo definito espressamente come “soglia” e ricavato – per ogni sostanza – dal prodotto della moltiplicazione del valore della dose media singola espresso in milligrammi per un fattore (“moltiplicatore” variabile in relazione alle caratteristiche di ciascuna sostanza) individuato dal ministero competente.
Dal rilievo diretto e riflesso che il sistema tabellare così delineato ha assunto all’interno della disciplina repressiva dei reati in tema di stupefacenti, le Sezioni Unite hanno considerato di potere e dovere trarre la conclusione della necessità di individuare un parametro numerico anche per la determinazione del concetto di ingente quantità: se il legislatore ha infatti positivamente fissato la soglia quantitativa della punibilità (dunque un limite “verso il basso”), consegue che l’interprete ha il compito di individuare una soglia quantitativa definita al di sotto della quale, secondo i dati offerti dalla fenomenologia del traffico di sostanze stupefacenti, non possa intendersi l’ingente quantità (un limite, quindi, “verso l’alto”).
Assumendo come riferimento il valore-soglia previsto dalla predetta “tabella” (in quanto “unità di misura” rapportabile al singolo cliente/consumatore), le Sezioni Unite hanno pertanto ritenuto di individuare, sulla base dei dati esperienziali relativi al traffico di sostanze stupefacenti come risultante dai casi affluiti alla Corte (riferibili all’intero territorio nazionale e tenuto conto del grado di “purezza” medio relativo alle singole sostanze), una soglia ponderalmente determinata al di sotto della quale non possa di regola parlarsi di quantità “ingente”.
Hanno quindi affermato che, specificando di non usurpare con ciò una funzione normativa ma di svolgere semplicemente un’opera ricognitiva dei dati empirici raccolti, avendo riferimento alle singole sostanze indicate nella “tabella” allegata al D.M. 11 aprile 2006 (cioè il provvedimento previsto dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 1 bis, lett. a), non possa di norma ritenersi “ingente” un quantitativo di sostanza stupefacente che non superi di 2000 volte il predetto valore-soglia espresso in milligrammi di principio attivo (750 mg. per la cocaina, 250 mg. per l’eroina, 1000 mg. per l’hashish: così testualmente in sentenza).
Tale conclusione, ad avviso delle Sezioni Unite, soddisfaceva i criteri di ragionevolezza, proporzionalità ed equità che le stesse Sezioni Unite avevano già ritenuto in materia fondanti (Sezioni Unite n. 17 del 21/06/2000, Primavera); con la specificazione che la soglia in tal modo individuata, proprio perchè volta a definire tendenzialmente la quantità minima indispensabile al fine di ritenere la sussistenza della circostanza de qua, può valere solo “in negativo”, nel senso che il suo superamento non comporta di per sè automaticamente la configurabilità dell’ipotesi aggravata, dovendo comunque soccorrere la valutazione in concreto del giudice di merito.
La giurisprudenza delle sezioni semplici si è adeguata ai principi così espressi, i quali sono stati, tuttavia, posti in discussione in seguito alla vicenda normativa originata dalla sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2014, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del D.L. n. 272 del 2005, artt. 4-bis e 4-vicies ter, come convertito dalla L. n. 49 del 2006, art. 1, comma 1, in riferimento all’art. 77 Cost., comma 2, per difetto di omogeneità, e quindi di nesso funzionale, tra le disposizioni del decreto legge e quelle, impugnate, introdotte nella legge di conversione.
Ed invero, pur avendo il giudice delle leggi espressamente affermato che la disciplina dei reati sugli stupefacenti contenuta nel D.P.R. n. 309 del 1990, nella versione precedente alla novella del 2006, dovesse tornare ad applicarsi non essendosi validamente verificato l’effetto abrogativo, il legislatore ha ritenuto di dover ancora intervenire per regolamentare la materia.
Il D.L. 20 marzo 2014, n. 36, convertito dalla L. 16 marzo 2014, n. 79, nel riscrivere il D.P.R. n. 309 del 1990, artt. 13 e 14 ha così espressamente ripristinato la distinzione, per quanto qui interessa, fra sostanze di tipo “pesante” e sostanze di tipo “leggero”, prevedendo la loro indicazione in tabelle diverse (I e II), inserite nel D.P.R. n. 309 del 1990 ai sensi dell’art. 1, comma 30, del predetto D.L., il cui completamento ed aggiornamento è assegnato ad un D.M., secondo i criteri per la loro formazione fissati dall’emendato art. 14.
Alla rinnovata distinzione tabellare ha quindi fatto seguito – per effetto della “riviviscenza” della disciplina pregressa – la medesima distinzione sanzionatoria per i reati concernenti i diversi tipi di sostanze così come era prevista dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 prima della modifica operata dalla normativa dichiarata incostituzionale.
La novella ha pure parzialmente ridefinito la regolamentazione delle sanzioni amministrative per le condotte aventi ad oggetto sostanze stupefacenti per uso personale, ricollocandola nell’originaria sede del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 75, ma sostanzialmente reiterando la previsione già contenuta nell’art. 73, comma 1 bis, lett. a) della Legge “Fini-Giovanardi”, secondo cui agli effetti dell’accertamento della destinazione ad uso esclusivamente personale deve tenersi conto, insieme ad elementi circostanziali rivelatori dell’intenzione, del dato oggettivo che la quantità della sostanza non sia superiore ai limiti massimi di principio attivo (valori-soglia) indicati con decreto emanato dal Ministro della Salute di concerto con altre autorità di governo.
Il D.L. n. 36 del 2014, come convertito, ha altresì disposto all’art. 2, comma 1, la perdurante efficacia del decreto ministeriale fissante valori-soglia emanato nel vigore della “Fini-Giovanardi”.
All’indomani della riforma si è dunque manifestato un orientamento giurisprudenziale – la cui segnalazione è oggetto dell’ordinanza di rimessione – teso a sollecitare il superamento delle conclusioni cui erano pervenute le Sezioni Unite.
Si deve subito precisare come questo filone interpretativo si sia sviluppato attraverso alcune decisioni, anche graficamente sovrapponibili, per un assai ristretto periodo di tempo e che il contrasto sia stato interamente e definitivamente riassorbito dalla giurisprudenza successiva, univocamente orientata, come si vedrà, nel confermare la persistente validità dei principi affermati dalle Sezioni Unite Biondi.
Secondo detto orientamento, poichè a seguito della sentenza costituzionale n. 32 del 2014 il legislatore ha modificato il “sistema tabellare” che era seguito alla legge “Fini-Giovanardi” ed introdotto quattro nuove tabelle in ordine alle sostanze stupefacenti e psicotrope, la determinazione dei presupposti per l’applicazione dell’aggravante della ingente quantità non potrebbe prescindere da questa impostazione normativa differente.
Non può non rilevarsi, si afferma, che in un quadro che smentisce la ratio della normativa vigente all’epoca dell’approdo giurisprudenziale delle Sezioni Unite – spezzando la sostanziale equiparazione tra il reato attinente a droghe pesanti ed il reato relativo a “droghe leggere”, per di più enucleando come reato autonomo, anche sotto il profilo delle modalità di esecuzione, e non solo dell’entità, del trattamento sanzionatorio, la fattispecie lieve – “tale giurisprudenza dovrà essere rimeditata, in considerazione dell’accresciuto tasso di modulazione normativa, difficilmente compatibile con una interpretazione tendenzialmente soltanto aritmetica e dunque automatica dell’aggravante dell’ingente quantità”.
A questo primo indirizzo se ne è sincronicamente contrapposto un altro secondo il quale per effetto dell’espressa reintroduzione della nozione di quantità massima detenibile ai sensi del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 75, comma 1 bis, come modificato dalla L. 16 maggio 2014, n. 79, di conversione, con modificazioni, del D.L. 20 marzo 2014, n. 36, mantengono validità i criteri enunciati dalla sentenza “Biondi” basati sul rapporto tra quantità di principio attivo e valore massimo tabellarmente detenibile al fine di verificare la sussistenza della circostanza aggravante della ingente quantità, di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 80, comma 2.
Come già anticipato quest’ultimo orientamento, consapevolmente discostatosi da quello opposto, è in breve divenuto univoco.
Le Sezioni Unite condividono le argomentazioni del secondo orientamento citato e le relative conclusioni circa la persistente validità dei criteri fissati nella sentenza “Biondi” per la configurabilità della circostanza aggravante dell’ingente quantità prevista dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 80, comma 2.
Si rileva, infatti, l’erroneo presupposto dal quale muove l’orientamento rimasto minoritario per derivarne la necessità di ridefinire i criteri per l’applicazione della circostanza de qua, e cioè la considerazione che la riforma del 2014 abbia determinato una modifica del sistema tabellare introdotto con la c.d. legge “Fini-Giovanardi” nella vigenza della quale si erano pronunciate le Sezioni Unite.
Il recente intervento legislativo e la L. n. 49 del 2006 (di conversione del D.L. n. 272 del 2005), infatti, si pongono entrambi in continuità con il sistema tabellare già prefigurato fin nella L. 22 ottobre 1954, n. 1041 (in cui si disciplina la compilazione di un “elenco” delle sostanze e preparati ad azione stupefacente a cura del Ministero della Sanità, pubblicato nella G.U. ed inserito nella Farmacopea ufficiale) e quindi realizzato compiutamente con la L. 22 dicembre 1975, n. 685, la quale agli artt. 11 e 12 prevedeva che le sostanze fossero raggruppate in sei tabelle, la prima e la terza delle quali indicanti sostanze stupefacenti e psicotrope di tipo “pesante”, la seconda e la quarta di tipo “leggero”, ricollegando sanzioni di differente gravità alle rispettive violazioni; sistema peraltro integralmente replicato nel T.U. stup. del 1990 (artt. 13, 14 e 73).
In tale continuità di sistema si collocano sia la discrezionale opzione del legislatore del 2006 di unificare la pena per i reati concernenti sostanze “pesanti” o “leggere” mediante lo strumento di tecnica legislativa di indicarle tutte nella medesima tabella, sia quella del legislatore del 2014 il quale, sempre attraverso lo strumento di intervenire sul contenuto delle tabelle, questa volta tornando a distinguerlo, ha realizzato l’intento di nuovamente differenziare la sanzione a seconda dell’efficacia drogante delle sostanze “vigilate” dal Ministero della salute ed ivi elencate.
Nessuna “modifica di sistema” può dunque evocarsi in proposito e così, sotto questo profilo, nessun effetto ermeneutico può riconoscersi alla riforma del 2014 sul significato di “ingente quantità”, intorno alla cui definizione non può attribuirsi influenza alcuna alla rinnovata differenziazione della pena comminata a seconda del tipo di sostanza oggetto del reato: non a caso il concetto di “ingente quantità” definito dalle Sezioni Unite “Primavera” era rimasto del tutto insensibile – come si è più su precisato – all’introduzione della “Fini-Giovanardi”, venendo rimeditato, nelle successive ampie cadenze temporali sopra descritte, non in funzione del disposto accorpamento delle sostanze proibite nella medesima tabella bensì dalla necessità di elaborare un’interpretazione del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 80, comma 2, maggiormente aderente al principio costituzionale di determinatezza.
Unica conseguenza discendente dalla riforma del 2014, del tutto estranea alla ricostruzione teorica per la parte che qui interessa, è dunque esclusivamente quella di differenziare, a seconda della sostanza, la pena base sulla quale deve essere applicato l’aumento per la ricorrenza della circostanza aggravante e non certo quella di riscrivere i criteri per la sua configurabilità, a fronte di un dato normativo rimasto testualmente invariato sin dalla disciplina posta dalla L. n. 685 del 1975, art. 74, il quale al comma 2 espressamente contemplava che “se il fatto riguarda quantità ingenti di sostanze stupefacenti o psicotrope le pene sono aumentate dalla metà a due terzi”, con formula identica a quella contenuta nel D.P.R. n. 309 del 1990, art. 80, comma 2, non modificato nè dalla L. n. 49 del 2006 di conversione del D.L. n. 272 del 2005 (poi dichiarata incostituzionale) nè dal D.L. 20 marzo 2014, n. 36 convertito, con modificazioni, dalla L. 16 maggio 2014, n. 79.
Alcuna interferenza, poi, è dato individuare – nè la giurisprudenza qui non condivisa lo esplica, limitandosi semplicemente ad affermarne valenza ermeneutica – fra la “trasformazione” in reato autonomo della circostanza attenuante del fatto di lieve entità, prevista dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, ed i criteri di valutazione dell’ingente quantità: si tratta di vicenda normativa del tutto eccentrica rispetto alla questione di diritto affrontata dalle Sezioni Unite “Biondi” e conseguentemente del tutto ininfluente sulla sua risoluzione.
E così è a dirsi anche a proposito dei pur evocati ma non precisati effetti interpretativi derivanti dalla nuova disciplina (art. 73, comma 5 bis) delle modalità di esecuzione della pena irrogata o applicata per il predetto reato ove commesso da tossicodipendente o assuntore.
Per esigenze di chiarezza è opportuno altresì precisare che detta “trasformazione” risale ad intervento legislativo precedente alla sentenza costituzionale n. 32 del 2014 e che la riforma ad essa successiva si è limitata a modificare in melius la sanzione ivi prevista.
Tutto ciò premesso, le Sezioni Unite passano a chiarire un equivoco, peraltro diffuso nella giurisprudenza di legittimità e caratterizzante anche le decisioni appartenenti all’orientamento minoritario, che induce a confondere il sistema delle tabelle disciplinato dal D.P.R. n. 309 del 1990, artt. 13 e 14 con il sub-sistema concernente l’individuazione dei limiti quantitativi massimi delle sostanze stupefacenti e psicotrope riferibili ad un uso esclusivamente personale.
Le tabelle previste dal D.P.R. n. 309 del 1990, artt. 13 e 14 e ad esso allegate (ora “inserite”, ex D.L. n. 36 del 2014, art. 30) hanno costituito (in tutte le versioni succedutesi a far data dalla emanazione del T.U. stup.) la fonte legislativa per l’individuazione delle sostanze vietate ed oggetto delle disposizioni sanzionatorie previste nel titolo VIII (“Della repressione delle attività illecite”).
Del tutto diversa è la funzione dell'”elenco” allegato al decreto ministeriale previsto dall’art. 73, comma 1 bis, lett. a) Legge “Fini-Giovanardi”, nel cui vigore si sono pronunciate le Sezioni Unite con la più volte citata sentenza “Biondi”, la quale proprio sull’indicazione normativa della quantità massima di principio attivo detenibile ha fondato la ricostruzione della nozione di “ingente quantità” ricavandola dalla moltiplicazione del valore-soglia per un fattore ricavato dalla concreta esperienza giudiziaria.
Tale sub-sistema è rimasto inalterato dopo la dichiarazione di incostituzionalità della legge “Fini Giovanardi” ed il varo della riforma.
Assume decisivo rilievo, ai fini della risoluzione della questione rimessa alle Sezioni Unite, la circostanza che il D.L. n. 36 del 2014, art. 2, comma 1, come convertito dalla L. n. 79 del 2014, abbia espressamente previsto che riprendano a produrre effetti gli atti amministrativi adottati ai sensi del D.P.R. n. 309 del 1990 sino alla data della pubblicazione della sentenza costituzionale n. 32/14; è stata così integralmente “recuperata” dal legislatore primario l’efficacia del D.M. 11 aprile 2006 contenente “Indicazione dei limiti quantitativi massimi delle sostanze stupefacenti e psicotrope, riferibili ad un uso esclusivamente personale”, cioè proprio l’atto di normazione secondaria che la sentenza “Biondi” aveva posto a base del proprio argomentare partendo dal dato testuale della specifica indicazione numerica di un limite massimo di principio attivo detenibile per giungere, come si è detto, alla fissazione di un limite minimo – pur esso coerentemente fondato su dati numerici – per il riconoscimento della circostanza aggravante dell’ingente quantità.
Al citato decreto ministeriale deve operarsi ora riferimento nell’applicazione del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 75, comma 1 bis, come novellato, il quale pure si pone in continuità normativa, confermandone effetti e ratio, con l’art. 73, comma 1 bis, lett. a), legge “Fini-Giovanardi”, chiaro indice dell’intento del legislatore di mantenere inalterato non solo il sistema tabellare nella sua funzione di selezione delle sostanze proibite (D.P.R. n. 309 del 1990, artt. 13 e 14) ma anche il sub-sistema dell’indicazione – in apposito “elenco” allegato al decreto ministeriale ora previsto dall’art. 75 – dei “limiti quantitativi massimi delle sostanze stupefacenti e psicotrope riferibili ad un uso esclusivamente personale” (così l’intestazione del vigente D.M. 11 aprile 2006).
Escluso dunque che sia individuabile quello che, con formula invero generica, l’indirizzo minoritario definisce “accresciuto tasso di modulazione normativa” per derivarne il superamento del principio fissato dalle Sezioni Unite, deve necessariamente escludersi la ulteriore conseguenza che se ne trae, e cioè quella della sopravvenuta incompatibilità con il sistema delineato dal D.P.R. n. 309 del 1990, come novellato, di un’interpretazione tendenzialmente soltanto aritmetica e dunque automatica dell’ingente quantità.
Solo per completezza si aggiunge come sul punto la giurisprudenza di legittimità, con argomentazione integralmente qui condivisa, abbia da tempo chiarito che il superamento dei parametri enucleati dalla sentenza “Biondi” per l’individuazione del limite minimo dell’ingente quantità, come peraltro nella stessa espressamente affermato, non determini automaticamente la sussistenza dell’ipotesi aggravata, dovendosi in ogni caso avere riguardo alle circostanze del caso da valutarsi con riferimento alla pericolosità della condotta ed al livello di potenziale compromissione della salute e dell’ordine pubblico; e che il giudice, nell’esercizio del potere di valutazione in concreto cui è tenuto possa valorizzare, per corroborare il dato rappresentato dal superamento del limite, tutti quegli elementi di fatto mirati a considerare la realtà specifica che già la giurisprudenza, in assenza di specifici parametri quantitativi, aveva individuato anteriormente all’elaborazione alle Sezioni Unite del 2012 quali indici di per sè esaustivi della ricorrenza dell’aggravante.
Rimane dunque di perdurante attualità ed efficacia dimostrativa la base sostanziale e formale delle conclusioni cui sono pervenute le Sezioni Unite nella sentenza “Biondi” del 2012 per la definizione dei criteri di individuazione della circostanza aggravante dell’ingente quantità; conclusioni che – collegando l’entità della sanzione anche a dati oggettivi i quali indirizzano in funzione di garanzia la discrezionalità del giudice – soddisfano insieme, come rilevato, ineludibili esigenze costituzionali e convenzionali di determinatezza del precetto penale e parità di trattamento.
Non può sfuggire, a questo proposito, il limite intrinseco dell’indirizzo rimasto minoritario il quale, pur sollecitando un ripensamento della giurisprudenza “Biondi” in ragione, come si è detto, del ritenuto “accresciuto tasso di modulazione normativa” conseguente alla riforma del 2014, di tale ripensamento non indica la direzione, limitandosi ad assegnare genericamente al giudice di rinvio la ricostruzione di un criterio alternativo, così tornando a rendere “vaga” una norma “elastica” alla quale l’interpretazione sistematica delle Sezioni Unite ha dato concretezza e determinatezza.
Le Sezioni Unite passano poi ad affrontare il contrasto interpretativo concernente la individuazione precisa dei fattori della moltiplicazione il cui prodotto determina il confine inferiore dell’ingente quantità nell’ipotesi di reati concernenti le c.d. “droghe leggere”.
Tale contrasto ha avuto origine da un’imprecisione contenuta nella sentenza resa in causa Biondi la quale, individuato in 2000 il moltiplicatore del dato numerico (costituito dal valore soglia di principio attivo, cioè la quantità massima detenibile) da utilizzare come primo fattore dell’operazione per determinare il livello ponderale minimo, pure numerico, dell’ingente quantità, ha indicato per le c.d. droghe leggere un “valore soglia”, espresso in milligrammi, pari a 1000.
Ed invero, pur avendo la sentenza operato, al fine di individuare i dati dei valori-soglia, un generico riferimento alle tabelle di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, artt. 13 e 14 le quali, come si è detto, hanno solo la diversa funzione di individuare le sostanze “vietate” o comunque sottoposte a controllo, appare evidente come le Sezioni Unite abbiano tratto tali valori dall'”elenco” allegato al più volte citato D.M. 11 aprile 2006 previsto dall’art. 73, comma 1 bis, legge “Fini Giovanardi (ed ora “recuperato” dalla riforma del 2014) il quale tuttavia, al momento della decisione, prevedeva per le c.d. “droghe leggere” (THC) un valore-soglia di principio attivo, espresso in milligrammi, pari 500 e non a 1000, come invece indicato in sentenza.
Tutto ciò in quanto il D.M. 4 agosto 2006 il quale – aumentando da 20 a 40 il moltiplicatore del valore di principio attivo della dose media singola (25 mg.) da applicarsi per ottenere la quantità massima detenibile – aveva portato a 1000 il valore-soglia del THC espresso in milligrammi, era stato annullato per vizi della motivazione dal Tribunale amministrativo del Lazio, Sez. III quater, con sentenza n. 2487 del 21 marzo 2007.
Immediatamente dopo la pronuncia delle Sezioni Unite la giurisprudenza di legittimità ha quindi preso atto della circostanza che prima della decisione fosse già intervenuto l’annullamento del D.M. 4 agosto 2006 ed ha così ricondotto il valore-soglia delle “droghe leggere” all’originaria previsione di 500 milligrammi, con la conseguenza che, operata la moltiplicazione di quest’ultimo dato per il fattore 2000 indicato da Sezioni Unite “Biondi” per tutte le sostanze, il limite minimo dell’ingente quantità è stato fissato in 1 kg. di principio attivo.
Alcune decisioni hanno espressamente motivato il disallineamento (meramente numerico e non di principio) dalla sentenza Biondi proprio con specifico riferimento all’annullamento del D.M. 4 agosto 2006, mentre altre hanno sostanzialmente dato per scontata l’applicazione del dato numerico pari a 500 milligrammi indicato nel D.M. 11 aprile 2006 come vigente al momento della pronuncia delle Sezioni Unite per ribadire il limite minimo dell’ingente quantità nel caso di “droga leggera” in 1 kg. di principio attivo.
A far data da Sez. 3, n. 47978 del 28/09/2016, Hrim, tale indirizzo è stato tuttavia integralmente sostituito da altro (tanto che il contrasto segnalato dalla sezione rimettente può ben definirsi diacronico e considerato ormai riassorbito), secondo il quale, seguendo il filo logico della motivazione della sentenza “Biondi”, per rispettare le proporzioni e rendere omogeneo il principio con essa affermato alle conseguenze dell’annullamento del D.M. 4 agosto 2006, il quantitativo minimo di principio attivo di sostanza stupefacente del tipo “leggero” al di sotto del quale non è ravvisabile la circostanza aggravante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 80, comma 2, “deve essere necessariamente pari al doppio di quello da essa (erroneamente) indicato e dunque a 4.000 (e non 2.000) volte il quantitativo di principio attivo che può essere detenuto in un giorno (corrispondente a 2 kg. di principio attivo, che del resto corrisponde a quanto ipotizzato immaginando un quantitativo lordo di sostanza pura al 5%)”.
A tale decisione si è conformata la giurisprudenza successiva, anche in questo caso con motivazioni tutte lessicalmente sovrapponibili a quella di cui si è appena dato conto.
Le Sezioni Unite, con la precisazione che seguirà, ritengono la correttezza di quest’ultimo orientamento, perchè aderente al reale contenuto dell’analisi effettuata dalla sentenza “Biondi” del 2012 come riferita alle caratteristiche oggettive della sostanza (qualità, quantità, concentrazione) idonee a rendere applicabile il D.P.R. n. 309 del 1990, art. 80, comma 2.
Detta analisi, svolta come già precisato su dati giudiziari empirici, ma altamente dimostrativi del fenomeno, si è sviluppata da parte delle Sezioni Unite dapprima commisurando il dato oggettivo delle quantità di stupefacente alle quali attribuire – secondo la verifica effettuata in concreto da un osservatorio privilegiato – rilievo ponderale tale da poter integrare il valore minimo per la configurabilità della circostanza aggravante de qua; e quindi, in successione logica e partendo dalla premessa teorica della fissazione normativa della quantità massima detenibile, individuando un moltiplicatore di questa che consentisse di ricostruire e rappresentare in termini numerici proprio quel valore ponderale minimo come determinato attraverso l’esame dell’esperienza giudiziaria.
In altre parole, nel ragionamento della Corte è venuta prima la verifica delle quantità definibili ingenti (significativo il riferimento esemplificativo ai 50 kg. di “droghe leggere”) e poi quella dei numeri atti a rappresentarle, sicchè l’evidente errore di lettura del D.M. quanto al valore-soglia di principio attivo del THC non può inficiare in alcun modo l’accertamento empirico delle quantità rilevanti effettuato dalle Sezioni Unite, ma impone solo una correzione dei fattori del calcolo per ricostruirlo secondo i principi espressi in sentenza; e che questa correzione riguardi il moltiplicatore normativo della dose media singola (20 divenuto 40 e poi tornato 20) per ottenere la dose-soglia o, in alternativa, il moltiplicatore empirico di questa (2000 o 4000) poco importa, perchè il risultato aderente all’esito dell’indagine induttiva delle Sezioni Unite cristallizzato nella sentenza “Biondi” è che la soglia minima perchè si possa intendere ingente una quantità di “droga leggera” è di 2 kg. di principio attivo.
La precisazione infine formulata dalle Sezioni Unite concerne la reiterata definizione in motivazione della dose-soglia come “quantitativo di principio attivo che può essere detenuto in un giorno” e si palesa necessaria, più che per ragioni di correttezza terminologica, per il contributo che essa può fornire al giudice nell’ambito dell’esercizio della residua discrezionalità valutativa della sussistenza o meno della circostanza aggravante dell’ingente quantità nei casi in cui risulti superato il valore minimo ponderale determinato secondo l’insegnamento delle Sezioni Unite.
E’ d’uopo qui rammentare che la figura giuridica della “dose media giornaliera” quale limite alla detenzione per uso esclusivamente personale sia stata introdotta con la L. 26 giugno 1990, n. 162, poi confluita nel D.P.R. n. 309 del 1990, art. 75 comma 1 e art. 78, comma 1, lett. c) e sia venuta meno all’esito di referendum popolare (D.P.R. 5 giugno 1993, n. 171).
La normativa attuale, come si ricava dalla lettura del preambolo al più volte citato D.M. 11 aprile 2006, contiene nell'”elenco” ad esso allegato l’indicazione, per ogni sostanza, in primis di una dose media singola, intesa come quantità di principio attivo per singola assunzione idonea a produrre in un soggetto tollerante e dipendente un effetto stupefacente e psicotropo; e, di seguito, quella di una dose-soglia, significante la quantità massima detenibile, la quale è data dall’incremento della dose media singola in base ad un moltiplicatore variabile in relazione alle caratteristiche di ciascuna sostanza: essa prescinde totalmente dalla frequenza delle assunzioni nell’arco della giornata e perciò sembra anzi consentire (tollerare) anche un modesto accumulo per più giorni, sempre presunto come destinato all’uso personale.
L’unità di misura rapportabile al singolo cliente-consumatore è e deve pertanto essere non quella della non più normativamente esistente e perciò giuridicamente irrilevante “dose media giornaliera” (il cui valore era stato fissato dal D.M. 12 luglio 1990, n. 186), bensì quella del valore soglia (la quantità massima detenibile) posto a base del percorso argomentativo delle Sezioni Unite Biondi e ricavato dalla moltiplicazione del valore espresso in milligrammi della dose media singola per un fattore – di individuazione ministeriale sulla base di scelte di discrezionalità tecnica – pari a 5 per la cocaina, 10 per l’eroina, 20 per il THC, la cui determinazione già sconta la differente pericolosità o efficacia drogante dei vari tipi di stupefacente.
Vengono, pertanto, affermati i seguenti principi:
“a seguito della riforma introdotta nel sistema della legislazione in tema di stupefacenti dal D.L. 20 marzo 2014, n. 36, convertito con modificazioni dalla L. 16 marzo 2014, n. 79, mantengono validità i criteri fissati dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 36258 del 24 maggio 2012, Biondi, per l’individuazione della soglia oltre la quale è configurabile la circostanza aggravante dell’ingente quantità prevista dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 80, comma 2;
con riferimento alle c.d. droghe leggere la soglia rimane fissata in 2 kg. di principio attivo“.
* * *
Il 26 novembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione Penale onde non sussiste la contravvenzione di cui all’art. 650 c.p. quando il provvedimento dell’autorità che invita l’interessato a presentarsi alla polizia giudiziaria affinché sia sentito come persona informata dei fatti di procedimento penale in corso non possa ritenersi «legalmente dato», come avviene quando la comunicazione faccia esclusivo riferimento a generici «motivi di giustizia».
2021
Il 14 maggio esce la sentenza della Corte Costituzionale n. 98, che dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 521 del codice di procedura penale, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Torre Annunziata, in composizione monocratica.
Ad avviso della Corte, le questioni sono inammissibili per non essersi l’ordinanza di rimessione adeguatamente confrontata con gli argomenti contrari alla riqualificazione giuridica del fatto contestato nel giudizio a quo, riqualificazione dalla quale dipende la rilevanza delle questioni prospettate.
Più nel dettaglio, precisa la Corte, l’imputato è chiamato a rispondere del delitto di atti persecutori di cui all’art. 612-bis, primo e secondo comma, del codice penale. In esito al dibattimento, il rimettente ritiene di dover riqualificare i fatti contestati – immutati nella loro materialità – nella diversa e più grave fattispecie di maltrattamenti in famiglia, di cui all’art. 572 cod. pen. Avendo prospettato alla difesa dell’imputato tale possibile riqualificazione, e avendo il difensore chiesto – a fronte di tale modifica in iure – di essere ammesso al rito abbreviato, il rimettente solleva le questioni di legittimità costituzionale sopra indicate, aventi ad oggetto la disposizione del codice di procedura penale – l’art. 521, comma 1 – che consente al giudice di dare al fatto una definizione giuridica diversa da quella enunciata nell’imputazione, nella parte in cui non prevede la possibilità per l’imputato di richiedere il giudizio abbreviato relativamente al fatto così come diversamente qualificato.
La riqualificazione – da atti persecutori aggravati a maltrattamenti in famiglia – dei fatti contestati all’imputato costituisce dunque il presupposto logico che condiziona l’applicazione nel giudizio a quo della disposizione, della cui legittimità costituzionale il giudice dubita.
Tale riqualificazione, osserva la Corte, riposa sul rilievo, svolto con ricchezza di argomenti dall’ordinanza di rimessione, che le condotte – moleste, minacciose, ingiuriose e violente – contestate all’imputato siano state commesse nel quadro di una relazione affettiva stabile tra l’imputato e la persona offesa, pur nella riconosciuta assenza di convivenza.
Secondo quanto riferisce il rimettente, dall’istruttoria dibattimentale è emersa l’esistenza di un rapporto affettivo tra i due, dipanatosi in un arco temporale di circa quattro mesi, nel corso del quale – in particolare – la donna era solita frequentare la casa ove l’uomo viveva con la madre e la sorella, e nella quale lei stessa talvolta si tratteneva.
Il pubblico ministero aveva qualificato le condotte contestate all’imputato come atti persecutori ai sensi dell’art. 612-bis cod. pen., con l’aggravante prevista dal secondo comma di tale disposizione, che prevede l’aumento della pena quando il fatto sia commesso, tra l’altro, «da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa».
Ritiene invece il rimettente che la stabilità della relazione affettiva, desunta in particolare dall’assidua frequentazione da parte della persona offesa della famiglia dell’imputato, imponga di riqualificare le condotte come maltrattamenti in famiglia ai sensi dell’art. 572, primo comma, cod. pen.: disposizione, quest’ultima, applicabile a chiunque «maltratta», per la parte che qui rileva, «una persona della famiglia o comunque convivente». Ciò in quanto il sintagma «una persona […] comunque convivente» andrebbe letto come riferito a un «contesto affettivo protetto», caratterizzato da «legami affettivi forti e stabili, tali da rendere particolarmente difficoltoso per colui che patisce i maltrattamenti sottrarsi ad essi e particolarmente agevole per colui che li perpetua proseguire».
In tale ipotesi, dunque, il più grave delitto di maltrattamenti in famiglia assorbirebbe l’ipotesi aggravata di atti persecutori di cui all’art. 612-bis, secondo comma, cod. pen., che verrebbe dunque ad abbracciare le sole ipotesi di relazioni affettive non caratterizzate (o non più caratterizzate) da una «attuale condivisione di spazi e progetti di vita che condizionano fortemente la capacità di reagire della vittima».
Questa lettura troverebbe conforto, osserva il rimettente, in varie pronunce della Corte di cassazione, che hanno ricondotto allo spettro applicativo dell’art. 572 cod. pen. fatti commessi nell’ambito di relazioni caratterizzate dalla «condivisione di progetti di vita», e hanno affermato il principio secondo cui l’art. 572 cod. pen. «è applicabile non solo ai nuclei familiari fondati sul matrimonio, ma a qualunque relazione sentimentale che, per la consuetudine dei rapporti creati, implichi l’insorgenza di vincoli affettivi e aspettative di assistenza assimilabili a quelli tipici della famiglia o della convivenza abituale».
Pertanto, il delitto sarebbe configurabile «anche quando manchi una stabile convivenza e sussista, con la vittima degli abusi, un rapporto familiare di mero fatto, caratterizzato dalla messa in atto di un progetto di vita basato sulla reciproca solidarietà ed assistenza» (Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza 7 febbraio-9 maggio 2019, n. 19922, nonché – nello stesso senso – sezione sesta penale, sentenza 18 marzo-15 luglio 2014, n. 31121 e, pur escludendo nel caso di specie il reato de quo, sezione sesta penale, sentenza 7 maggio-27 maggio 2013, n. 22915. Si vedano altresì, in epoca successiva all’ordinanza di rimessione, sezione sesta penale, sentenza 21 ottobre-1° dicembre 2020, n. 34086, concernente una coppia che, pur non convivendo, pagava congiuntamente un appartamento utilizzato come base per incontri clandestini; sezione sesta penale, sentenza 6 novembre 2019-11 febbraio 2020, n. 5457, relativa a una coppia non convivente, la cui relazione durava da appena due mesi).
Tuttavia, tale orientamento risale, come correttamente osserva il rimettente, ad epoca antecedente alla introduzione dell’art. 612-bis cod. pen., e si è formato in larga misura con riferimento a ipotesi concrete caratterizzate dal venir meno di una preesistente convivenza (la sentenza n. 19922 del 2019 sopra citata concerneva, ad esempio, una coppia che aveva convissuto per circa dieci anni; e parimenti concernono ex conviventi Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza 3 novembre-22 dicembre 2020, n. 37077; sezione terza penale, sentenza 12 giugno-28 ottobre 2019, n. 43701; sezione sesta penale, sentenza 13 dicembre 2017-24 gennaio 2018, n. 3356), specie quando dalla convivenza siano nati anche dei figli (ex aliis Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza 6 ottobre 2020-4 febbraio 2021, n. 4424; sezione sesta penale, sentenza 28 settembre-20 novembre 2017, n. 52723; sezione sesta penale, sentenza 20 aprile-22 maggio 2017, n. 25498).
Non a caso, una recente sentenza della Corte di cassazione – invero successiva all’ordinanza di rimessione – ha escluso il delitto di maltrattamenti in famiglia in un’ipotesi assai simile a quella oggetto del processo a quo, caratterizzata da una relazione «instaurata da non molto tempo» e da una “coabitazione” consistita soltanto «nella permanenza anche per due o tre giorni consecutivi nella casa dell’uomo, ove la donna si recava, talvolta anche con la propria figlia» (Corte di cassazione, sezione terza penale, sentenza 23 novembre 2020-25 gennaio 2021, n. 2911).
La giurisprudenza di legittimità, considerata alla luce dei casi di volta di volta esaminati, fornisce dunque indicazioni assai meno univoche di quanto appaia dall’ordinanza di rimessione circa la possibilità di sussumere entro la figura legale descritta dall’art. 572 cod. pen., e non in quella di cui all’art. 612-bis, secondo comma, cod. pen., condotte abusive poste in essere nel contesto di una relazione affettiva con le caratteristiche illustrate nell’ordinanza di rimessione, ove si dà atto in particolare dell’assenza di convivenza (presente o passata) tra i due protagonisti della vicenda.
Ma, soprattutto, nel procedere alla qualificazione giuridica dei fatti accertati in giudizio il rimettente omette di confrontarsi con il canone ermeneutico rappresentato, in materia di diritto penale, dal divieto di analogia a sfavore del reo: canone affermato a livello di fonti primarie dall’art. 14 delle Preleggi nonché – implicitamente – dall’art. 1 cod. pen., e fondato a livello costituzionale sul principio di legalità di cui all’art. 25, secondo comma, Cost. (nullum crimen, nulla poena sine lege stricta) (sentenza n. 447 del 1998).
Il divieto di analogia, osserva la Corte, non consente di riferire la norma incriminatrice a situazioni non ascrivibili ad alcuno dei suoi possibili significati letterali, e costituisce così un limite insuperabile rispetto alle opzioni interpretative a disposizione del giudice di fronte al testo legislativo. E ciò in quanto, nella prospettiva culturale nel cui seno è germogliato lo stesso principio di legalità in materia penale, è il testo della legge – non già la sua successiva interpretazione ad opera della giurisprudenza – che deve fornire al consociato un chiaro avvertimento circa le conseguenze sanzionatorie delle proprie condotte; sicché non è tollerabile che la sanzione possa colpirlo per fatti che il linguaggio comune non consente di ricondurre al significato letterale delle espressioni utilizzate dal legislatore.
Ciò vale non solo per il nostro, ma anche per altri ordinamenti ispirati alla medesima prospettiva, come dimostra la giurisprudenza del Tribunale costituzionale federale tedesco, secondo cui in materia penale «il possibile significato letterale della legge fissa il limite estremo della sua legittima interpretazione da parte del giudice» (BVerfGE 73, 206, (235); in senso conforme, più recentemente, BVerfGE 130, 1 (43); 126, 170 (197); 105, 135 (157); 92, 1 (12)).
Il divieto di applicazione analogica delle norme incriminatrici da parte del giudice costituisce il naturale completamento di altri corollari del principio di legalità in materia penale sancito dall’art. 25, secondo comma, Cost., e in particolare della riserva di legge e del principio di determinatezza della legge penale (su quest’ultimo profilo, si vedano in particolare le sentenze n. 96 del 1981 e n. 34 del 1995, nonché, con riferimento alle sanzioni amministrative di carattere punitivo, n. 121 del 2018): corollari posti a tutela sia del principio “ordinamentale” della separazione dei poteri, e della conseguente attribuzione al solo legislatore del compito di tracciare i confini tra condotte penalmente rilevanti e irrilevanti (ordinanza n. 24 del 2017), nonché – evidentemente – tra le diverse figure di reato; sia della garanzia “soggettiva”, riconosciuta ad ogni consociato, della prevedibilità delle conseguenze sanzionatorie delle proprie condotte, a tutela delle sue libere scelte d’azione (sentenza n. 364 del 1988).
È evidente infatti che la ratio della riserva assoluta di legge in materia penale, che assegna alla sola legge e agli atti aventi forza di legge il compito di stabilire quali siano le condotte costituenti reato, sul presupposto che una simile decisione – destinata potenzialmente a ripercuotersi in maniera drammatica sul diritto «inviolabile» (art. 13 Cost.) alla libertà personale dei destinatari della norma penale – spetti soltanto ai rappresentanti eletti a suffragio universale dall’intera collettività nazionale (sentenze n. 230 del 2012, n. 394 del 2006 e n. 487 del 1989), verrebbe nella sostanza svuotata ove ai giudici fosse consentito di applicare pene al di là dei casi espressamente previsti dalla legge.
Per altro verso, il divieto di applicazione analogica delle norme incriminatrici da parte del giudice costituisce l’ovvio pendant dell’imperativo costituzionale, rivolto al legislatore, di «formulare norme concettualmente precise sotto il profilo semantico della chiarezza e dell’intellegibilità dei termini impiegati» (sentenza n. 96 del 1981). Tale imperativo mira anch’esso a «evitare che, in contrasto con il principio della divisione dei poteri e con la riserva assoluta di legge in materia penale, il giudice assuma un ruolo creativo, individuando, in luogo del legislatore, i confini tra il lecito e l’illecito» (sentenza n. 327 del 2008), nonché quelli tra le diverse fattispecie di reato; ma, al tempo stesso, mira altresì ad assicurare al destinatario della norma «una percezione sufficientemente chiara ed immediata» dei possibili profili di illiceità penale della propria condotta (così, ancora, la sentenza n. 327 del 2008, nonché la sentenza n. 5 del 2004).
Tanto che proprio rispetto al mandato costituzionale di determinatezza della norma incriminatrice questa Corte ha recentemente rammentato che «l’ausilio interpretativo del giudice penale non è che un posterius incaricato di scrutare nelle eventuali zone d’ombra, individuando il significato corretto della disposizione nell’arco delle sole opzioni che il testo autorizza e che la persona può raffigurarsi leggendolo» (sentenza n. 115 del 2018). La garanzia soggettiva che la determinatezza della legge penale mira ad assicurare sarebbe, in effetti, anch’essa svuotata, laddove al giudice penale fosse consentito assegnare al testo un significato ulteriore e distinto da quello che il consociato possa desumere dalla sua immediata lettura.
E dunque, il pur comprensibile intento, sotteso all’indirizzo giurisprudenziale cui il rimettente aderisce, di assicurare una più intensa tutela penale a persone particolarmente vulnerabili, vittime di condotte abusive nell’ambito di rapporti affettivi dai quali esse hanno difficoltà a sottrarsi, deve necessariamente misurarsi con l’interrogativo se il risultato di una siffatta interpretazione teleologica sia compatibile con i significati letterali dei requisiti alternativi «persona della famiglia» e «persona comunque […] convivente» con l’autore del reato; requisiti che circoscrivono – per quanto qui rileva – l’ambito delle relazioni nelle quali le condotte debbono avere luogo, per poter essere considerate penalmente rilevanti ai sensi dell’art. 572 cod. pen.
Il divieto di analogia in malam partem impone, più in particolare, di chiarire se davvero possa sostenersi che la sussistenza di una relazione, come quella che risulta intercorsa tra imputato e persona offesa nel processo a quo, consenta di qualificare quest’ultima come persona (già) appartenente alla medesima “famiglia” dell’imputato; o se, in alternativa, un rapporto affettivo dipanatosi nell’arco di qualche mese e caratterizzato da permanenze non continuative di un partner nell’abitazione dell’altro possa già considerarsi, alla stregua dell’ordinario significato di questa espressione, come una ipotesi di “convivenza”.
In difetto di una tale dimostrazione, l’applicazione dell’art. 572 cod. pen. in casi siffatti – in luogo dell’art. 612-bis, secondo comma, cod. pen., che pure contempla espressamente l’ipotesi di condotte commesse a danno di persona «legata da relazione affettiva» all’agente – apparirebbe come il frutto di una interpretazione analogica a sfavore del reo della norma incriminatrice: una interpretazione magari sostenibile dal punto di vista teleologico e sistematico, sulla base delle ragioni ampiamente illustrate dal rimettente, ma comunque preclusa dall’art. 25, secondo comma, Cost.
Il mancato confronto con le implicazioni del divieto costituzionale di applicazione analogica della legge penale in malam partem in relazione al caso di specie comporta dunque una lacuna motivazionale sulla rilevanza delle questioni prospettate, che ne determina l’inammissibilità (da ultimo, sentenza n. 57 del 2021).
Questioni intriganti
Quali sono i due aspetti complementari del principio della riserva di legge?
- L’aspetto negativo: in materia penale interviene la legge e non anche fonti gerarchicamente sottordinate;
- L’aspetto positivo: la legge deve essere precisa, in modo da restringere lo spazio di operatività delle fonti sottordinate.
Le cause di giustificazione sono soggette al principio della riserva di legge?
- la risposta deve essere affermativa perché si tratta di derogare a norme di legge che puniscono, e dunque occorre una norma di pari grado (tesi recessiva);
- la risposta è negativa: il principio è espressione di una ratio garantista che non lambisce le cause di giustificazione, le quali peraltro sono previste da norme di natura non strettamente penale, sicchè la relativa produzione non soggiace allo statuto penalistico della riserva di legge (tesi prevalente).
Quale è la natura della riserva di legge?
- è assoluta: non è mai ammesso ad alcuna fonte sottordinata di sostituirsi alla legge o di integrarla in materia penale (tesi recessiva);
- è relativa: la legge non è in grado di stare al passo con i tempi, specie sul crinale tecnico, e dunque deve lasciarsi integrare da atti normativi sottordinati, come ad esempio i regolamenti (tesi recessiva);
- è tendenzialmente assoluta: dettando con precisione un criterio tecnico, essa può rinviare a norme regolamentari ma solo per mere specificazioni tecniche, al fine di rimanere sempre al passo con i tempi garantendo un costante aggiornamento delle disposizioni senza entrare in rotta di collisione con il garantismo (tesi prevalente).
Che tipo di atto amministrativo può essere richiamato dalla legge penale?
- un atto di tipo regolamentare: questo tipo di atto descrive o comunque contribuisce a disegnare la fattispecie di reato, sicché occorre che esso si limiti ad una specificazione di tipo meramente tecnico rispetto alla disciplina legislativa, circostanza nella quale il principio della riserva di legge deve intendersi rispettato;
- un atto di tipo concreto e specifico: qui il fatto penalmente rilevante è disegnato in modo esclusivo dalla norma primaria, che richiama talune classi di provvedimenti specifici i quali trovano a loro volta la propria disciplina nella legge; in questi casi il principio della riserva di legge è rispettato solo a patto che le classi di provvedimento richiamate siano ben individuate (chi può adottarlo, a quali condizioni e sulla base di quali presupposti), circostanza che – a detta di parte della dottrina – non si verificherebbe nel caso dell’art. 650 c.p. laddove parla genericamente di “ragioni di giustizia, sicurezza pubblica, ordine pubblico ed igiene”: anche a voler ritenere la norma compatibile con il principio della riserva di legge, essa per tale dottrina non lo sarebbe comunque con il principio di tassatività. Il rinvio ad un atto concreto e specifico della PA si pone allora al confine tra il principio della riserva di legge ed il principio di tassatività della fattispecie.
Che problemi pone la disapplicazione del provvedimento amministrativo richiamato dalla norma incriminatrice primaria?
- dal punto di vista della Costituzione, si fronteggiano l’art. 101, comma 2 che – nel dichiarare che i giudici sono soggetti soltanto alla legge – autorizzerebbe una disapplicazione indiscriminata in caso di atto illegittimo (proprio perché contrario alla legge) – e l’art.25, comma 2 che, nel consacrare il principio di legalità, implica il necessario contemperamento del principio della riserva di legge (che fonda la disapplicazione) con i principi “cugini” di tassatività e di irretroattività della norma penale;
- vengono generalmente distinte 3 fasi in senso diacronico: 1) fase di indiscriminata disapplicazione ope iudicis ex art. 5 della L.A.C.; 2) fase di fuga dottrinale dalla L.A.C. (metà degli anni Sessanta); 3) fase di fuga giurisprudenziale dalla L.A.C. (inizio anni Ottanta);
- specie se la norma penale parla esplicitamente di inosservanza di un provvedimento “legittimo”, laddove il provvedimento richiamato sia in realtà illegittimo, la relativa inosservanza non porta – secondo una certa prospettiva – ad una disapplicazione vera e propria del provvedimento, quanto piuttosto all’accertamento da parte del giudice penale che manca un elemento costitutivo del reato; si oscilla allora tra la teoria della disapplicazione vera e propria (in bonam e malam partem) e quella c.d. della tipicità formale (nel caso di esplicito richiamo della norma penale alla legittimità/illegittimità dell’atto) ovvero della tipicità sostanziale (si prescinde dall’esplicito richiamo della norma ad un atto “legittimo”, “legalmente dato “ e così via);
- la disapplicazione non può mai essere il precipitato di un controllo sul merito amministrativo del provvedimento, potendo scaturire solo dall’accertamento di un vizio di legittimità dello stesso (con qualche dubbio sull’eccesso di potere);
- l’atto amministrativo può avere rilevanza esterna e diretta sulla fattispecie penale, come nel caso dell’autorizzazione del Ministro della Giustizia quale condizione di procedibilità della fattispecie, come tale assumendosi pacificamente disapplicabile;
- l’atto amministrativo può avere rilevanza interna e indiretta sulla fattispecie medesima, nel quale ultimo caso si distinguono: f.1) gli atti- presupposto del reato, positivi (art.650 c.p.: si punisce un comportamento in presenza dell’atto) o negativi (art.20, lettera b, legge 47/85, oggi art.44 del TU edilizia: si punisce un comportamento in assenza dell’atto, ad esempio del permesso di costruire); f.2) gli atti-presupposto (non del reato, ma) della circostanza del reato (la presenza dell’atto rende il reato da semplice, circostanziato: art. 528, ultimo comma, c.p., ovvero spettacoli osceni organizzati nonostante il divieto dell’autorità; f.3) gli atti-mezzo esecutivo del reato (art.323 c.p.: si punisce chi adotta il provvedimento, così commettendo reato: qui disapplicare condurrebbe al risultato paradossale di mandare assolto il colpevole); f.4) gli atti-oggetto del reato, come nel caso del falso in atto pubblico, laddove l’atto è appunto l’oggetto sul quale si spiega il contegno penalmente sanzionato; f.5) gli atti-scriminante, che consentono di escludere l’antigiuridicità di un contegno che altrimenti sarebbe reato (esempio classico l’ordinanza contingibile ed urgente, con capacità scriminante ex art. 51 c.p.);
- quando l’atto restringe la sfera giuridica del destinatario (art.650 c.p.), la disapplicazione avviene in bonam partem, evitando la pena; quando l’atto amplia la sfera giuridica del destinatario (art.44 del T.U. edilizia), l’eventuale disapplicazione avviene in malam partem, comportando pena (la norma sancisce la punibilità in difetto di titolo autorizzatorio, e non anche nel caso di titolo autorizzatorio illegittimo: se quest’ultimo viene disapplicato, il giudice penale lo rende tamquam non esset, realizzando una fattispecie – punibile – analoga a quella di difetto di titolo autorizzatorio); in caso di disapplicazione in malam partem, si pongono anche problemi di tassatività della fattispecie (l’atto mancante non equivale all’atto esistente illegittimo) e di irretroattività (quando si costruisce il titolo esiste, ancorché illegittimo, e anzi esso è presunto legittimo vista la presunzione di legittimità che assiste gli atti amministrativi, sicché l’equipararlo ex post ad un titolo mancante implica applicazione retroattiva della sanzione);
- la disapplicazione tout court presuppone – specie laddove la norma incriminatrice non richiami espressamente la legittimità dell’atto amministrativo – un generalizzato potere del giudice penale di sindacare (controllare) la legittimità di tale atto, sia sul crinale formale che su quello sostanziale: vi sono tuttavia casi in cui, per esplicita scelta legislativa, il giudice penale può sindacare solo la legittimità formale dell’atto, e non anche quella sostanziale (art. 329 c.p.: rifiuto o ritardo indebito del militare a dar seguito ad una richiesta dell’Autorità formalmente legittima);
Cosa accomuna e cosa distingue le due tesi della tipicità formale e della tipicità sostanziale della fattispecie incriminatrice?
- entrambe, facendo riferimento al principio della riserva di legge, tendono a verificare come rifluisce la illegittimità dell’atto amministrativo previsto dalla fattispecie penale sulla fattispecie penale medesima, siccome prevista dalla legge, e tendenzialmente dalla sola legge, dovendosi tenere presente che dare rilevanza ad un atto amministrativo illegittimo previsto dalla fattispecie significa, indirettamente, lasciare che sia il provvedimento amministrativo (e non la legge, appunto) a disciplinare in concreto la fattispecie; entrambe indagano in particolare sul quando un provvedimento illegittimo, ai fini della tipicità della fattispecie, può essere considerato come un provvedimento mancante (tamquam non esset);
- la tesi della tipicità formale si appunta sul dato letterale e ritiene che il provvedimento amministrativo illegittimo possa essere equiparato a quello mancante solo nel caso in cui la legge richieda espressamente la legittimità dell’atto (tipico l’esempio dell’art.650 c.p.); la tesi della tipicità sostanziale si appunta invece sul bene della vita tutelato dalla norma incriminatrice, e ritiene che il provvedimento illegittimo sia assimilabile al provvedimento mancante tutte le volte che questa assimilazione sia idonea a meglio tutelare il bene (interesse) presidiato dalla fattispecie penale; in tema di reati edilizi è progressivamente invalsa la teoria della tipicità sostanziale, e la illegittimità del titolo edilizio è stata sempre più equiparata alla relativa mancanza, mano a mano che il bene giuridico penalmente tutelato ha visto spostato il proprio baricentro dal mero controllo amministrativo sull’attività urbanistica (una concessione edilizia esiste, ancorché illegittima, dunque non si punisce perché la fattispecie non richiede esplicitamente una concessione edilizia legittima) al corretto ed equilibrato assetto del territorio (una concessione edilizia illegittima non garantisce un corretto assetto del territorio e dunque va considerata come una concessione edilizia mancante, anche se la norma penale non ne prevede formalmente la necessaria legittimità);
- la tesi della tipicità formale della fattispecie incriminatrice appare più conforme ai principi della riserva di legge, della irretroattività della norma penale e della tassatività rispetto alla tesi della tipicità sostanziale, che tuttavia sembra tutelare meglio i beni e gli interessi penalmente rilevanti.
Quali sono le norme rilevanti in tema di reati edilizi, via via succedutesi nel tempo?
- in tema di concessione edilizia, che oggi è il permesso di costruire, l’art.17, lettera b), della legge 10.77; successivamente l’art.20, lettera b), della legge 47.85; infine l’art. 44, lettera b), del DpR 380.01 (T.U. edilizia);
- in tema di lottizzazione abusiva, l’art. 28 della legge 1150.42 (legge urbanistica); successivamente gli articoli 18, comma 1, e 20, lettera c), della legge 47.85; infine gli articoli 30 e 44, lettera c), del DpR 380.01 (T.U. edilizia).
Quali sono gli orientamenti giurisprudenziali in tema di potere di sindacato del giudice penale sull’atto amministrativo?
La riserva di legge impone che la fattispecie penale sia disciplinata dalla legge, e non dall’atto amministrativo; laddove quest’ultimo sia illegittimo (e non solo inopportuno, essendo il merito dell’atto pacificamente non sindacabile in sede penale), il giudice penale può sindacarlo – in particolare a fini punitivi (in malam partem) – secondo diverse prospettive pretorie che si sono sviluppate diacronicamente come segue:
- una prima tesi (c.d. sindacato estrinseco ridotto) si concentra sull’atto amministrativo, predicandone la disapplicazione da parte del giudice penale (articoli 4 e 5 della L.A.C.) solo quando l’atto sia gravemente viziato, ed in particolare quando sia inesistente ovvero illecito (perché frutto di collusione tra privato e funzionario). Negli altri casi non è ammesso il sindacato, salvo che la legge indichi la legittimità/illegittimità del provvedimento come elemento costitutivo della fattispecie (es: art.650 c.p.), ipotesi nelle quali il sindacato può essere più penetrante e spingersi ad ogni sorta di illegittimità;
- una seconda tesi (c.d. sindacato estrinseco ampio) – pur muovendosi ancora nell’ottica della disapplicazione dell’atto – ammette che il giudice penale possa sindacare l’atto non solo quando inesistente o illecito, ma anche quando, pur non atteggiandosi a tale, la relativa illegittimità sia comunque particolarmente grave perché la violazione di legge è vistosa o macroscopica (è l’ipotesi della concessione edilizia rilasciata a valle di una omissione di atti d’ufficio ex art.328 c.p. da parte del funzionario competente), ovvero per carenza di potere in concreto (l’atto in senso astratto esiste, ma in concreto la legge esclude che possa essere adottato in un particolare caso, come nell’ipotesi di una concessione edilizia incompatibile con il PRG per vizio grave e sostanziale);
- una terza tesi sostanzialistica (sindacato intrinseco in funzione della tipicità della fattispecie), che poi è la più recente e la più accreditata, svilisce il ruolo della disapplicazione e si concentra esclusivamente sul se si è realizzata o meno la fattispecie penale e sul se è stato leso o meno l’interesse protetto dalla norma penale (ad esempio, la tutela del territorio): da questo punto di vista il giudice penale, che è soggetto soltanto alla legge (e non all’atto amministrativo) ai sensi dell’art. 101 Cost. e dell’art. 2 c.p.p., può sindacare l’atto amministrativo quando sia illegittimo (tuttavia dal punto di vista sostanziale, e non meramente formale e procedimentale), al fine anche di punire a tutela dell’interesse penalmente sanzionato. Il problema non è dunque se esiste o meno un provvedimento, ma se è stata o meno realizzata la fattispecie penale siccome descritta dal legislatore, e l’atto amministrativo è elemento extrapenale della fattispecie, con funzione descrittiva;
- una quarta tesi che assume che, nel caso in cui l’atto sia repressivo (e non ampliativo), fronteggiando interessi oppositivi del privato, stante la relativa disapplicabilità in bonam partem, il sindacato del giudice penale può spingersi fino allo scandaglio della eventuale illegittimità meramente formale e procedimentale dell’atto, come nell’ipotesi di inottemperanza ad ordine dell’Autorità “legalmente” dato (art. 650 c.p.).
La riserva di legge che tipo di potere attribuisce al giudice penale quando la fattispecie incriminatrice presenta atti diversi dagli atti amministrativi?
La fattispecie penale può richiamare come elementi costitutivi o condizioni di punibilità:
- altri atti legislativi: in tali casi il giudice penale non può disapplicare la legge, e deve tentare in prima battuta una interpretazione costituzionalmente orientata, e in caso di esito negativo sollevare questione di legittimità costituzionale;
- atti di autonomia privata: in tali casi, come ad esempio nell’ipotesi dell’insolvenza fraudolenta (art.641 c.p.), si configura la complessa ipotesi dei c.d. reati in contratto, in cui normalmente solo laddove l’atto negoziale sia nullo per causa illecita il giudice penale può disapplicarlo, in tutti gli altri casi dovendo invece applicarlo (quando solo annullabile, anche perché civilisticamente efficace finché non venga annullato su istanza della parte legittimata a chiederne l’annullamento);
- atti di natura giurisdizionale: in tali casi, nei quali il riferimento va soprattutto alle sentenze (di altri giudici), il giudice penale non può spiegare alcun sindacato (ancorché la sentenza non sia ancora definitiva), dovendo limitarsi ad applicare il provvedimento giurisdizionale (es., art. 570 del c.p. in tema di violazione degli obblighi di assistenza familiare, con riguardo alla sentenza civile di separazione con addebito; art. 388 c.p., dolosa inosservanza di provvedimento del giudice civile; reato di bancarotta, con riguardo alla sentenza di fallimento).
Cosa occorre rammentare a proposito delle “norme penali in bianco”?
- è categoria di pura creazione dottrinale, non trovandosene menzione nel codice penale;
- assumendo la fattispecie incriminatrice come precetto primario e la sanzione come precetto secondario, è “in bianco” il precetto primario che è dissociato da quello secondario, nel senso che la fattispecie incriminatrice si trova collocata e descritta in un atto diverso rispetto alla norma penale, che prevede solo il precetto secondario (sanzione);
- chi parte dalla concezione sanzionatoria del diritto penale, ritiene ammissibili “norme senza precetto”, in cui la disposizione penale prevede la sola sanzione (precetto secondario) e rinvia per la descrizione della fattispecie incriminatrice (precetto primario) ad altra disposizione extrapenale (anche secondaria); proprio la categoria delle norme penali in bianco conferma questo tipo di impostazione penalistica;
- chi parte dalla concezione costitutiva del diritto penale, ritiene invece che il comportamento punibile debba essere posto in modo precettivo dalla legge; le norme penali in bianco sono allora in contraddizione con questa visione in quanto si limitano a prevedere un mero “dovere di obbedienza” all’Autorità che porrà in essere l’atto descrittivo del contegno punito, demandando a tale atto normativo secondario o comunque a tale provvedimento la descrizione del “cosa bisogna fare per obbedire”.