Massima
Divenire genitore ha un “prima” ed un “poi”: ex ante, la genitorialità potrebbe essere prima facie potenzialmente negata da peculiari “condizioni naturali” degli aspiranti genitori, i quali possono tuttavia oggi ricorrere a tecniche di “procreazione medicalmente assistita” (omologa o eterologa) che contribuiscono ad una vera e propria “scomposizione” del pertinente processo generativo, con (talvolta) delicati problemi connessi allo status da riconoscersi al figlio generato in simili contesti, oltreché alla trascrizione della di lui venuta alla luce negli atti dello stato civile; ex post, essere (ormai) genitori implica una vera e propria “responsabilità” dinanzi al “figlio”, che è tale tanto se nato in costanza di matrimonio, quanto se venuto alla luce da genitori non coniugati, quanto – ancora – se adottivo.
Crono-articolo
Diritto romano (vedi articolo dedicato in Cittadinanza consapevole)
1865
Il 25 giugno viene varato il R.D. n.2358, codice civile del Regno d’Italia, che sul crinale sistematico disciplina la filiazione agli articoli 159 e seguenti. Più nel dettaglio, agli articoli 159-169 viene disciplinata la filiazione della prole concepita o nata durante il matrimonio; agli articoli da 170 a 178 trovano disciplina le prove della filiazione legittima; agli articoli 179-201 viene regolamentata la filiazione di prole nata fuori di matrimonio e la legittimazione; gli articoli 202 e seguenti disciplinano l’istituto dell’adozione mentre gli articoli 220 e seguenti disciplinano la c.d. patria podestà (in particolare, gli articoli 228-231 regolamentano l’usufrutto legale sui beni dei figli).
Le interferenze tra la disciplina dei figli e quella del matrimonio (di ascendenza romanistica) affiora dagli articoli 63-67, mentre l’art.154 disciplina la sorte dei figli in caso di separazione tra i coniugi; i doveri dei figli verso i genitori trovano sede all’art.139, mentre la posizione della prole rispetto alla successione è disciplinata agli articoli 736 e 737.
1942
Il 16 marzo viene varato il R.D. n.262, nuovo codice civile (entrato in vigore il 21 aprile), che norma (con ampia e diffusa disciplina) la filiazione al Libro I, titolo VII, articoli 231 e seguenti, con particolare riguardo alla filiazione legittima (stato di figlio legittimo e prova della filiazione legittima; azione di disconoscimento ed azione di contestazione e di reclamo di legittimità), alla filiazione c.d. “illegittima” ed alla legittimazione (riconoscimento di figli naturali; dichiarazione giudiziale di paternità e maternità naturale; legittimazione dei figli naturali), all’adozione, alla patria potestà.
1948
La Costituzione repubblicana disciplina la filiazione agli articoli 30 e seguenti, chiarendo preliminarmente all’art.29 che la Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio (comma 1) e che il matrimonio è ordinato sull’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare (comma 2), norma quest’ultima che giustifica ad esempio l’attribuzione al figlio del (solo) cognome paterno.
Stando poi all’art.30 è dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori del matrimonio (comma 1); nei casi di incapacità dei genitori, la legge provvede a che siano assolti i loro compiti (comma 2); sempre la legge assicura ai figli nati fuori del matrimonio ogni tutela giuridica e sociale, purché, nondimeno, compatibile con i diritti dei membri della famiglia legittima (comma 3), dettando inoltre le norme e i limiti per la ricerca della paternità (comma 4).
Stando poi al successivo art.31, la Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose e, come tali, con molti figli (comma 1); protegge la maternità, l’infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo (comma 2).
1975
Il 19 maggio viene varata la legge n.151, di riforma organica e complessiva del diritto di famiglia. Tra le novità più significative in tema di filiazione, il mutamento dell’intestazione del titolo IX del libro I del codice civile che vede la “patria potestà” trasformarsi ormai in potestà genitoriale, capace come tale di coinvolgere dunque tanto il padre quanto la madre.
1985
Il 7 novembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.5408 che riconosce la potestà genitoriale costituire un “ufficio di diritto privato”, dovendo essere esercitata da entrambi i genitori nell’interesse esclusivo del minore. Per il Collegio, in sostanza ciascun genitore vanta, verso lo Stato e verso i terzi, un vero e proprio diritto soggettivo alla titolarità di tale “ufficio” ed all’esercizio personale e discrezionale del medesimo, con l’unico limite di indirizzarlo verso il soddisfacimento delle sole esigenze del minore.
1998
Il 26 settembre esce la sentenza della Corte costituzionale n.347 che dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 235 del codice civile sollevata, in riferimento agli artt. 2, 3, 29, 30 e 31 della Costituzione, dal Tribunale di Napoli.
Per la Corte occorre distinguere tra la disciplina di accesso alle tecniche di P.M.A. e la doverosa, e preminente, tutela giuridica del nato, significativamente collegata alla dignità dello stesso, dovendosi “… tutelare anche la persona nata a seguito di fecondazione assistita, venendo inevitabilmente in gioco plurime esigenze costituzionali. Preminenti in proposito sono le garanzie per il nuovo nato (…), non solo in relazione ai diritti e ai doveri previsti per la sua formazione, in particolare dagli artt. 30 e 31 Cost., ma ancor prima – in base all’art. 2 Cost. – ai suoi diritti nei confronti di chi si sia liberamente impegnato ad accoglierlo assumendone le relative responsabilità: diritti che è compito del legislatore specificare…”.
In sostanza, per la Corte in caso di c.d. procreazione medicalmente assistita occorre distinguere la posizione di chi la ha praticata (in sostanza, dei genitori), da quella di colui che a valle di questa tecnica ha trovato la vita (sostanzialmente, del figlio), dovendosi di quest’ultimo in ogni caso presidiare le garanzie costituzionali per esso previste.
2000
Il 17 febbraio esce una pronuncia del Tribunale di Roma, sezione XI (giudice Schettini) che – partendo dal diritto a diventare genitori (riguardato quale interesse giuridicamente rilevante) – assume valido il contratto atipico di sostituzione di maternità (c.d. fecondazione artificiale eterologa) se il ridetto contratto ha oggetto determinato e non sia previsto corrispettivo per la donna che mette a disposizione l’utero per la gestazione
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Il 7 dicembre viene per la prima volta proclamata solennemente la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, CDFUE, meglio nota come Carta di Nizza. Stando al relativo art.21, comma 1, è vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l’origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l’appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, la disabilità, l’età o l’orientamento sessuale.
Particolarmente rilevante, ratione materiae, il divieto di discriminazioni fondate sulla “nascita”.
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Il 12 dicembre a Strasburgo viene nuovamente proclamata, in una versione adattata, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, CDFUE, meglio nota come Carta di Nizza, ad opera di Parlamento, Consiglio e Commissione.
2004
Il 19 febbraio esce la legge n.40 recante norme in materia di procreazione medicalmente assistita (PMA), che vieta in particolare la fecondazione artificiale eterologa (c.d. “utero in affitto”) ed ammette solo quella omologa (articolo 4, comma 3).
La legge consta di 18 articoli complessivi e si articola in un Capo I afferente ai principi generali (articoli da 1 a 3), un Capo II concernente l’accesso alle tecniche (articoli da 4 a 7); un Capo III concernente la tutela del nascituro (articoli da 8 a 9: particolarmente rilevante l’art.8, alla cui stregua “i nati a seguito dell’applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita hanno lo stato di figli legittimi o di figli riconosciuti della coppia che ha espresso la volontà di ricorrere alle tecniche medesime ai sensi dell’articolo 6”); un Capo IV afferente alla regolamentazione delle strutture autorizzate all’applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita (articoli da 10 a 11); un Capo V dedicato a divieti e sanzioni (art.12); un Capo VI dedicato alle misure a tutela dell’embrione (articoli da 13 a 14); un Capo VII, dedicato alle disposizioni finali e transitorie (articoli da 15 a 18).
Sul crinale penale, particolarmente significativo l’art. 12 comma 6, che punisce: «chiunque, in qualsiasi forma, realizza, organizza o pubblicizza la commercializzazione di gameti o di embrioni o la surrogazione di maternità, … con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da 600.000 a un milione di euro».
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Il 31 marzo viene varata la Direttiva 2004/23/CE del Parlamento europeo e del Consiglio sulla definizione di norme di qualità e di sicurezza per la donazione, l’approvvigionamento, il controllo, la lavorazione, la conservazione, lo stoccaggio e la distribuzione di tessuti e cellule umani, il cui art. 12, in particolare, prevede la “gratuità” e “volontarietà” della donazione dei tessuti e cellule umane, e precisa, al comma 2, che i donatori possono solo ricevere “una indennità strettamente limitata a far fronte alle spese e inconvenienti risultanti dalla donazione. In tal caso gli Stati membri stabiliscono le condizioni alle quali viene concessa l’indennità“.
2007
Il 6 novembre viene varato il Decreto Legislativo n. 191 recante “Attuazione della direttiva 2004/23/CE sulla definizione di norme di qualità e di sicurezza per la donazione, l’approvvigionamento, il controllo, la lavorazione, la conservazione, lo stoccaggio e la distribuzione di tessuti e cellule umani“.
Il provvedimento non apporta modificazioni, nella parte di interesse (PMA e filiazione), alla legge del 2004, stante il disposto del relativo art. 2 comma 3, onde “alle cellule riproduttive, ai tessuti e alle cellule fetali e alle cellule staminali embrionali, si applicano le disposizioni vigenti in materia. Per la conservazione si applicano le disposizioni di cui al presente decreto in quanto compatibili”.
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Il 13 dicembre viene firmato il Trattato di Lisbona, noto anche come Trattato di riforma e ufficialmente Trattato di Lisbona, che modifica il Trattato sull’Unione europea e il Trattato che istituisce la Comunità europea, che apporta ampie modifiche al Trattato sull’Unione europea e al Trattato che istituisce la Comunità europea, giusta abolizione dei cosiddetti “tre pilastri“, riparto di competenze tra Unione e Stati membri, rafforzamento del principio democratico e tutela dei diritti fondamentali, anche attraverso l’attribuzione alla Carta di Nizza del medesimo valore giuridico dei Trattati.
2008
Il 2 agosto viene varata la legge n.130, recante ratifica ed esecuzione del Trattato di Lisbona che modifica il Trattato sull’Unione europea e il Trattato che istituisce la Comunità europea e alcuni atti connessi, con atto finale, protocolli e dichiarazioni, fatto a Lisbona il 13 dicembre 2007.
2009
Il 01 dicembre entra ufficialmente in vigore il Trattato di Lisbona del 01 dicembre 2007, con definitiva attribuzione alla Carta di Nizza – ed al divieto di discriminazione in base alla nascita ivi iscritto – del medesimo valore giuridico dei Trattati.
2012
Il 15 marzo esce la sentenza della Corte EDU, Gas e Dubois contro Francia, onde una legge nazionale che riservi l’inseminazione artificiale a coppie eterosessuali sterili, attribuendole una finalità terapeutica, non può essere considerata fonte di una ingiustificata disparità di trattamento nei confronti delle coppie omosessuali, rilevante agli effetti degli artt. 8 e 14 CEDU: ciò in quanto la situazione delle seconde non è paragonabile a quella delle prime.
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Il 10 dicembre viene varata la legge n.219, recante disposizioni in materia di riconoscimento dei figli naturali, il cui art.2 conferisce una ampia delega al Governo finalizzata alla revisione di tutte le norme in materia di filiazione, avendo come punto di riferimento il principio di unificazione dello stato giuridico tra figli c.d. legittimi (in quanto nati da genitori uniti dal vincolo del matrimonio) e figli c.d. naturali (nati da genitori non coniugati).
Particolarmente rilevante la modifica dell’art.315 c.c. alla cui stregua ormai «tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico» onde le espressioni “figlio legittimo” e, dall’altro lato, “figlio naturale” divengono espressioni ormai prive di rilevanza giuridica, abrogandosi anche l’istituto della legittimazione: i “figli” sono ormai solo e soltanto tali, senza alcun predicato aggiuntivo, godendo per l’appunto tutti del medesimo stato giuridico. Si continua tuttavia a parlare di filiazione “nel matrimonio” e di filiazione “fuori dal matrimonio”. Il contenuto normativo del nuovo art.315 c.c. – come osserva subito la dottrina più avveduta – costituisce peraltro una importante direttrice ermeneutica per l’interpretazione in senso uniforme di tutte le norme sulla filiazione e sui relativi effetti.
Importante anche l’innesto nel codice civile del nuovo art.315 bis c.c. (“diritti e doveri del figlio”) onde il figlio – qualunque figlio, stante l’intervenuta unificazione del pertinente status – ha diritto di essere mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente dai genitori, nel rispetto delle relative capacità, delle relative inclinazioni naturali e delle relative aspirazioni (comma 1); il figlio ha diritto di crescere in famiglia e di mantenere rapporti significativi con i parenti (comma 2); il figlio minore che abbia compiuto gli anni 12, e anche di età inferiore ove capace di discernimento, ha diritto di essere ascoltato in tutte le questioni e le procedure che lo riguardano (comma 3); infine, il figlio deve rispettare i genitori e deve contribuire, in relazione alle proprie capacità, alle proprie sostanze e al proprio reddito, al mantenimento della famiglia finché convive con essa (comma 4).
Mentre dunque in precedenza taluni diritti, specie della prole, erano previsti solo in leggi speciali e settoriali (legge sull’affido condiviso, legge in tema di adozione), ora essi vengono cristallizzati – con importanti effetti sistematici – in una disciplina di carattere generale che sostanzialmente fa da incipit alle regole sulla c.d. “responsabilità genitoriale”, presente nel codice civile; si tratta più nel dettaglio del diritto “alla famiglia”, del diritto ai “rapporti con i parenti”, del diritto “all’ascolto”, e così via, ivi compreso il diritto ad essere assistito moralmente dai genitori. Particolarmente importante il diritto del “figlio” (indistintamente considerato) a mantenere rapporti significativi con i parenti, così valorizzandosi in specie l’interesse alla relazione con i nonni e con gli altri familiari, dal che discende per la più attenta dottrina una valorizzazione delle relazioni che contribuiscono ad arricchirne la relativa esperienza esistenziale.
Sul crinale dei doveri che ricadono sul “figlio”, l’art. 315 bis, ult. comma, c.c., ripropone il testo del vecchio art. 315 c.c., aggiungendovi – a titolo di parametro del pertinente obbligo contributivo – oltre alle sostanze e al reddito del figlio medesimo, anche le relative capacità, in modo parallelo rispetto a quanto accade agli obblighi posti a carico dei coniugi e dei genitori, onde il figlio convivente è tenuto a contribuire, anche con lo svolgimento di attività in ambito domestico o assistenziale, ai bisogni non già solo materiali, ma anche morali, della famiglia di appartenenza.
Ancora, significativa la presenza – tra i principi e criteri direttivi della legge delega – del canone che impone al Governo delegato l’abrogazione delle disposizioni riferentisi alla legittimazione, con conseguente abrogazione di ogni norma che, direttamente o indirettamente, faccia riferimento a tale istituto, considerato quale retaggio della differenza tra figli legittimi e figli naturali siccome mantenuta dalla riforma di cui alla legge 151.75, ed attraverso la quale è stato possibile per i figli “naturali” fino ad ora meno tutelati accedere allo status più “garantito”, per l’appunto, di figli legittimi.
Stando poi alla nuova versione dell’art.74 c.c., la “parentela” è il vincolo tra le persone che discendono da uno stesso stipite, tanto nel caso in cui la filiazione sia avvenuta all’interno del matrimonio, quanto ormai anche nel caso in cui essa abbia avuto luogo al di fuori di esso quanto, ancora, nel caso in cui il figlio sia adottivo; onde la nascita di un figlio anche al di fuori del matrimonio (o la relativa adozione) rende il figlio stesso “parente” dei parenti del proprio genitore (il ridetto vincolo di parentela non sorge invece nei casi di adozione di persone maggiori di età, di cui agli articoli 291 e seguenti). Ad un tempo, e coerentemente, alla stregua del nuovo art.258 c.c. il riconoscimento produce effetti riguardo al genitore da cui fu fatto ed anche riguardo ai parenti di esso.
2013
Il 28 dicembre viene varato il decreto legislativo n.154 con il quale il Governo provvede ad esercitare la delega conferitagli in materia di filiazione dalla legge 219.12, portando dunque a compimento la riforma organica della pertinente disciplina.
L’esito complessivo è quello per cui la parentela è ormai il vincolo tra persone che discendono da un medesimo stipite, sia nel caso in cui la filiazione sia avvenuta all’interno del matrimonio, sia nel caso in cui essa abbia trovato luogo al di fuori di esso, sia infine nel caso in cui il figlio sia adottivo.
Dal punto di vista dei nuovi rapporti di “parentela” tra figlio naturale (nato fuori dal contesto matrimoniale) ed adottivo e parenti del proprio genitore, il decreto in parola elimina ogni riferimento alla legittimità degli ascendenti nella successione necessaria (artt. 536, 538, 544 c.c.) e nella successione legittima (art 565 c.c.), ed elimina altresì ogni riferimento alla condizione, legittima o naturale, degli ascendenti in materia alimentare.
Per quanto concerne i rapporti con gli ascendenti, viene varata una nuova versione dell’art.317 bis c.c., alla cui stregua, riaffermato che gli ascendenti medesimi (segnatamente, i nonni) hanno diritto di mantenere rapporti significativi con i nipoti minorenni (comma 1), viene previsto che l’ascendente al quale sia impedito l’esercizio di tale diritto può ricorrere al giudice del luogo di residenza abituale del minore (comma 2) affinché siano adottati i provvedimenti più idonei nell’esclusivo interesse del minore, facendo applicazione sul piano procedurale dell’articolo 336, secondo comma, c.c..
2014
Il 22 gennaio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.1277 alla cui stregua non può omettersi di considerare come le unioni di fatto – nelle quali alla presenza di significative analogie con la famiglia formatasi nell’ambito di un legame matrimoniale si associa l’assenza di una completa e specifica regolamentazione giuridica, cui solo l’elaborazione giurisprudenziale e dottrinale ovvero una legislazione frammentaria talora sopperiscono – costituiscano il terreno fecondo sul quale possono germogliare e svilupparsi quei doveri dettati dalla morale sociale, dalla cui inosservanza discende un giudizio di riprovazione ed al cui spontaneo adempimento consegue l’effetto della “soluti retentio“, così come previsto dall’art. 2034 c.c..
Deve richiamarsi in primo luogo, per la Corte, l’interpretazione resa dalla Corte di Strasburgo (cfr., ex multis, sentenza 24 giugno 2010, Prima Sezione, caso Schalk e Kopft contro Austria) in merito all’art. 8 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, che tutela il diritto alla vita familiare, in base alla quale deve ritenersi la nozione di famiglia cui fa riferimento tale disposizione non essere limitata alle relazioni basate sul matrimonio, e potendo comprendere altri legami familiari di fatto, se le parti convivono fuori dal vincolo di coniugio. A tale indirizzo corrisponde un orientamento inteso a valorizzare il riconoscimento, ai sensi dell’art. 2 Cost., delle formazioni sociali e delle conseguenti intrinseche manifestazioni solidaristiche (così già Corte cost. n. 237 del 1986), nelle quali va ricondotta ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico (Corte cost., n. 138 del 2010; cfr. anche Corte cost. n. 404 del 1988, con collocazione del convivente more uxorio tra i successibili nella locazione, in caso di morte del conduttore). In tale nozione si è ricondotta la stabile convivenza tra due persone, anche dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone – nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri (cfr. la citata Corte cost., n. 138 del 2010, Cass., 15 marzo 2012, n. 4184).
Nella stessa legislazione nazionale, ancorché in maniera disorganica, e ferma restando la ovvia diversità dei rapporti personali e patrimoniali nascenti dalla convivenza di fatto rispetto a quelli originati dal matrimonio, sono emersi – rammenta la Corte – segnali sempre più significativi, in specifici settori, della rilevanza della famiglia di fatto.
Sotto tale profilo, e senza pretesa di completezza, val bene per la Corte richiamare la recente legge 10 dicembre 2012, n. 219, con cui è stata abolita ogni residua discriminazione tra figli “legittimi” e “naturali“; la legge 8 febbraio 2006, n. 54, che, introducendo il c.d. affidamento condiviso, ha esteso la relativa disciplina ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati; la l. 19 febbraio 2004, n. 40, che all’art. 5 prevede l’accesso alle tecniche di fecondazione assistita da parte delle coppie di fatto; la l. 9 gennaio 2004, n. 6, che, in relazione ai criteri, di cui all’art. 408 c.c., per la scelta dell’amministratore di sostegno, prevede anche che la stessa cada sulla persona stabilmente convivente con il beneficiario, nonché, all’art. 5, ha previsto, in relazione all’art. 417 c.c., che l’interdizione e l’inabilitazione siano promosse dalla persona stabilmente convivente; la l. 4 aprile 2001, n. 154, che ha introdotto nel codice civile gli artt. 342-bis e 342-ter, estendendo al convivente il regime di protezione contro gli abusi familiari; la l. 28 marzo 2001, n. 149, art. 7, che, sostituendo l’art. 6, comma 4, della l. 4 maggio 1983, n. 184, ha previsto che il requisito della stabilità della coppia di adottanti risulti soddisfatto anche quando costoro abbiano convissuto in modo stabile e continuativo prima del matrimonio per un periodo di tre anni.
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Il 10 giugno esce la sentenza della Corte costituzionale n.162 in materia di fecondazione artificiale eterologa che – in tema di “diritto a diventare genitori” – dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, comma 3, della legge 19 febbraio 2004, n. 40, nella parte in cui stabilisce il divieto del ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita (PMA) di tipo eterologo, qualora sia stata diagnosticata una patologia che sia causa di sterilità o infertilità assolute ed irreversibili.
Secondo la Corte Il divieto per le coppie sterili di ricorrere all’eterologa è privo di adeguato fondamento costituzionale e “la scelta di tali coppie di diventare genitori e di formare una famiglia che abbia dei figli” è “espressione della fondamentale e generale libertà di autodeterminarsi”. Secondo la Corte “la determinazione di avere o meno un figlio, anche per la coppia assolutamente sterile” riguarda “la sfera più intima ed intangibile della persona umana” e quindi “non può che essere incoercibile”. Inoltre, quel divieto ha creato “un ingiustificato, diverso trattamento delle coppie affette dalla più grave patologia, in base alla capacità economica”, perché chi poteva permetterselo è andato all’estero per effettuare l’eterologa, mentre chi non aveva i mezzi ha dovuto rinunciare.
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Il 26 giugno escono le sentenze gemelle della Corte EDU Mennesson c. Francia (26 giugno 2014, ric. n. 65192/11) e Labassee c. Francia (26 giugno 2014, ric. n. 65941/11), onde la circostanza che si sia fatto ricorso a tecniche di P.M.A. non espressamente disciplinata (o addirittura non consentita) in uno Stato membro non esclude, ma anzi impone, nel preminente interesse del nato, l’applicazione di tutte le disposizioni che riguardano lo stato del figlio venuto al mondo all’esito di tale peculiare percorso.
Ciò dovendosi garantire effettività della tutela del diritto di ogni persona umana alla propria identità, la quale, come sottolineato dalla Corte EDU, comprende l’identificazione del proprio status di figlio di determinati genitori.
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L’11 novembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.24001 onde, nel pronunciare in ordine allo stato di adottabilità di un minore nato all’estero mediante il ricorso alla predetta pratica, va assunto contrastante con l’ordine pubblico il riconoscimento dell’efficacia dell’atto di nascita formato all’estero, in cui siano indicati come genitori due coniugi italiani che si siano avvalsi della maternità surrogata senza fornire alcun apporto biologico (cfr. Cass., Sez. I, 11/11/2014, n. 24001).
Nel ribadire che l’ordine pubblico internazionale è «il limite che l’ordinamento nazionale pone all’ingresso di norme e provvedimenti stranieri, a protezione della sua coerenza interna», e dunque «non può ridursi ai soli valori condivisi dalla comunità internazionale, ma comprende anche principi e valori esclusivamente propri, purché fondamentali e (perciò) irrinunciabili», per la Corte va ritenuta pacifica l’applicabilità al caso di specie del divieto della surrogazione di maternità risultante dall’art. 12, comma 6, della legge n. 40 del 2004, osservando che tale disposizione è certamente di ordine pubblico, come suggerisce già la previsione della sanzione penale, posta di regola a presidio di beni fondamentali; precisa ancora il Collegio che «vengono qui in rilievo la dignità umana – costituzionalmente tutelata – della gestante e l’istituto dell’adozione, con il quale la surrogazione di maternità si pone oggettivamente in conflitto, perché soltanto a tale istituto, governato da regole particolari poste a tutela di tutti gli interessati, in primo luogo dei minori, e non al mero accordo delle parti, l’ordinamento affida la realizzazione di progetti di genitorialità priva di legami biologici con il nato»; va poi escluso che tale divieto si ponga in contrasto con l’interesse superiore del minore, tutelato dall’art. 3 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 20 novembre 1989, resa esecutiva in Italia con legge 27 maggio 1991, n. 176, ritenendolo esso piuttosto espressione di una scelta non irragionevole, compiuta dal legislatore nell’esercizio della relativa discrezionalità, e volta a far si «che tale interesse si realizzi proprio attribuendo la maternità a colei che partorisce e affidando […] all’istituto dell’adozione, realizzata con le garanzie proprie del procedimento giurisdizionale, piuttosto che al semplice accordo delle parti, la realizzazione di una genitorialità disgiunta dal legame biologico».
2016
Il 22 giugno esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.12962 che, sulla scia della giurisprudenza predominante sul punto, assume ammissibile l’adozione cosiddetta non legittimante in favore del partner dello stesso sesso del genitore biologico del minore, ai sensi dell’art. 44, comma 1, lettera d), della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia).
In questa chiave, va escluso per la Corte che una valutazione negativa circa la sussistenza del requisito dell’interesse del minore possa fondarsi esclusivamente sull’orientamento sessuale del richiedente l’adozione e del relativo partner, non incidendo l’orientamento sessuale della coppia sull’idoneità dell’individuo all’assunzione della responsabilità genitoriale.
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Il 30 settembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.19599, avente ad oggetto il riconoscimento dell’atto straniero di nascita di un minore generato da due donne, una delle quali ha fornito l’ovulo necessario al concepimento mediante procreazione medicalmente assistita, mentre l’altra lo ha partorito.
La Corte, nel ribadire la nozione di ordine pubblico internazionale, si pone in rapporto di continuità con il pertinente nuovo orientamento, affermando che «il legame, pur sempre necessario con l’ordinamento nazionale, è da intendersi limitato ai principi fondamentali desumibili, in primo luogo, dalla Costituzione, ma anche, laddove compatibili con essa, dai trattati fondativi e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, nonché dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo»; essa precisa che «un contrasto con l’ordine pubblico non è ravvisabile per il solo fatto che la norma straniera sia difforme contenutisticamente da una o più disposizioni del diritto nazionale, perché il parametro di riferimento non è costituito (o non è costituito più) dalle norme con le quali il legislatore ordinario eserciti (o abbia esercitato) la propria discrezionalità in una determinata materia, ma esclusivamente dai principi fondamentali vincolanti per lo stesso legislatore ordinario», e conclude pertanto che «il giudice, al quale è affidato il compito di verificare preventivamente la compatibilità della norma straniera con tali principi, dovrà negare il contrasto con l’ordine pubblico in presenza di una mera incompatibilità (temporanea) della norma straniera con la legislazione nazionale vigente, quando questa rappresenti una delle possibili modalità di espressione della discrezionalità del legislatore ordinario in un determinato momento storico».
Sotto altro profilo peraltro, per la Corte “le conseguenze della violazione delle prescrizioni e dei divieti posti dalla L. n. 40 del 2004 imputabile agli adulti che hanno fatto ricorso ad una pratica fecondativa illegale in Italia non possono ricadere su chi è nato“, di ciò essendosi mostrato consapevole lo stesso legislatore, il quale, all’art. 9, comma 1, ha previsto che, in caso di ricorso a tecniche (allora vietate) di procreazione medicalmente assistita addirittura di tipo eterologo, il coniuge o convivente consenziente non possa esercitare l’azione di disconoscimento della paternità, né impugnare il riconoscimento per difetto di veridicità.
La stessa Corte di cassazione assume dunque possibile la trascrizione, nel registro dello stato civile in Italia, di un atto straniero dal quale risulti la nascita di un figlio da due donne, a seguito della medesima tecnica di procreazione assistita – comunemente nota come ROPA (Reception of Oocytes from Partner) – che intenderebbero praticare le due ricorrenti nel giudizio pendente davanti al Tribunale di Bolzano (donazione dell’ovulo da parte della prima e conduzione della gravidanza da parte della seconda con utilizzo di un gamete maschile di un terzo).
Nell’escludere che la trascrizione si ponga in contrasto con l’ordine pubblico interno, il giudice di legittimità rileva, da un lato, che non è configurabile un divieto costituzionale, per le coppie omosessuali, di accogliere e anche generare figli; dall’altro, che non esistono neppure certezze scientifiche o dati di esperienza in ordine al fatto che l’inserimento del figlio in una famiglia formata da una coppia omosessuale abbia ripercussioni negative sul piano educativo e dello sviluppo della personalità del minore, dovendo la dannosità di tale inserimento essere dimostrata in concreto.
2017
Il 15 giugno esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.14878 in tema di rettifica dell’atto di nascita di un minore generato all’estero da due donne mediante il ricorso alla fecondazione assistita, onde la contrarietà dell’atto estero all’ordine pubblico internazionale dev’essere valutata alla stregua non solo dei principi della nostra Costituzione, ma anche, tra l’altro, di quelli consacrati nella Dichiarazione ONU dei Diritti dell’Uomo, nella Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, nei Trattati Fondativi e nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, nonché, con particolare riferimento alla posizione del minore e al relativo interesse, tenendo conto della Dichiarazione ONU dei diritti del Fanciullo, della Convenzione ONU dei Diritti del Fanciullo e della Convenzione Europea di Strasburgo sui diritti processuali del minore (cfr. Cass., Sez. I, 15/06/2017, n. 14878).
La Corte ribadisce inoltre, nella sostanza, che le conseguenze della violazione delle prescrizioni e dei divieti posti dalla L. n. 40 del 2004 imputabile agli adulti che hanno fatto ricorso ad una pratica fecondativa illegale in Italia non possono ricadere su chi è nato, di ciò essendosi mostrato consapevole lo stesso legislatore, il quale, all’art. 9, comma 1, ha previsto che, in caso di ricorso a tecniche (allora vietate) di procreazione medicalmente assistita addirittura di tipo eterologo, il coniuge o convivente consenziente non possa esercitare l’azione di disconoscimento della paternità, né impugnare il riconoscimento per difetto di veridicità.
2018
Il 22 febbraio esce l’ordinanza della I sezione della Cassazione n.4382, in tema di trascrivibilità in Italia di atto di nascita estero connotato da genitorialità same sex, onde – poiché il giudice a quo ha richiamato la nozione, assai circoscritta, di “ordine pubblico”, fatta propria dalla sentenza della I sezione n. 19599 del 2016 con riferimento ai soli principi supremi o fondamentali e vincolanti della Carta costituzionale (e fra questi anche quello relativo all’interesse superiore del minore) che avrebbero trovato riconoscimento e tutela nell’ordinamento internazionale e in quello interno, e non anche in base alle norme costituenti esercizio della discrezionalità legislativa (quali ad es. la disciplina sulle unioni civili di cui alla L. n. 76 del 2016, o quella relativa alla fecondazione assistita, con i suoi divieti, di cui alla L. n. 40 del 2004), in materie connesse o direttamente implicate rispetto a quella qui pertinente – di tale rilevante problema si propone che siano ora investite le stesse Sezioni unite civili.
Ciò, precisa il Collegio, atteso che di recente le ridette SSUU sembrano avere in parte dissentito dal menzionato arresto della I sezione, con una pronuncia (n. 16601 del 2017), resa a proposito della possibilità di dare ingresso in Italia anche a decisioni, contenenti statuizioni positivamente date, circa i “danni punitivi”, che non sono previsti dall’ordinamento italiano e che non corrispondono alla nostra tradizione giuridica; con quest’ultima pronuncia il concetto di “ordine pubblico” sembra infatti essere non già limitato ai soli principi supremi o fondamentali e vincolanti della Costituzione, ma anche estraibile da norme costituenti esercizio della discrezionalità legislativa.
2019
L’8 maggio esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.12193 che si occupa di doppia paternità, genitore non biologico “d’intenzione”, provvedimento straniero, rifiuto di trascrizione negli registri dello stato civile e divieto della surrogazione di maternità quale principio di ordine pubblico
Per la Corte in primo luogo, sul crinale processuale, il rifiuto di procedere alla trascrizione nei registri dello stato civile (nel caso di specie) di un provvedimento giurisdizionale straniero con il quale sia stato accertato il rapporto di filiazione tra un minore nato all’estero ed un cittadino italiano – se non determinato da vizi formali ma attinente, piuttosto a ragioni di ordine sostanziale – dà luogo ad una controversia di stato, da risolversi mediante il procedimento disciplinato dall’art. 67 della legge n. 218 del 1995, in contraddittorio con il Sindaco, in qualità di ufficiale dello stato civile, ed eventualmente con il Ministero dell’interno, legittimato a spiegare intervento nel giudizio, in qualità di titolare della competenza in materia di tenuta dei registri dello stato civile, nonché ad impugnare la relativa decisione.
Nel giudizio avente ad oggetto il riconoscimento dell’efficacia di un provvedimento giurisdizionale straniero con il quale sia stato accertato il rapporto di filiazione tra un minore nato all’estero ed un cittadino italiano, il Pubblico Ministero – precisa ancora la Corte – riveste la qualità di litisconsorte necessario, ai sensi dello art. 70, primo comma, n. 3 cod. proc. civ., ma è privo della legittimazione ad impugnare la relativa decisione, non essendo titolare del potere di azione, neppure ai fini dell’osservanza delle leggi di ordine pubblico.
Venendo al caso di specie, va escluso per il Collegio che – attraverso il riconoscimento dell’efficacia del provvedimento emesso dal Giudice canadese ed in particolare mediante l’affermazione della conformità all’ordine pubblico dell’accertamento di un rapporto di filiazione non fondato su un legame biologico (c.d. genitorialità “d’intenzione” – l’ordinanza odiernamente impugnata sia incorsa nel vizio di eccesso di potere giurisdizionale per invasione della sfera di attribuzioni riservata al legislatore; a tale fattispecie la Corte ha infatti attribuito un rilievo eminentemente teorico, ritenendola configurabile soltanto qualora il giudice non si sia limitato ad applicare una norma giuridica esistente, ma ne abbia creata una nuova, in tal modo esercitando un’attività di produzione normativa estranea alla relativa competenza.
Essa – prosegue il Collegio – non è invece ravvisabile nel caso in esame, avendo la Corte d’appello giustificato la propria decisione attraverso il richiamo a una pluralità di indici normativi, collegati tra loro ed interpretati alla luce dei principi enunciati dalla giurisprudenza di legittimità e dalla Corte EDU, dai quali ha tratto la convinzione che il modello di genitorialità cui s’ispira il nostro ordinamento nell’attuale momento storico non possa più considerarsi fondato esclusivamente sul legame biologico tra il genitore ed il nato, ma debba tener conto di nuove fattispecie contrassegnate dalla costituzione di un legame familiare con quest’ultimo, in conseguenza della consapevole assunzione da parte del primo della responsabilità di allevarlo ed accudirlo, nel quadro di un progetto di vita della coppia costituita con il genitore biologico.
In quanto ancorato alla disciplina vigente, sia pure interpretata secondo criteri evolutivi, il percorso logico-giuridico seguito per giungere alla decisione risulta immune dal vizio lamentato, la cui individuazione presupporrebbe d’altronde la possibilità di distinguere, nell’ambito del predetto iter, l’attività di produzione normativa inammissibilmente esercitata dal giudice da quella interpretativa a lui normalmente affidata: operazione, questa, piuttosto disagevole, in quanto, come la Corte ha già avuto modo di rilevare, l’interpretazione non svolge una funzione meramente euristica, ma si sostanzia nell’enunciazione della regula juris applicabile al caso concreto, con profili innegabilmente creativi.
E’ proprio alla luce di tale considerazione che va ribadita la portata eminentemente astratta e teorica dell’eccesso di potere giurisdizionale, certamente non configurabile quando, come nella specie, il giudice si sia attenuto al compito interpretativo che gli è proprio, ricercando la predetta regola attraverso la ricostruzione della voluntas legis, anche se la stessa non sia stata desunta dal tenore letterale delle singole disposizioni, ma dal loro coordinamento sistematico, in quanto tale operazione non può tradursi nella violazione dei limiti esterni della giurisdizione, ma può dar luogo, al più, ad un error in iudicando (cfr. Cass., Sez. Un., 27/06/2018, n. 16974; 12/12/2012, n. 22784; 28/01/2011, n. 2068).
Nell’escludere la contrarietà all’ordine pubblico del provvedimento con cui il Giudice canadese ha riconosciuto a X ed Y, già dichiarati figli di Z, il medesimo status nei confronti di R., con il quale i minori non hanno alcun legame biologico, l’ordinanza impugnata ha richiamato una recente pronuncia di legittimità, che identifica la predetta nozione – ovvero l’ordine pubblico – con il «complesso dei principi fondamentali caratterizzanti l’ordinamento interno in un determinato periodo storico, ma ispirati ad esigenze di tutela dei diritti fondamentali dell’uomo comuni ai diversi ordinamenti e collocati ad un livello sovraordinato rispetto alla legislazione ordinaria» (cfr. Cass., Sez. I, 30/09/2016, n. 19599).
Premesso che, a differenza di quanto previsto dalla legge canadese, che ammette il ricorso alla maternità surrogata, purché a titolo gratuito, la disciplina della procreazione medicalmente assistita vigente nel nostro ordinamento non lo consente, la Corte di merito ha ritenuto che il divieto posto dalla legge n. 40 del 2004 non precluda il riconoscimento dell’efficacia del provvedimento straniero con cui è stato accertato il rapporto di filiazione tra i minori generati attraverso la suddetta pratica ed il genitore “intenzionale”, trattandosi di disposizioni che non costituiscono espressione di principi vincolanti per il legislatore ordinario, ma dell’ampio margine di apprezzamento di cui quest’ultimo gode nella regolamentazione di una materia in ordine alla quale non vi è consenso a livello Europeo, per i delicati interrogativi di ordine etico che la stessa suscita.
Precisato inoltre che il nostro ordinamento non prevede un modello di genitorialità fondato esclusivamente sul legame biologico tra il genitore ed il nato, ha conferito rilievo da un lato all’interesse superiore dei minori, identificato nel diritto a conservare lo status di figli loro riconosciuto dall’atto validamente formato all’estero, dall’altro alla consapevole decisione di accudirli ed allevarli, nell’ambito del progetto familiare avviato con l’altro genitore.
Il richiamo – chiosa ancora il Collegio – ai principi fondamentali che caratterizzano l’ordinamento interno nell’attuale momento storico, quale parametro di riferimento della valutazione prescritta ai fini del riconoscimento, costituisce espressione dell’orientamento da tempo affermatosi nella giurisprudenza di legittimità, che, abbandonando la precedente concezione difensiva dell’ordine pubblico quale limite all’ingresso nel nostro ordinamento di norme ed atti provenienti da altri sistemi e ritenuti contrastanti con i valori sottesi alla vigente normativa interna, ha attribuito alla predetta nozione una diversa funzione, eminentemente promozionale, che circoscrive l’ambito del giudizio di compatibilità ai valori tutelati dalle norme fondamentali, ponendo in risalto il collegamento degli stessi con quelli riconosciuti a livello internazionale e sovranazionale, dei quali mira a favorire la diffusione, congiuntamente all’armonizzazione tra gli ordinamenti.
In passato, la giurisprudenza di legittimità si era infatti uniformata ad una nozione di ordine pubblico fortemente orientata alla salvaguardia dell’identità e della coerenza interna dell’ordinamento, nonché alla difesa delle concezioni morali e politiche che ne costituivano il fondamento, definendolo come il complesso dei principi fondamentali che caratterizzano la struttura etico-sociale della comunità nazionale in un determinato periodo storico e dei principi inderogabili immanenti ai più importanti istituti giuridici (cfr. Cass., Sez. I, 12/03/1984, n. 1680; 14/04/1980, n. 2414; 5/12/1969, n. 3881): pur distinguendo concettualmente tra ordine pubblico internazionale, riferibile ai soli rapporti caratterizzati da profili transnazionali e preclusivo del richiamo alla legge straniera applicabile in base ai criteri stabiliti dalle norme di diritto internazionale privato, ed ordine pubblico interno, attinente invece alla libera esplicazione dell’autonomia privata nei rapporti tra soggetti appartenenti al medesimo ordinamento (cfr. Cass., Sez. lav., 25/05/1985, n. 3209; Cass., Sez. I, 3/05/1984, n. 2682; Cass., Sez. II, 19/02/1970, n. 389), il predetto indirizzo faceva sostanzialmente coincidere le due nozioni, ravvisando nella prima null’altro che un aspetto della seconda, fino ad affermare esplicitamente che essa non doveva essere intesa in senso astratto ed universale, ma andava riferita all’ordinamento giuridico nazionale ed ai relativi più elevati interessi, dei quali era volta ad assicurare il rispetto (cfr. Cass., Sez. I, 9/01/1976, n. 44; 14/04/1972, n. 1266; 24/04/1962, n. 818).
Tale orientamento, estendendo il parametro di riferimento della valutazione prescritta ai fini della delibazione ai principi informatori dei singoli istituti, quali si desumono dalle norme imperative che li disciplinano, finiva tuttavia per lasciare ben poco spazio all’efficacia dei provvedimenti stranieri, la cui attuazione nel territorio dello Stato risultava in definitiva subordinata alla condizione che la disciplina dagli stessi applicata non differisse, almeno nelle linee essenziali, da quella dettata dall’ordinamento interno.
L’apertura di quest’ultimo al diritto sovranazionale ed il recepimento dei principi introdotti dalle convenzioni internazionali cui il nostro Paese ha prestato adesione, oltre ad influire sull’interpretazione della normativa interna, ha peraltro determinato una modificazione del concetto di ordine pubblico internazionale, caratterizzato, nelle formulazioni più recenti, da un sempre più marcato riferimento ai valori giuridici condivisi dalla comunità internazionale ed alla tutela dei diritti fondamentali, al quale fa inevitabilmente riscontro un affievolimento dell’attenzione verso quei profili della disciplina interna che, pur previsti da norme imperative, non rispondono ai predetti canoni.
Emblematica di tale evoluzione è l’affermazione di ordine generale secondo cui i principi di ordine pubblico vanno individuati in quelli fondamentali della nostra Costituzione o in quelle altre regole che, pur non trovando in essa collocazione, rispondono all’esigenza di carattere universale di tutelare i diritti fondamentali dell’uomo, o che informano l’intero ordinamento in modo tale che la loro lesione si traduce in uno stravolgimento dei valori fondanti dell’intero assetto ordinamentale (cfr. Cass., Sez. lav., 26/05/2008, n. 13547; 23/02/2006, n. 4040; 26/11/2004, n. 22332).
Significativa è anche la precisazione, conforme alle critiche mosse al precedente orientamento, che l’ordine pubblico internazionale non è identificabile con quello interno, perché altrimenti le norme di conflitto sarebbero operanti solo ove conducessero all’applicazione di norme materiali aventi contenuto simile a quelle italiane, con la conseguenza che resterebbe cancellata la diversità tra sistemi giuridici e diverrebbero sostanzialmente inutili le stesse regole del diritto internazionale privato (cfr. Cass., Sez. lav., 4/05/2007, n. 10215).
La conclusione che se ne trae – prosegue la Corte – è che non vi è coincidenza tra le norme inderogabili dell’ordinamento italiano ed i principi di ordine pubblico rilevanti come limitazione all’applicazione di leggi straniere, dal momento che questi ultimi non vanno enucleati soltanto dal quadro normativo interno, ma devono essere ricavati da esigenze (comuni ai diversi ordinamenti statali) di garanzia e tutela dei diritti fondamentali, o da valori fondanti dell’intero assetto ordinamentale (cfr. Cass., Sez. III, 22/08/2013, n. 19405; Cass., Sez. lav., 19/ 07/2007, n. 16017).
In tale mutato contesto s’inserisce anche il precedente richiamato dalla ordinanza impugnata, avente ad oggetto il riconoscimento dell’atto straniero di nascita di un minore generato da due donne, una delle quali aveva fornito l’ovulo necessario al concepimento mediante procreazione medicalmente assistita, mentre l’altra lo aveva partorito: tale pronuncia, nel ribadire la nozione di ordine pubblico dianzi riportata, si pone in rapporto di continuità con il nuovo orientamento, affermando a chiare lettere che «il legame, pur sempre necessario con l’ordinamento nazionale, è da intendersi limitato ai principi fondamentali desumibili, in primo luogo, dalla Costituzione, ma anche, laddove compatibili con essa, dai trattati fondativi e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, nonché dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo»; essa precisa che «un contrasto con l’ordine pubblico non è ravvisabile per il solo fatto che la norma straniera sia difforme contenutisticamente da una o più disposizioni del diritto nazionale, perché il parametro di riferimento non è costituito (o non è costituito più) dalle norme con le quali il legislatore ordinario eserciti (o abbia esercitato) la propria discrezionalità in una determinata materia, ma esclusivamente dai principi fondamentali vincolanti per lo stesso legislatore ordinario», e conclude pertanto che «il giudice, al quale è affidato il compito di verificare preventivamente la compatibilità della norma straniera con tali principi, dovrà negare il contrasto con l’ordine pubblico in presenza di una mera incompatibilità (temporanea) della norma straniera con la legislazione nazionale vigente, quando questa rappresenti una delle possibili modalità di espressione della discrezionalità del legislatore ordinario in un determinato momento storico» (cfr. Cass., Sez. I, 30/09/2016, n. 19599, cit).
Nella medesima ottica, una successiva pronuncia, riguardante la rettifica dell’atto di nascita di un minore generato da due donne mediante il ricorso alla fecondazione assistita, ha affermato che la contrarietà dell’atto estero all’ordine pubblico internazionale dev’essere valutata alla stregua non solo dei principi della nostra Costituzione, ma anche, tra l’altro, di quelli consacrati nella Dichiarazione ONU dei Diritti dell’Uomo, nella Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, nei Trattati Fondativi e nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, nonché, con particolare riferimento alla posizione del minore e al relativo interesse, tenendo conto della Dichiarazione ONU dei diritti del Fanciullo, della Convenzione ONU dei Diritti del Fanciullo e della Convenzione Europea di Strasburgo sui diritti processuali del minore (cfr. Cass., Sez. I, 15/06/2017, n. 14878).
Il risalto in tal modo conferito ai principi consacrati nelle fonti internazionali e sovranazionali, ai quali viene attribuita una portata complementare a quella dei principi sanciti dalla nostra Costituzione, non trova smentita nella recente sentenza emessa dalla Corte a Sezioni Unite e richiamata nell’ordinanza di rimessione (cfr. Cass., Sez. Un., 5/07/2017, n. 16601), la quale, nell’escludere la sussistenza di un’incompatibilità ontologica tra l’istituto dei danni punitivi e l’ordinamento italiano, non ha affatto inteso rimettere in discussione il predetto orientamento, ma si è limitata a richiamare l’attenzione sui principi fondanti del nostro ordinamento, con i quali il giudice investito della domanda di riconoscimento è pur sempre tenuto a confrontarsi.
A fronte degli effetti sovente innovativi della mediazione esercitata dalle carte sovranazionali ai fini dell’ingresso di istituti provenienti da altri ordinamenti, la Corte ha in quella occasione ribadito l’essenzialità del controllo sui principi essenziali della lex fori in materie presidiate da un insieme di norme di sistema che attuano il fondamento della repubblica, affermando che «Costituzioni e tradizioni giuridiche con le loro diversità costituiscono un limite ancor vivo: privato di venature egoistiche, che davano loro “fiato corto”, ma reso più complesso dall’intreccio con il contesto internazionale in cui lo Stato si colloca».
Ha quindi chiarito che la sentenza straniera applicativa di un istituto non regolato dall’ordinamento nazionale, quand’anche non ostacolata dalla disciplina Europea, deve misurarsi «con il portato della Costituzione e di quelle leggi che, come nervature sensibili, fibre dell’apparato sensoriale e delle parti vitali di un organismo, inverano l’ordinamento costituzionale»; nel contempo, ha precisato che la valutazione di compatibilità con l’ordine pubblico non può essere limitata alla ricerca di una piena corrispondenza tra istituti stranieri ed istituti italiani, ma deve estendersi alla verifica dell’eventuale contrasto tra l’istituto di cui si chiede il riconoscimento e l’intreccio di valori e norme rilevanti ai fini della delibazione.
Viene in tal modo evidenziato un profilo importante della valutazione di compatibilità, rimasto forse in ombra nelle enunciazioni di principio delle precedenti decisioni, ma dalle stesse tenuto ben presente nell’esame delle fattispecie concrete, ovverosia la rilevanza della normativa ordinaria, quale strumento di attuazione dei valori consacrati nella Costituzione, e la conseguente necessità di tener conto, nell’individuazione dei principi di ordine pubblico, del modo in cui i predetti valori si sono concretamente incarnati nella disciplina dei singoli istituti.
Significativo, in proposito, risulta l’ampio excursus dedicato dalla prima delle sentenze richiamate alle norme di legge ordinaria che conferiscono rilievo all’interesse superiore del minore ed a quelle che disciplinano l’acquisto dello status di figlio e la procreazione medicalmente assistita. Così come va sottolineata l’attenzione costantemente prestata, in tema di riconoscimento dell’efficacia dei provvedimenti stranieri, all’opera di sintesi e ricomposizione attraverso la quale la giurisprudenza costituzionale e quella di legittimità sono pervenute all’estrapolazione dei principi fondamentali, sulla base non solo dei solenni enunciati della Costituzione e delle Convenzioni e Dichiarazioni internazionali, ma anche dell’interpretazione della legge ordinaria, che dà forma a quel diritto vivente dalla cui valutazione non può prescindersi nella ricostruzione dell’ordine pubblico, quale insieme dei valori fondanti dell’ordinamento in un determinato momento storico.
Caratteristica essenziale della nozione di ordine pubblico è infatti la relatività e mutevolezza nel tempo del relativo contenuto, soggetto a modificazioni in dipendenza dell’evoluzione dei rapporti politici, economici e sociali, e quindi inevitabilmente destinato ad essere influenzato dalla disciplina ordinaria degl’istituti giuridici e dalla relativa interpretazione, che di quella evoluzione costituiscono espressione, e che contribuiscono a loro volta a tenere vivi e ad arricchire di significati i principi fondamentali dell’ordinamento.
Il segnalato processo di armonizzazione tra gli ordinamenti, di cui costituisce espressione il riferimento ai valori giuridici condivisi dalla comunità internazionale, non esige d’altronde – prosegue la Corte – la realizzazione di un’assoluta uniformità nella disciplina delle singole materie, spettando alla discrezionalità del legislatore l’individuazione degli strumenti più opportuni per dare attuazione a quei valori, compatibilmente con i principi ispiratori del diritto interno, senza che ciò consenta di declassare automaticamente a mera normativa di dettaglio le disposizioni a tal fine adottate. In tal senso depongono anche gli artt. 64 e ss. della legge n. 218 del 1995, i quali, nel disciplinare l’ingresso nel nostro ordinamento di atti e provvedimenti formati all’estero, non prevedono affatto il recepimento degl’istituti ivi applicati, così come sono disciplinati dagli ordinamenti di provenienza, ma si limitano a consentire la produzione dei relativi effetti, nella misura in cui gli stessi risultino compatibili con la delineata nozione di ordine pubblico.
Conclusivamente sul punto, per le SSUU in tema di riconoscimento dell’efficacia del provvedimento giurisdizionale straniero, la compatibilità con l’ordine pubblico, richiesta dagli artt. 64 e ss. della legge n. 218 del 1995, dev’essere valutata alla stregua non solo dei principi fondamentali della nostra Costituzione e di quelli consacrati nelle fonti internazionali e sovranazionali, ma anche del modo in cui gli stessi si sono incarnati nella disciplina ordinaria dei singoli istituti, nonché dell’interpretazione fornitane dalla giurisprudenza costituzionale ed ordinaria, la cui opera di sintesi e ricomposizione dà forma a quel diritto vivente dal quale non può prescindersi nella ricostruzione delle nozione di ordine pubblico, quale insieme dei valori fondanti dell’ordinamento in un determinato momento storico.
Venendo al caso di specie, l’ordinanza impugnata – per il Collegio – si è limitata a far proprie le enunciazioni di principio della sentenza n. 19599 del 2016, ritenendole suscettibili di automatica trasposizione alla fattispecie da essa esaminata, senza tener conto delle profonde differenze intercorrenti tra la stessa e quella presa in considerazione dal precedente di legittimità, ed omettendo conseguentemente di valutare il diverso modo di atteggiarsi dei principi richiamati, alla stregua della disciplina ordinaria specificamente applicabile; la domanda proposta nel presente giudizio ha infatti ad oggetto il riconoscimento dell’efficacia di un provvedimento emesso all’estero, che ha attribuito ai minori lo status di figli di uno dei due istanti, con il quale essi non hanno alcun rapporto biologico, essendo stati generati mediante gameti forniti dall’altro, già dichiarato loro genitore con un precedente provvedimento regolarmente trascritto in Italia, con la cooperazione di due donne, una delle quali ha donato gli ovociti, mentre l’altra, in virtù di un accordo validamente stipulato ai sensi della legge straniera, ha portato avanti la gravidanza, rinunciando preventivamente a qualsiasi diritto nei confronti dei minori.
Il giudizio nel quale è stata pronunciata la sentenza richiamata aveva invece ad oggetto la trascrizione nei registri dello stato civile italiano di un atto di nascita formato all’estero e riguardante un minore generato da due donne, a ciascuna delle quali egli risultava legato da un rapporto biologico, in quanto una di esse lo aveva partorito, mentre l’altra aveva fornito gli ovuli necessari per il concepimento mediante procreazione medicalmente assistita.
Le due fattispecie hanno in comune il fatto che il concepimento e la nascita del minore hanno avuto luogo in attuazione di un progetto genitoriale maturato nell’ambito di una coppia omosessuale, con l’apporto genetico di uno solo dei partner, differenziandosi invece per il numero di terzi estranei (due, anziché uno) che hanno cooperato al predetto scopo, e soprattutto per il contributo fornito da uno di essi, che risulta però determinante ai fini della individuazione della disciplina applicabile.
Come rilevato dalla Corte, la tecnica fecondativa esaminata dalla precedente sentenza è assimilabile per un verso alla fecondazione eterologa, alla quale è accomunata dalla necessità dell’apporto genetico di un terzo donatore del gamete per la realizzazione del progetto genitoriale proprio di una coppia che, essendo dello stesso sesso, si trovi in una situazione analoga a quella di una coppia di persone di sesso diverso cui sia diagnosticata una sterilità o infertilità assoluta e irreversibile, per altro verso alla fecondazione omologa, con la quale condivide il contributo genetico fornito da un partner all’altro nell’ambito della stessa coppia. La fattispecie non è pertanto riconducibile alla surrogazione di maternità, in quanto priva della caratteristica essenziale di tale figura, costituita dal fatto che una donna presta il proprio corpo (ed eventualmente gli ovuli necessari al concepimento) al solo fine di aiutare un’altra persona o una coppia sterile a realizzare il proprio desiderio di avere un figlio, assumendo l’obbligo di provvedere alla gestazione ed al parto per conto della stessa, ed impegnandosi a consegnarle il nascituro.
E’ per tale motivo che la predetta sentenza ha potuto agevolmente escludere l’applicabilità dell’art. 12, comma sesto, della legge n. 40 del 2004, che vieta «la commercializzazione di gameti o di embrioni o la surrogazione di maternità», comminando una sanzione penale per «chiunque, in qualsiasi forma», la «realizza, organizza o pubblicizza»; nel contempo, essa ha evidenziato la minore portata del divieto di accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, imposto dall’art. 5 alle coppie dello stesso sesso, osservando che, ai sensi del comma secondo dell’art. 12, lo stesso è presidiato esclusivamente da una sanzione amministrativa; ed ha dato atto della diversità della fattispecie anche dalla fecondazione eterologa, dalla quale si distingue per il fatto che l’ovulo è fornito dal partner della gestante, ritenendo quindi non pertinente il richiamo all’art. 9, comma terzo, della medesima legge, che, in caso di violazione del divieto di cui all’art. 4, comma terzo, preclude al donatore di gameti l’acquisizione di qualsiasi relazione giuridica parentale con il nato e la possibilità di far valere nei confronti dello stesso alcun diritto o assumere alcun obbligo.
La fattispecie che costituisce oggetto del presente giudizio – prosegue la Corte – è invece annoverabile a pieno titolo tra le ipotesi di maternità surrogata, caratterizzandosi proprio per l’accordo intervenuto con una donna estranea alla coppia genitoriale, che ha provveduto alla gestazione ed al parto, rinunciando tuttavia ad ogni diritto nei confronti dei nati: essa non è pertanto assimilabile in alcun modo a quella esaminata dal precedente citato, e neppure a quella che ha costituito oggetto della successiva sentenza n. 14878 del 2017, riguardante la rettifica dell’atto di nascita di un minore, formato all’estero e già trascritto in Italia, a seguito della modifica apportata dall’ufficiale di stato civile straniero, che aveva indicato il nato come figlio non solo della donna che lo aveva partorito, ma anche di un’altra donna, con essa coniugata, con cui il minore non aveva alcun legame biologico; nell’escludere la contrarietà della rettifica all’ordine pubblico, quest’ultima sentenza ha infatti equiparato la fattispecie alla fecondazione eterologa, ricordando da un lato che il divieto del ricorso a tale pratica è venuto parzialmente meno per effetto della sentenza n. 162 del 2014, con cui la Corte costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 4, comma terzo, della legge n. 40 del 2004, e richiamando dall’altro i principi enunciati dalla sentenza n. 19599 del 2016.
Tale ragionamento non è tuttavia suscettibile di estensione al caso in esame, il cui unico punto di contatto con la fecondazione eterologa è rappresentato dall’estraneità alla coppia di uno dei soggetti che hanno fornito i gameti necessari per il concepimento, dal momento che la gestazione ed il parto non hanno avuto luogo nell’ambito della coppia, ma con la cooperazione di un quarto soggetto. In quanto manifestatosi nelle forme tipiche della surrogazione di maternità, l’intervento di quest’ultimo rende la vicenda assimilabile a quella presa in considerazione da una più risalente sentenza con cui la Corte, nel pronunciare in ordine allo stato di adottabilità di un minore nato all’estero mediante il ricorso alla predetta pratica, ha ritenuto contrastante con l’ordine pubblico il riconoscimento dell’efficacia dell’atto di nascita formato all’estero, in cui erano indicati come genitori due coniugi italiani, i quali si erano avvalsi della maternità surrogata senza fornire alcun apporto biologico (cfr. Cass., Sez. I, 11/11/2014, n. 24001).
Nel ribadire che l’ordine pubblico internazionale è «il limite che l’ordinamento nazionale pone all’ingresso di norme e provvedimenti stranieri, a protezione della sua coerenza interna», e dunque «non può ridursi ai soli valori condivisi dalla comunità internazionale, ma comprende anche principi e valori esclusivamente propri, purché fondamentali e (perciò) irrinunciabili», tale sentenza ha ritenuto pacifica l’applicabilità del divieto della surrogazione di maternità risultante dall’art. 12, comma 6, della legge n. 40 del 2004, osservando che tale disposizione è certamente di ordine pubblico, come suggerisce già la previsione della sanzione penale, posta di regola a presidio di beni fondamentali; ha precisato che «vengono qui in rilievo la dignità umana – costituzionalmente tutelata – della gestante e l’istituto dell’adozione, con il quale la surrogazione di maternità si pone oggettivamente in conflitto, perché soltanto a tale istituto, governato da regole particolari poste a tutela di tutti gli interessati, in primo luogo dei minori, e non al mero accordo delle parti, l’ordinamento affida la realizzazione di progetti di genitorialità priva di legami biologici con il nato»; ed ha escluso che tale divieto si ponga in contrasto con l’interesse superiore del minore, tutelato dall’art. 3 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 20 novembre 1989, resa esecutiva in Italia con legge 27 maggio 1991, n. 176, ritenendolo espressione di una scelta non irragionevole, compiuta dal legislatore nell’esercizio della relativa discrezionalità, e volta a far si «che tale interesse si realizzi proprio attribuendo la maternità a colei che partorisce e affidando […] all’istituto dell’adozione, realizzata con le garanzie proprie del procedimento giurisdizionale, piuttosto che al semplice accordo delle parti, la realizzazione di una genitorialità disgiunta dal legame biologico».
Rispetto alla fattispecie presa in considerazione dalla predetta sentenza, quella esaminata dall’ordinanza impugnata si distingue soltanto per il fatto che la surrogazione di maternità non si è realizzata mediante gameti interamente forniti da soggetti estranei alla coppia, ma con il contributo genetico di uno dei componenti della stessa; nella specie, tuttavia, l’assenza di un legame genetico tra i minori e l’altro partner è stata ritenuta inidonea ad impedire il riconoscimento del rapporto genitoriale accertato con il provvedimento del Giudice canadese, in virtù dell’affermazione che il modello di genitorialità cui s’ispira il nostro ordinamento non è fondato esclusivamente sul legame biologico tra il genitore ed il nato. Per giungere a tale conclusione, la Corte di merito ha escluso innanzitutto la possibilità di considerare l’art. 12, comma 6, della legge n. 40 del 2004 come una norma di ordine pubblico, negando che la disciplina della procreazione medicalmente assistita costituisca espressione di principi fondamentali e costituzionalmente obbligati, non modificabili ad opera del legislatore ordinario, e ravvisandovi piuttosto «il punto di equilibrio attualmente raggiunto a livello legislativo nella tutela dei differenti interessi fondamentali che vengono in considerazione nella materia»; ha conseguentemente ritenuto che la predetta disciplina non possa prevalere sull’interesse superiore dei minori, identificato in quello alla conservazione dello status filiationis legittimamente acquisito allo estero, che risulterebbe pregiudicato dall’impossibilità di far valere i relativi diritti nei confronti del genitore intenzionale, nonché dalla mancata assunzione dei corrispondenti obblighi da parte di quest’ultimo.
Nella parte in cui esclude che il divieto della surrogazione di maternità costituisca un principio di ordine pubblico, il ragionamento seguito dalla Corte territoriale si pone per le SSUU in evidente contrasto con l’orientamento precedentemente riportato della giurisprudenza di legittimità, che assegna a tale disposizione una funzione essenziale di tutela di interessi costituzionalmente rilevanti, trascurando altresì le indicazioni emergenti dalla giurisprudenza costituzionale, che vi ravvisa il risultato di un bilanciamento d’interessi attuato dallo stesso legislatore.
Com’è noto infatti, chiosa ancora il Collegio la Corte costituzionale ha da tempo riconosciuto nella legge n. 40 del 2004 una legge «costituzionalmente necessaria», osservando che essa rappresenta la prima legislazione organica relativa ad un delicato settore che indubbiamente coinvolge una pluralità di rilevanti interessi costituzionali, i quali, nel loro complesso, postulano quanto meno un bilanciamento tra di essi che assicuri un livello minimo di tutela legislativa (cfr. Corte cost., sent. n. 45 del 2005; v. anche sent. n. 151 del 2009); pur escludendo che detta legge abbia un contenuto costituzionalmente vincolato, ha affermato che le questioni da essa affrontate toccano temi eticamente sensibili, in relazione ai quali l’individuazione di un ragionevole punto di equilibrio delle contrapposte esigenze, nel rispetto della dignità della persona umana, appartiene primariamente alla valutazione del legislatore (cfr. Corte cost., sent. n. 347 del 1998).
Premesso che «la determinazione di avere o meno un figlio, concernendo la sfera più intima ed intangibile della persona umana, non può che essere incoercibile, qualora non vulneri altri valori costituzionali», e precisato che «il progetto di formazione di una famiglia caratterizzata dalla presenza di figli, anche indipendentemente dal dato genetico, è favorevolmente considerato dall’ordinamento giuridico, come dimostra la regolamentazione dell’istituto dell’adozione», la Corte da un lato ha riconosciuto che «il dato della provenienza genetica non costituisce un requisito imprescindibile della famiglia», dall’altro ha tenuto però a chiarire che «la libertà e la volontarietà dell’atto che consente di diventare genitori e di formare una famiglia, nel senso sopra precisato, di sicuro non implica che la libertà in esame possa esplicarsi senza limiti» (cfr. Corte cost., sent. n. 162 del 2014).
Tra questi limiti va indubbiamente annoverato il divieto della surrogazione di maternità, al quale dev’essere riconosciuta una rilevanza del tutto particolare, tenuto conto della speciale considerazione di cui la predetta pratica costituisce oggetto nell’ambito della legge n. 40: quest’ultima, infatti, nel consentire il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, ivi comprese (a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 162 del 2014) quelle di tipo eterologo, nei casi di sterilità o infertilità assolute ed irreversibili, nonché (per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 96 del 2015) nel caso di coppie fertili portatrici di malattie genetiche trasmissibili rispondenti ai criteri di gravità di cui all’art. 6, comma primo, lett. b), della legge 22 maggio 1978, n. 194, distingue nettamente tra le predette tecniche e la surrogazione di maternità, subordinando l’utilizzazione delle prime al concorso di determinate condizioni e vietando in ogni caso il ricorso alla seconda, nonché prevedendo sanzioni di diversa gravità (rispettivamente amministrative e penali) per la violazione delle relative disposizioni.
Tale diversità di regime giuridico è stata evidenziata anche dal Giudice delle leggi, che nel dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, comma 3, della legge in esame, nella parte in cui vietava il ricorso alla procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo anche nel caso in cui fosse stata diagnosticata una patologia tale da causare sterilità o infertilità assolute ed irreversibili, ha tenuto a precisare che tale pronuncia non investiva in alcun modo il divieto posto dall’art. 12, comma 6 (cfr. sent. n. 162 del 2014).
Il senso di detto limite è stato chiarito dalla stessa Corte costituzionale, la quale, nel dichiarare infondata, in riferimento agli artt. 2, 3, 30, 31 e 117, primo comma, Cost. ed all’art. 8 della CEDU, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 263 cod. civ., nella parte in cui non prevede che l’impugnazione del riconoscimento del figlio minore per difetto di veridicità possa essere accolta solo quando sia rispondente all’interesse dello stesso, ha posto nuovamente in risalto il ruolo svolto dal divieto di cui all’art. 12, comma 6, della legge n. 40 del 2004 ai fini della regolamentazione degl’interessi coinvolti nelle tecniche di procreazione medicalmente assistita.
Premesso che, nonostante l’accentuato favor dimostrato dall’ordinamento per la conformità dello status di figlio alla realtà della procreazione, l’accertamento della verità biologica e genetica dell’individuo non costituisce un valore di rilevanza costituzionale assoluta, tale da sottrarsi a qualsiasi bilanciamento con gli altri interessi coinvolti, in particolare con l’interesse del minore alla conservazione dello status filiationis, e dato atto che in caso di ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita il legislatore ha attribuito la prevalenza proprio a quest’ultimo interesse, dichiarando inammissibile il disconoscimento di paternità, la Corte ha rilevato che, a fianco dei casi in cui il bilanciamento è demandato al giudice, «vi sono casi nei quali la valutazione comparativa tra gli interessi è fatta direttamente dalla legge, come accade con il divieto di disconoscimento a seguito di fecondazione eterologa», mentre «in altri il legislatore impone, allo opposto, l’imprescindibile presa d’atto della verità con divieti come quello della maternità surrogata», confermando inoltre che in quest’ultimo caso l’interesse alla verità riveste natura anche pubblica, in quanto correlato ad una pratica che offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane, e per tale motivo è vietata dalla legge (cfr. Corte cost, sent. n. 272 del 2017).
Non può pertanto condividersi il ragionamento seguito dalla Corte di merito, nella parte in cui, pur riconoscendo nella disposizione di cui all’art. 12, sesto 6, della legge n. 40 del 2004 il punto di equilibrio attualmente raggiunto a livello legislativo nella tutela dei differenti interessi fondamentali che vengono in considerazione nella materia, ha preteso di sostituire la propria valutazione a quella compiuta in via generale dal legislatore, attribuendo la prevalenza all’interesse dei minori alla conservazione dello status filiationis, nonostante la pacifica insussistenza di un rapporto biologico con il genitore intenzionale.
Non risulta pertinente in proposito, proseguono le SSUU, il richiamo all’affermazione, contenuta nella citata sentenza n. 19599 del 2016, secondo cui le conseguenze della violazione delle prescrizioni e dei divieti posti dalla legge n. 40 del 2004, imputabili agli adulti che hanno fatto ricorso ad una pratica fecondativa illegale in Italia, non possono ricadere su chi è nato, il quale ha il diritto fondamentale, che dev’essere tutelato, alla conservazione dello status filiationis legittimamente acquisito all’estero: tale interesse, come si è visto, è destinato ad affievolirsi in caso di ricorso alla surrogazione di maternità, il cui divieto, nell’ottica fatta propria dal Giudice delle leggi, viene a configurarsi come l’anello necessario di congiunzione tra la disciplina della procreazione medicalmente assistita e quella generale della filiazione, segnando il limite oltre il quale cessa di agire il principio di autoresponsabilità fondato sul consenso prestato alla predetta pratica, e torna ad operare il favor veritatis, che giustifica la prevalenza dell’identità genetica e biologica.
Tale prevalenza, d’altronde, non si traduce necessariamente nella cancellazione dell’interesse del minore, la cui tutela, come precisato dalla Corte costituzionale, impone di prescindere dalla rigida alternativa vero o falso, tenendo conto di variabili più complesse, tra le quali assume particolare rilievo, nella specie, la presenza di strumenti legali idonei a consentire la costituzione di un legame giuridico con il genitore intenzionale, che, pur diverso da quello previsto dall’art. 8 della legge n. 40 del 2004, garantisca al minore una adeguata tutela (cfr. Corte cost., sent. n. 272 del 2017); in proposito, va richiamato soprattutto l’orientamento della Corte di Cassazione in tema di adozione in casi particolari, che, proprio facendo leva sull’interesse del minore a vedere riconosciuti i legami sviluppatisi con altri soggetti che se ne prendono cura, individua nell’art. 44, comma primo, lett. d), della legge n. 184 del 1983 una clausola di chiusura del sistema, volta a consentire il ricorso a tale strumento tutte le volte in cui è necessario salvaguardare la continuità della relazione affettiva ed educativa, all’unica condizione della «constatata impossibilità di affidamento preadottivo», da intendersi non già come impossibilità di fatto, derivante da una situazione di abbandono del minore, bensì come impossibilità di diritto di procedere all’affidamento preadottivo (cfr. Cass., Sez. I, 22/06/2016, n. 12962).
Tali conclusioni non si pongono affatto in contrasto con i principi sanciti dalle convenzioni internazionali in materia di protezione dei diritti dell’infanzia, cui lo Stato italiano ha prestato adesione, ratificandole e rendendole esecutive nell’ordinamento interno, né con le indicazioni emergenti dalla giurisprudenza formatasi al riguardo, e richiamata nell’ordinanza impugnata.
E’ pur vero infatti, chiosa ancora la Corte, che le predette fonti assicurano la più ampia tutela al minore, riconoscendo allo stesso il diritto alla protezione ed alle cure necessarie per il relativo benessere, impegnando gli Stati a preservarne l’identità ed a rispettarne le relazioni familiari, ed individuando, quale criterio preminente da adottare in tutte le decisioni che lo riguardino, il relativo interesse superiore, nonché promuovendo la concessione delle garanzie procedurali necessarie ad agevolare l’esercizio dei propri diritti (cfr. in particolare gli artt. 3, 8 e 9 della Convenzione di New York cit.; gli artt. 1 e 6 della Convenzione Europea sull’esercizio dei diritti dei fanciulli, fatta a Strasburgo il 25 gennaio 1996 e ratificata con legge 20 marzo 2003, n. 77; gli artt. 8, 9, 10, 22, 23, 28 e 33 della Convenzione sulla competenza, la legge applicabile, il riconoscimento, l’esecuzione e la cooperazione in materia di responsabilità genitoriale e di misure di protezione dei minori, fatta all’Aja il 19 ottobre 1996 e ratificata con legge 18 giugno 2015, n. 101; l’art. 24 della Carta di Nizza).
Ciò non significa tuttavia che la tutela del predetto interesse non possa costituire oggetto di contemperamento con quella di altri valori considerati essenziali ed irrinunciabili dall’ordinamento, la cui considerazione può ben incidere sull’individuazione delle modalità più opportune da adottare per la relativa realizzazione, soprattutto in materie sensibili come quella in esame, che interrogano profondamente la coscienza individuale e collettiva, ponendo questioni delicate e complesse, suscettibili di soluzioni differenziate.
D’altronde, proprio in tema di riconoscimento giuridico del rapporto di filiazione tra il minore nato all’estero mediante il ricorso alla maternità surrogata ed il genitore intenzionale, la Corte EDU ha da tempo affermato che gli Stati godono di un ampio margine di apprezzamento sia ai fini della decisione di autorizzare o meno la predetta pratica che con riguardo alla determinazione degli effetti da ricollegarvi sul piano giuridico, dando atto che è in gioco un aspetto essenziale dell’identità degli individui, ma rilevando che in ordine a tali questioni non vi è consenso a livello internazionale, e ritenendo comunque legittime le finalità di tutela del minore e della gestante, perseguite attraverso l’imposizione del divieto in questione. Pur osservando che il mancato riconoscimento del rapporto di filiazione è destinato inevitabilmente ad incidere sulla vita familiare del minore, essa ha escluso la configurabilità di una violazione del diritto al rispetto della stessa, ove sia assicurata in concreto la possibilità di condurre un’esistenza paragonabile a quella delle altre famiglie, ravvisando soltanto una violazione del diritto al rispetto della vita privata, in relazione alla lesione dell’identità personale eventualmente derivante dalla coincidenza di uno dei genitori d’intenzione con il genitore biologico del minore (cfr. Corte EDU, sent. 26/06/2014, Mennesson e Labassee c. Francia).
Le predette violazioni non sono pertanto configurabili nel caso in cui, come nella specie, non sia in discussione il rapporto di filiazione con il genitore biologico, ma solo quello con il genitore d’intenzione, il cui mancato riconoscimento non preclude al minore l’inserimento nel nucleo familiare della coppia genitoriale né l’accesso al trattamento giuridico ricollegabile allo status filiationis, pacificamente riconosciuto nei confronti dell’altro genitore.
Nel caso esaminato dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 24001 del 2014, e riproposto dinanzi ad essa, la Corte EDU ha d’altronde escluso entrambe le violazioni, negando per un verso la configurabilità di una vita familiare, in considerazione dell’assenza di qualsiasi legame genetico o biologico tra il minore ed entrambi i genitori e della breve durata della relazione con gli stessi, e ritenendo per altro verso legittima l’ingerenza nella vita privata, concretizzatasi nell’interruzione dei rapporti con i genitori e nella dichiarazione dello stato di adottabilità, alla luce dell’illegalità della condotta tenuta dai genitori, che avevano condotto il minore in Italia senza rispettare la disciplina dell’adozione, e della conseguente precarietà della relazione in tal modo instauratasi (cfr. Corte EDU, sent. 24/01/2017, Paradiso e Campanelli c. Italia).
Anche nella giurisprudenza della Corte EDU, la sussistenza di un legame genetico o biologico con il minore rappresenta dunque il limite oltre il quale è rimessa alla discrezionalità del legislatore statale l’individuazione degli strumenti più adeguati per conferire rilievo giuridico al rapporto genitoriale, compatibilmente con gli altri interessi coinvolti nella vicenda, e fermo restando l’obbligo di assicurare una tutela comparabile a quella ordinariamente ricollegabile allo status filiationis: esigenza, questa, che nell’ordinamento interno può ritenersi soddisfatta anche dal già menzionato istituto dell’adozione in casi particolari, per effetto delle disposizioni della legge n. 184 del 1983, che parificano la posizione del figlio adottivo allo stato di figlio nato dal matrimonio.
Conclusivamente sul punto, per le SSUU il riconoscimento dell’efficacia del provvedimento giurisdizionale straniero con cui sia stato accertato il rapporto di filiazione tra un minore nato all’estero mediante il ricorso alla maternità surrogata ed il genitore d’intenzione munito della cittadinanza italiana trova ostacolo nel divieto della surrogazione di maternità previsto dall’art. 12, comma 6, della legge n. 40 del 2004, qualificabile come principio di ordine pubblico, in quanto posto a tutela di valori fondamentali, quali la dignità umana della gestante e l’istituto dell’adozione; la tutela di tali valori, non irragionevolmente ritenuti prevalenti sull’interesse del minore, nell’ambito di un bilanciamento effettuato direttamente dal legislatore, al quale il giudice non può sostituire la propria valutazione, non esclude peraltro la possibilità di conferire rilievo al rapporto genitoriale, mediante il ricorso ad altri strumenti giuridici, quali l’adozione in casi particolari, prevista dall’art. 44, comma primo, lett. d), della legge n. 184 del 1983.
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Il 15 maggio esce la significativa sentenza della I Sezione della Cassazione n.13000 che si occupa di fecondazione omologa post mortem e di rettifica degli atti di stato civile. La Corte, dopo aver risolto talune questioni pregiudiziali, ritiene opportuno anteporre allo scrutinio dei motivi di merito del ricorso ad esse sottoposto alcune brevi considerazioni circa la natura e l’ambito oggettivo del procedimento disciplinato dal D.P.R. n. 396 del 2000 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma della L. 15 maggio 1997, n. 127, art. 2, comma 12), agli artt. 95 e 96, rammentando come il menzionato D.P.R. abbia integralmente sostituito il precedente R.D. 9 luglio 1939, n. 1238, recante l’ordinamento dello stato civile, i cui artt. da 165 a 178 già disciplinavano, in modo analogo, il procedimento di rettificazione degli atti dello stato civile.
L’art. 95 predetto dispone che “Chi intende promuovere la rettificazione di un atto dello stato civile o la ricostituzione di un atto distrutto o smarrito o la formazione di un atto omesso o la cancellazione di un atto indebitamente registrato, o intende opporsi a un rifiuto dell’ufficiale dello stato civile di ricevere in tutto o in parte una dichiarazione o di eseguire una trascrizione, una annotazione o altro adempimento, deve proporre ricorso al tribunale nel cui circondario si trova l’ufficio dello stato civile presso il quale è registrato l’atto di cui si tratta o presso il quale si chiede che sia eseguito l’adempimento. Il procuratore della Repubblica può in ogni tempo promuovere il procedimento di cui al comma 1. L’interessato può comunque richiedere il riconoscimento del diritto al mantenimento del cognome originariamente attribuitogli se questo costituisce ormai autonomo segno distintivo della sua identità personale“; il successivo art. 96, invece, sancisce che “il tribunale può, senza particolari formalità, assumere informazioni, acquisire documenti e disporre l’audizione dell’ufficiale dello stato civile. Il tribunale, prima di provvedere, deve sentire il procuratore della Repubblica e gli interessati e richiedere, se del caso, il parere del giudice tutelare. Sulla domanda il tribunale provvede in camera di consiglio con decreto motivato. Si applicano, in quanto compatibili, gli artt. 737 c.p.c. e segg. nonchè, per quanto riguarda i soggetti cui non può essere opposto il decreto di rettificazione, l’art. 455 c.c.”.
La Corte, sebbene con riferimento al precedente (ma affatto simile) procedimento di rettificazione di cui all’abrogato R.D. n. 1238 del 1939, ebbe ripetutamente a ritenere (cfr. Cass. n. 4922 del 1978; Cass. n. 7530 del 1986) che l’oggetto del procedimento di rettificazione suddetto non è limitato alla correzione degli errori materiali. Lo si deduce dall’art. 165, secondo cui il Pubblico Ministero può, in ogni tempo, promuovere d’ufficio le rettificazioni richieste dall’interesse pubblico e quelle che riguardano errori materiali di scrittura, distinguendosi così dalla correzione di meri errori materiali le altre rettificazioni che il Pubblico Ministero promuove, se involgono un interesse pubblico, e che, ai sensi dell’art. 167, sono promosse dalla parte interessata, quando tale interesse non sia in gioco. Se ne ha, inoltre, conferma dall’art. 454 c.c. (anch’esso abrogato dal D.P.R. n. 396 del 2000), che applica il procedimento di rettificazione a casi che restano manifestamente fuori dell’ambito della mera correzione degli errori materiali, quali quelli consistenti nella formazione di atti che siano stati omessi o smarriti o distrutti. (cfr. Cass. n. 7530 del 1986).
Nella ricerca dei limiti dell’azione di rettificazione – prosegue la Corte – si precisò che essa “non investe, in sè, il fatto contemplato nell’atto dello stato civile, ma la corrispondenza fra la realtà del fatto e la sua riproduzione nell’atto suddetto, cioè tra il fatto, quale è nella realtà (o quale dovrebbe essere nell’esatta applicazione della legge) e quale risulta dall’atto dello stato civile. Il non verificarsi di tale corrispondenza può dipendere da un errore materiale o da un qualsiasi vizio che alteri il procedimento di formazione dell’atto, sia esso dovuto al dolo dell’Ufficiale che lo redige o ad un suo errore, anche se scusabile in quanto imputabile ad uno dei soggetti chiamati dalla legge a fornire gli elementi per la compilazione dell’atto. Non interessa, cioè, ai fini dell’ammissibilità del procedimento di rettificazione, la causa che ha determinato la difformità tra la realtà del fatto e la riproduzione che ne è contenuta nell’atto, non essendo dubitabile che i registri dello stato civile, quali fonte delle certificazioni anagrafiche, devono contenere atti esattamente corrispondenti alla situazione quale è o dovrebbe essere nella realtà secondo la previsione della legge…” (cfr. Cass. n. 7530 del 1986, in motivazione).
Si chiarì infine, prosegue ancora significativamente il Collegio, che il descritto procedimento non potesse ammettersi allorquando a fondamento della domanda di rettificazione fosse stata, in realtà, dedotta una controversia di “stato” (cfr. Cass. n. 2776 del 1996).
I medesimi principi sono poi stati ribaditi da Cass. n. 21094 del 2009, con specifico riferimento al procedimento di cui al D.P.R. n. 396 del 2000, artt. 95 e ss., ed il Collegio dichiara di condividerli integralmente, sicchè lo scrutinio degli odierni motivi di ricorso dovrà svolgersi – chiosa ancora – alla loro stregua, sebbene con questa ulteriore precisazione.
Una volta sancito che il procedimento in esame è volto ad eliminare una difformità tra la situazione di fatto, quale è o dovrebbe essere nella realtà secondo la previsione di legge, e come, invece, risulta dall’atto dello stato civile, per un vizio comunque e da chiunque originato nel procedimento di formazione dell’atto stesso, in quanto la funzione degli atti dello stato civile è proprio quella di attestare la veridicità dei fatti menzionati nei relativi registri, ciò che effettivamente rileva non è – o, almeno, non lo è in via primaria – quale sia la tipologia di sindacato spettante all’ufficiale dello stato civile, certamente non equiparabile a quello dell’autorità giudiziaria in un’azione di stato, ma quale sia l’ambito della cognizione del giudice che, in un panorama complesso quale quello attuale della genitorialità, sempre più percorso dalla scomposizione del processo generativo per effetto delle tecniche di procreazione medicalmente assistita, si trovi ad affrontare il ricorso contro il diniego di rettificazione opposto dall’ufficiale predetto.
Ad un siffatto interrogativo, il Collegio ritiene di dover rispondere che il giudice investito della dedotta illegittimità del rifiuto di rettifica di un atto di nascita – il cui procedimento si configura non come giudizio di costituzione diretta di uno status filiationis bensì di verifica della corrispondenza alla verità di una richiesta attestazione – dispone di una cognizione piena sull’accertamento della corrispondenza di quanto richiesto dal genitore in relazione alla completezza dell’atto di nascita del figlio con la realtà generativa e di discendenza genetica e biologica di quest’ultimo, potendo, così, a questo limitato fine, avvalersi di tutte le risorse istruttorie fornitegli dalla parte. Una simile conclusione, del resto, è pienamente coerente con la previsione del D.P.R. n. 396 del 2000, art. 96, che, come si è già visto, consente al tribunale, seppure senza particolari formalità, di “…assumere informazioni, acquisire documenti e disporre l’audizione dell’ufficiale dello stato civile…”, altresì obbligandolo, prima di provvedere, a “sentire il Procuratore della Repubblica e gli interessati…” ed a “richiedere, se del caso, il parere del giudice tutelare…”.
In altri termini il giudice del merito, prosegue la Corte proprio perché investito esclusivamente della corrispondenza alla verità del complesso di elementi fattuali documentati dalla parte richiedente, non ha limitazioni per decidere: ove valorizzerà questi ultimi e la coerenza del percorso ivi descritto, riconoscerà il diritto di completare l’atto di nascita e la fondatezza dell’azione di rettifica; diversamente, se riterrà che si debbano adattare parametri di accertamento della genitorialità fondati su presunzioni in relazione ad un processo generativo che non prevede la possibilità di sequenziarne il percorso, allora riterrà corretto il rifiuto dell’ufficiale dello stato civile che su questo paradigma probatorio ha fondato la relativa decisione.
Venendo, dunque, ai motivi di ricorso, il primo di essi, che ascrive alla corte distrettuale di avere erroneamente ritenuto che l’ufficiale di stato civile avesse un potere discrezionale e/o valutativo quanto alla veridicità della dichiarazione della R. afferente la paternità della suddetta minore, non merita per la Corte accoglimento. Osserva, infatti, il Collegio, quanto alle dichiarazioni che si fanno dinanzi all’ufficiale dello stato civile, che alcune di queste hanno la funzione esclusiva di dare pubblica notizia di eventi, come la nascita e la morte, che hanno rilevanza per l’ordinamento dello stato civile per il solo fatto di essersi verificati. Da tali eventi, come documentati nei registri dello stato civile, possono derivare, per effetto di normative particolari, estranee alla disciplina che regola le iscrizioni di dette dichiarazioni, diritti e doveri (diritto alla vita, ad essere educato e mantenuto, o, diversamente, diritto alla successione nel defunto, etc.).
In queste ipotesi, grava sul menzionato ufficiale l’obbligo di ricevere quanto riferito dal dichiarante e formarne nei relativi registri processo verbale per atto pubblico, senza che a lui competa di stabilire se gli eventi riportati possano essere compatibili con l’ordinamento italiano e se per questo essi abbiano rilevanza e siano produttivi di diritti e doveri. Spetterà al giudice pronunciarsi su tali questioni ove su di esse sorga controversia.
Diversamente, altre dichiarazioni, pure rese dinanzi al medesimo ufficiale, sono, di per se stesse, produttive di effetti giuridici riguardo allo status della persona cui si riferiscono: si pensi, ad esempio, alle dichiarazioni di riconoscimento di filiazione nata fuori del matrimonio (già filiazione naturale) o a quelle che si esprimono in relazione alla cittadinanza italiana. In questi casi, proprio per la immediatezza della produzione di effetti derivanti dalla dichiarazione compiuta, l’ufficiale dovrà rifiutare di riceverla ove la ritenga in contrasto con l’ordinamento e con l’ordine pubblico (cfr. D.P.R. n. 396 del 2000, art. 7).
Tanto premesso, deve allora considerarsi per la Corte che, allorquando la R., il 22 febbraio 2017, dichiarò la nascita della figlia L. (avvenuta a Fermo il precedente 14 febbraio) presso l’ufficio di stato civile del Comune di X, contestualmente domandando che, nella redazione del corrispondente atto, ne fosse indicata la paternità del defunto G.A., attribuendone alla stessa il cognome, essa rese, sostanzialmente, due diverse – benchè contemporanee – dichiarazioni: una riguardante l’evento nascita, D.P.R. n. 396 del 2000, ex art. 30; l’altra afferente l’indicazione (anche) della paternità della neonata, da lei attribuita – giusta la documentazione attestante la tecnica di P.M.A., cui si era sottoposta in Spagna, e per effetto della quale era derivata la predetta nascita – al relativo coniuge, G.A., deceduto fin dalla data X ma che, prima della morte, aveva acconsentito all’accesso alla P.M.A. da parte della moglie, altresì autorizzandola ad utilizzare, post mortem, il proprio seme crioconservato.
E’ chiaro, quindi, che, alla stregua di quanto si è precedentemente opinato, solo relativamente alla prima di tali dichiarazioni l’ufficiale di stato civile, nel redigere il corrispondente atto ex art. 29 del D.P.R. predetto, nulla avrebbe potuto obbiettare alla dichiarante, non spettando a lui di stabilire se l’evento riferitogli potesse essere compatibile con l’ordinamento italiano e se per questo avesse rilevanza e fosse produttivo di diritti e doveri.
Circa la seconda, invece, ingenerando essa stessa effetti giuridici riguardo allo status della persona cui era riferita, l’ufficiale poteva/doveva rifiutare di riceverla ove – come poi effettivamente avvenuto – l’avesse ritenuta in contrasto con l’ordinamento e con l’ordine pubblico (cfr. D.P.R. n. 396 del 2000, art. 7).
Non sussiste pertanto, chiosa la Corte, la denunciata violazione del D.P.R. n. 396 del 2000, artt. 29 e 30, come prospettata dalla ricorrente, dovendosi, piuttosto valutare, attraverso l’esame degli ulteriori motivi di impugnazione formulati, se il rifiuto oppostole dall’ufficiale di anagrafe abbia determinato, o meno, una discrasia fra la realtà dalla prima complessivamente dichiarata e la relativa riproduzione nell’atto di nascita come redatto da quell’ufficiale: vale a dire tra il fatto, quale era stato nella realtà (o quale avrebbe dovuto essere nell’esatta applicazione della legge) e come, invece, risultava dall’atto dello stato civile.
Muovendo, allora, da questa prospettiva di indagine, il secondo, il terzo ed il quarto motivo di ricorso sono per la Corte suscettibili di esame congiunto, perché chiaramente connessi, rivelandosi, peraltro, fondati per le ragioni di seguito esposte.
Giova premettere, in punto di fatto, che la R. ha così ricostruito l’iter del complessivo percorso che aveva portato alla nascita della figlia L.: i) i coniugi G. – R., a causa di alcune difficoltà riscontrate nel concepimento di un figlio, avevano deciso di ricorrere alle tecniche di P.M.A. prestando il loro consenso il 31 marzo 2015; ii) il G., proprio nel corso della terapia, aveva appreso di essere gravemente malato e, dovendo procedere all’assunzione di farmaci che avrebbero compromesso la relativa capacità di generare, aveva reiterato il proprio consenso, con dichiarazione sottoscritta in data 8 settembre 2015, e, consapevole della relativa fine imminente, aveva anche autorizzato la moglie all’utilizzo, post mortem, del proprio seme crioconservato al fine di ottenere una gravidanza con l’ausilio delle tecniche di fecondazione assistita omologa; iii) per realizzare il comune desiderio di procreazione, l’odierna ricorrente, dopo la morte del marito, si era sottoposta al trattamento di fecondazione assistita (FIV) in (OMISSIS), presso il (OMISSIS), dando, poi, alla luce, in Italia (presso l’azienda ospedaliera (OMISSIS)), il (OMISSIS), la piccola L..
Si è trattato dunque, chiosa ancora il Collegio, di una nascita derivata da una tecnica di P.M.A. (fecondazione omologa) eseguita post mortem, benché acconsentita da entrambi i coniugi anteriormente al decesso del G., il quale, poco prima di morire, nel ribadire il proprio consenso, aveva altresì autorizzato, al suddetto fine, l’utilizzo del proprio seme crioconservato. Dopo la nascita della figlia, la R., il 22 febbraio 2017, aveva reso la corrispondente dichiarazione all’ufficiale di stato civile del Comune di (OMISSIS) (quello di residenza), allegando documentazione a corredo dei fatti di cui si è appena detto: ciò nonostante, quell’ufficiale aveva rifiutato di trascrivere nell’atto di nascita la paternità del defunto G.A. e, conseguentemente, attribuire alla piccola L. il cognome paterno, come dichiarato e richiesto dalla madre, ritenendo tale dichiarazione contraria all’ordinamento giuridico vigente.
Oggi quindi, prosegue la Corte, non si controverte sulla trascrivibilità, in Italia, di un atto di nascita redatto in uno dei Paesi che consentono tecniche di fecondazione artificiale come quella di cui si è concretamente avvalsa la R., bensì, esclusivamente, della possibilità, o meno, di rettificare, nei sensi invocati dalla odierna ricorrente, un atto di nascita già formato sul territorio nazionale.
E’, altresì, opportuno sottolineare che, in questa sede, nemmeno viene specificamente in rilievo il tema della liceità, o meno, secondo la legislazione italiana (cfr. L. n. 40 del 2004), della tecnica di P.M.A. predetta (fecondazione omologa post mortem), ma, giusta quanto si è già chiarito circa l’ambito operativo del procedimento D.P.R. n. 396 del 2000, ex artt. 95 e 96, esclusivamente, quello della corrispondenza fra la realtà del fatto come complessivamente dichiarato dalla R. all’ufficiale suddetto e la relativa riproduzione nell’atto di nascita come da quest’ultimo concretamente redatto: cioè tra il fatto, quale è nella realtà (o quale dovrebbe essere nell’esatta applicazione della legge) e come risulta dall’atto dello stato civile, senza che rilevino le ragioni di una eventuale insussistenza di una tale corrispondenza, posto che “i registri dello stato civile, quali fonte delle certificazioni anagrafiche, devono contenere atti esattamente corrispondenti alla situazione quale è o dovrebbe essere nella realtà secondo la previsione della legge…” (cfr. Cass. n. 7530 del 1986, in motivazione).
In altri termini, prosegue la Corte, le conclusioni – che pure potrebbero desumersi dalla complessiva disciplina di cui alla L. n. 40 del 2004 (come attualmente risultante dopo gli interventi su di essa della Corte costituzionale. Cfr. Corte Cost., sent. n. 151 del 2009; Corte Cost., sent. n. 162 del 2014; Corte Cost., sent. n. 96 del 2015; Corte Cost., sent. n. 229 del 2015) in ordine alla illegittimità, o meno, della pratica, in Italia, di una tecnica di fecondazione omologa post mortem come quella cui si era sottoposta, in Spagna (ove è consentita dalla corrispondente disciplina, entro l’anno dal decesso di chi abbia precedentemente autorizzato l’utilizzo del proprio seme crioconservato), la R. – devono necessariamente arrestarsi di fronte al fatto che, una volta verificatasi la nascita per effetto di una tale pratica, occorre stabilire, ai già riportati fini che qui specificamente interessano, se debbano trovare esclusiva applicazione i meccanismi presuntivi previsti dagli artt. 231 e 233 c.c. in relazione alla prova della paternità o se sia necessario anche tener conto della disciplina della L. n. 40 del 2004 circa il rilievo determinante del consenso al processo generativo mediante P.M.A.
Un siffatto accertamento, peraltro, deve ponderare plurimi fattori, quali: a) il rilievo attribuito dalla società odierna a bisogni che un tempo erano ignoti, non prevedibili ed ancora non (o parzialmente) regolamentati dal legislatore, nazionale o sovranazionale; b) il costante dialogo tra le Corti supreme degli Stati Europei ed extraeuropei, con i quali si condividano i principi assiologici dei diritti fondamentali della persona, nonché quello con la Corte EDU e la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, che ha determinato la costituzione di una circolarità di approdi interpretativi che prendono spunti da aspetti diversi dell’esperienza giuridica; c) il considerare le tecniche di P.M.A. come un metodo alternativo al concepimento naturale, oppure alla stregua di un trattamento sanitario volto a sopperire una problematica di natura medica che colpisce uno, o entrambi, i componenti della coppia.
Tutto questo comporta invero, prosegue il Collegio, che la procreazione nella società della globalizzazione presenta un particolare dinamismo, subordinato agli interessi concreti che è volta a soddisfare, che, addirittura, mediante l’applicazione delle tecniche di P.M.A. anche dopo la morte di uno dei due partners, finisce con il superare il confine terreno dell’unità coniugale, ma che, comunque, non può prescindere dall’importante ruolo della “responsabilità” genitoriale, che passa da esercizio di un diritto alla procreazione allo svolgimento di una “funzione” genitoriale.
In un tale scenario, nel quale la genitorialità spesso può anche scindersi dal nesso col matrimonio e dalla famiglia, declinandosi in una molteplicità di contesti prima ritenuti inediti, è necessario comprendere se i divieti di genitorialità pure evincibili dal nostro ordinamento possano fungere da “controlimite” alla tutela dei diritti di chi è nato, oppure se occorra superare i confini della tradizione ed accettare, regolandoli, i nuovi percorsi della genitorialità stessa.
Orbene, è noto che, ove la madre, che abbia fatto la dichiarazione di nascita, non sia più coniugata per essere stato annullato o sciolto il suo matrimonio (come accaduto nella specie, per effetto della morte del marito della odierna ricorrente avvenuta il (OMISSIS), data pacificamente anteriore addirittura all’avvenuta relativa sottoposizione al trattamento di P.M.A.) o per esserne stati dichiarati cessati gli effetti civili, la corrispondenza del fatto reale (paternità dell’ex coniuge della madre ovvero di altra persona) con quello riprodotto nell’atto dello stato civile dipende dall’operare, o meno, della presunzione stabilita dall’art. 232 c.c.. Secondo tale norma, si presume concepito durante il matrimonio il figlio nato quando non siano trascorsi trecento giorni dalla data dell’annullamento, dello scioglimento o della cessazione degli effetti civili del matrimonio (comma 1), ma la presunzione non opera decorsi trecento giorni dalla pronunzia di separazione giudiziale, o dalla omologazione di separazione consensuale, ovvero dalla comparizione dei coniugi avanti al giudice quando gli stessi siano stati autorizzati a vivere separatamente nelle more del giudizio di separazione, di annullamento o di divorzio (comma 2).
Pertanto, alla luce di tale disciplina, affinché vi sia corrispondenza fra la realtà del fatto come complessivamente dichiarato all’ufficiale di anagrafe e la relativa riproduzione nell’atto di nascita come da quest’ultimo concretamente redatto, occorre che operi la presunzione di legge, perché, se questa (indipendentemente dal verificarsi delle condizioni indicate nell’art. 232 c.c., comma 1) si rivela inapplicabile, in quanto ricorra una delle fattispecie di cui al comma 2 della citata norma, l’atto dello stato civile, che attribuisca al figlio il cognome dell’ex coniuge della madre, è difforme dalla situazione quale è secondo la previsione codicistica.
E’ altrettanto indiscutibile che, ai sensi del vigente art. 250 c.c., comma 1, il figlio nato fuori del matrimonio può essere riconosciuto nei modi previsti dall’art. 254 c.c., dalla madre e dal padre, anche se già uniti in matrimonio con altra persona all’epoca del concepimento, potendo detto riconoscimento avvenire tanto congiuntamente che disgiuntamente. L’art. 254 c.c., comma 1, a propria volta, specifica che il riconoscimento del figlio nato fuori del matrimonio è fatto nell’atto di nascita, oppure con un’apposita dichiarazione, posteriore alla nascita o al concepimento, davanti ad un ufficiale dello stato civile o in un atto pubblico o in un testamento, qualunque sia la forma di questo.
La corrispondenza tra il fatto riprodotto nell’atto dello stato civile (nascita del figlio fuori dal matrimonio e relativo riconoscimento da parte dei genitori o di uno solo di essi) e la situazione reale secondo le appena riportate disposizioni codicistiche, postula, allora che, innanzi all’ufficiale di stato civile, la corrispondente dichiarazione di riconoscimento sia fatta nei modi previsti dall’art. 254 c.c., altrimenti l’atto dello stato civile, che attribuisca al figlio il cognome di quello dei genitori che non abbia così proceduto, è difforme dalla situazione quale è secondo la previsione del codice civile, essendo, anche in questo caso, affetto da un vizio che ne ha alterato il procedimento di formazione.
Quanto, invece, alla disciplina, in materia di filiazione, di cui alla L. n. 40 del 2004, va, innanzitutto, rimarcato per la Corte il relativo art. 8, il quale (nel testo, qui applicabile ratione temporis, risultante dalle modifiche apportategli dal D.Lgs. n. 154 del 2013), sotto la rubrica “stato giuridico del nato“, sancisce che “I nati a seguito dell’applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita hanno lo stato di figli nati nel matrimonio o di figli riconosciuti della coppia che ha espresso la volontà di ricorrere alle tecniche medesime ai sensi dell’art. 6“.
Merita però per la Corte di essere ricordato, ai fini che in questa sede specificamente interessano, anche l’art. 9 (Divieto del disconoscimento della paternità e dell’anonimato della madre), a tenore del quale, dopo gli interventi sullo stesso della Corte costituzionale con la sentenza n. 162 del 2014 (che ne ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dei commi 1 e 3, limitatamente alle parole “in violazione del divieto di cui all’art. 4, comma 3“), “Qualora si ricorra a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo, il coniuge o il convivente il cui consenso è ricavabile da atti concludenti non può esercitare l’azione di disconoscimento della paternità nei casi previsti dall’art. 235 c.c., comma 1, nn. 1) e 2), nè l’impugnazione di cui all’art. 263 c.c.. La madre del nato a seguito dell’applicazione di tecniche di procreazione medicalmente assistita non può dichiarare la volontà di non essere nominata, ai sensi dell’art. 30, comma 1, del regolamento di cui al D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396. In caso di applicazione di tecniche di tipo eterologo, il donatore di gameti non acquisisce alcuna relazione giuridica parentale con il nato e non può far valere nei suoi confronti alcun diritto nè essere titolare di obblighi“.
Investono, invece, più specificamente le fasi dell’accesso alle tecniche di PMA ed alla loro applicazione, entrambe, però, anteriori alla nascita, sicché prive di effettivo rilievo nell’odierno giudizio (nel quale, è opportuno ribadirlo, non si controverte sulla illiceità, o meno, dell’accesso o della pratica, in Italia, in relazione ad una tecnica di fecondazione omologa post mortem come quella cui si era sottoposta, in Spagna, – ove è consentita dalla corrispondente disciplina nei limiti temporali predetti – la R., bensì, unicamente, della disciplina in tema di filiazione da applicarsi al nato sul territorio nazionale per effetto di una tale – illecita o lecita che sia – pratica), le disposizioni che la medesima legge contiene agli artt. 4 (quanto all’accesso alle tecniche di PMA), 5 (circa i requisiti soggettivi per accedere a tali tecniche), 6 (in tema di consenso informato), 12 (recante i divieti per gli specifici comportamenti ivi descritti e le sanzioni per l’inosservanza di alcune previsioni della legge).
E’ chiaro, infatti, che qualsivoglia considerazione riguardante la valutazione in termini di illiceità/illegittimità, in Italia, della tecnica di P.M.A. in precedenza specificamente richiamata, oltre che, eventualmente, delle condotte di coloro che ne consentono l’accesso o l’applicazione, non potrebbe certamente riflettersi, in negativo, sul nato e sull’intero complesso dei diritti a lui riconoscibili.
In altre parole, precisa significativamente la Corte, la circostanza che si sia fatto ricorso all’estero a P.M.A. non espressamente disciplinata (o addirittura non consentita) nel nostro ordinamento non esclude, ma anzi impone, nel preminente interesse dal nato, l’applicazione di tutte le disposizioni che riguardano lo stato del figlio venuto al mondo all’esito di tale percorso, come, peraltro, affermato, con chiarezza, della Corte EDU nelle due sentenze “gemelle” Mennesson c. Francia (26 giugno 2014, ric. n. 65192/11) e Labassee c. Francia (26 giugno 2014, ric. n. 65941/11), oltre che sancito anche dalla Corte Costituzionale fin dalla sentenza n. 347 del 1998, che (ancor prima del sopravvenire della L. n. 40 del 2004) sottolineò la necessità di distinguere tra la disciplina di accesso alle tecniche di P.M.A. e la doverosa, e preminente, tutela giuridica del nato, significativamente collegata alla dignità dello stesso.
Già in quella sede ci si preoccupò “…di tutelare anche la persona nata a seguito di fecondazione assistita, venendo inevitabilmente in gioco plurime esigenze costituzionali. Preminenti in proposito sono le garanzie per il nuovo nato (…), non solo in relazione ai diritti e ai doveri previsti per la sua formazione, in particolare dagli artt. 30 e 31 Cost., ma ancor prima – in base all’art. 2 Cost. – ai suoi diritti nei confronti di chi si sia liberamente impegnato ad accoglierlo assumendone le relative responsabilità: diritti che è compito del legislatore specificare…” (cfr. C. Cost. n. 347 del 1998).
Sostanzialmente nel medesimo senso, del resto, si è già esplicitamente pronunciata anche il Collegio nella fondamentale sentenza n. 19599 del 30 settembre 2016 (benché resa in vicenda affatto diversa da quella oggi in esame), secondo cui “le conseguenze della violazione delle prescrizioni e dei divieti posti dalla L. n. 40 del 2004 imputabile agli adulti che hanno fatto ricorso ad una pratica fecondativa illegale in Italia non possono ricadere su chi è nato“, di ciò essendosi mostrato consapevole lo stesso legislatore, il quale, all’art. 9, comma 1, ha previsto che, in caso di ricorso a tecniche (allora vietate) di procreazione medicalmente assistita addirittura di tipo eterologo (nel caso di specie, invece, si è in presenza, pacificamente, di una fecondazione omologa, sebbene post mortem), il coniuge o convivente consenziente non possa esercitare l’azione di disconoscimento della paternità, né impugnare il riconoscimento per difetto di veridicità (cfr., sostanzialmente nel medesimo senso, anche la successiva Cass. n. 14878 del 2017).
Tornando, dunque, al problema interpretativo dei rapporti, ai delimitati fini che in questa sede specificamente interessano, tra la normativa del codice civile e quella contenuta nella L. n. 40 del 2004 (in particolare ai relativi artt. 8 e 9), occorre praticamente verificare se la disciplina della filiazione nella procreazione medicalmente assistita configuri un sistema alternativo rispetto a quello codicistico, in ragione della peculiarità propria della tecnica de qua, o si inserisca in quest’ultimo che regola la filiazione da procreazione naturale attraverso la previsione di specifiche eccezioni.
Dalla soluzione di tale questione, infatti, deriva per la Corte l’applicabilità, o meno, alla filiazione da P.M.A. dei principi e criteri attributivi dello status del nato da procreazione naturale, e, poiché lo status risulta in ultima analisi dall’atto di nascita, dalla soluzione della medesima questione discendono anche le regole da seguire nella formazione di tale documento, al fine di verificare se, nel caso in esame, sussista, o meno, corrispondenza fra la realtà del fatto come complessivamente dichiarato dalla R. all’ufficiale di stato civile del Comune di (OMISSIS) e la relativa riproduzione nell’atto di nascita come da quest’ultimo concretamente redatto.
Nella giurisprudenza di legittimità finora intervenuta, rammenta ancora la Corte, non si rinvengono precedenti riconducibili, specificamente, proprio alla fattispecie, oggi in esame, di fecondazione omologa effettuata (peraltro in un Paese dove ciò è consentito in un ambito temporale risultato rispettato) quando il marito (ma altrettanto dovrebbe dirsi ove si trattasse solo di convivente), che abbia già prestato, congiuntamente alla moglie (o alla convivente) e prima del proprio decesso, il consenso alle tecniche di P.M.A., lo abbia reiterato in modo sostanzialmente coerente con quanto richiesto dalla L. n. 40 del 2004, art. 6.
E’, altresì, di tutta evidenza che, di fronte alle pratiche di P.M.A., risulta assai problematico comporre, in modo equilibrato e coerente, le esigenze contrapposte della certezza e stabilità dello stato di filiazione e della relativa corrispondenza con la verità, sicché non stupisce la varietà delle possibili soluzioni ipotizzate, in proposito, dalla dottrina e dalla giurisprudenza di merito.
Tanto è la logica conseguenza del fatto che, ormai, figlio è non solo chi nasce da un atto naturale di concepimento ma anche colui che venga al mondo a seguito di fecondazione assistita (omologa o eterologa, quest’ultima nella misura in cui è oggi consentita dalla L. n. 40 del 2004 a seguito dei già descritti ripetuti interventi della Corte costituzionale), o colui che sia tale per effetto di adozione: ciò dimostra che i confini una volta ritenuti invalicabili del principio tradizionale della legittimità della filiazione sono ormai ampiamente in discussione. In base agli artt. 2 e 30 Cost., del resto, il nato ha diritto, oltre che di crescere nella propria famiglia, di avere certezza della propria provenienza biologica, rivelandosi questa come uno degli aspetti in cui si manifesta la relativa identità personale (cfr., anche nelle rispettive motivazioni, Cass. n. 6963 del 2018; Cass., SU, n. 1946 del 2017; Cass. n. 15024 del 2016).
Orbene, secondo una prima opinione, che muove dall’assunto che la disciplina di attribuzione dello status nella procreazione medicalmente assistita configuri un sistema del tutto alternativo rispetto a quello codicistico, lo status di figlio del nato da P.M.A. non deriverebbe dalle regole applicabili alla generazione biologica naturale, diverse a seconda che il figlio sia nato nel matrimonio o fuori di esso, poiché, invece, detto status verrebbe attribuito direttamente dalla legge e, inscindibilmente, nei confronti della coppia che abbia espresso la volontà di accedere alle tecniche di P.M.A., indipendentemente dal fatto che i genitori siano, o meno, sposati, sicché il consenso dato dal coniuge o convivente alla fecondazione artificiale (che non risulti revocato fino al momento della fecondazione dell’ovulo. Cfr. L. n. 40 del 2004, art. 6, comma 3) avrebbe un significato diverso ed ulteriore rispetto a quello ascrivibile alla nozione di “consenso informato” al trattamento medico e governerebbe lo status identificando la maternità e la paternità del nato nella forma più ampia e certa, senza bisogno di ulteriori manifestazioni di volontà.
Per chi ritiene, viceversa, che al nato da P.M.A. si applichino i medesimi principi in tema di filiazione naturale, il consenso dato dal coniuge o convivente alla fecondazione artificiale non inciderebbe direttamente sull’attribuzione dello status del figlio, ma avrebbe solo la funzione di consentire al figlio di identificare il proprio genitore grazie all’assenso da lui prestato alla P.M.A..
Un siffatto dilemma interpretativo produce i relativi effetti anche sullo status del figlio nel caso di fecondazione medicalmente assistita post mortem, dovendosi, peraltro, rimarcare che rientrano, in questo particolare contesto, ipotesi affatto diverse tra loro, quali: il prelievo del seme dal cadavere dell’uomo; l’inseminazione artificiale della donna con seme crioconservato, prelevato dal partner prima del decesso (concretamente avvenuta nella fattispecie in esame); infine, l’impianto, nel corpo della donna, dell’embrione formatosi quando entrambi i componenti la coppia erano in vita.
La L. n. 40 del 2004, art. 5, nel riservare l’accesso alla procreazione a coppie i cui membri siano “entrambi viventi“, sembra escludere che possa ricorrervi una donna vedova, sotto pena di sanzioni amministrative (art. 12, della medesima legge), e tanto, come pure si è autorevolmente sostenuto, allo scopo di evitare i pregiudizi che al minore potrebbero eventualmente derivare a causa della mancanza della figura paterna.
La norma, tuttavia, non precisa in quale momento del complesso procedimento fecondativo sia richiesta la presenza in vita di entrambi i membri della coppia, sicché spetta all’interprete, alla luce dei principi sottesi alla disciplina in materia, stabilire se debbano considerarsi illecite, o meno, tutte e tre le diverse ipotesi precedentemente prospettate, ed a tal fine non potrebbe prescindersi da quanto sancito dal successivo art. 6, comma 1, – a tenore del quale, per le finalità indicate dal comma 3 del medesimo articolo (afferente il consenso informato dei soggetti di accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita), “prima del ricorso ed in ogni fase di applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita il medico informa in maniera dettagliata i soggetti di cui all’art. 5…” – che, almeno prima facie, sembra postulare l’esistenza in vita dei menzionati soggetti appunto in ogni fase di applicazione della tecnica prescelta.
Un siffatto problema però, chiosa ancora il Collegio, come si è già ripetutamente detto, non può assumere rilievo primario, atteso che nel presente giudizio, alla stregua di quanto si è chiarito circa l’ambito operativo del procedimento D.P.R. n. 396 del 2000, ex artt. 95 e 96, occorre accertare esclusivamente la corrispondenza fra la realtà di un fatto come complessivamente dichiarato dalla R. all’ufficiale di stato civile del Comune di (OMISSIS) e la relativa riproduzione nell’atto di nascita come da quest’ultimo concretamente redatto, dovendo le conclusioni pure desumibili dalla complessiva disciplina di cui alla L. n. 40 del 2004 in ordine alla illegittimità, o meno, della pratica, in Italia, di una tecnica di fecondazione omologa post mortem come quella cui si era sottoposta (affatto lecitamente secondo la lex loci), in Spagna, la ricorrente, necessariamente arrestarsi di fronte al fatto che, una volta verificatasi la nascita, non ci si può sottrarre all’individuazione della disciplina da applicarsi in materia di filiazione.
Tanto per la evidente ragione che, in ogni caso, il nostro ordinamento non può disinteressarsi dei correlativi diritti del soggetto venuto al mondo a seguito di una procreazione medicalmente assistita post mortem eventualmente effettuata dal cittadino italiano in un Paese ove tale pratica è ammessa ed avvenuta nel pieno rispetto dei limiti temporali di relativa esecuzione prevista dalla corrispondente disciplina.
Si pone, allora, la necessità di individuare, nel silenzio del legislatore, lo status del figlio in tal modo venuto al mondo. Infatti, a differenza di quanto previsto per la procreazione eterologa (inderogabilmente vietata nel disegno originario della L. n. 40 del 2004, ma alla quale oggi possono accedere, invece, per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 162 del 2014, le “coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi” per le quali è stata accertata e certificata una patologia che sia causa irreversibile di sterilità o infertilità per uno o per entrambi i partner), nel caso di procreazione post mortem la nuova normativa non detta una disciplina dedicata alla fattispecie (in ipotesi) vietata, sicché occorre chiedersi se possa applicarsi la L. n. 40 del 2004, art. 8, sullo status giuridico del nato, anche quando il figlio sia nato (come nella specie) oltre i trecento giorni dalla morte del padre. Le opinioni espresse sul punto – rammenta il Collegio – sono varie.
Coloro i quali assumono che, anche in caso di procreazione medicalmente assistita, troverebbero applicazione i principi generali stabiliti nel codice civile in tema di filiazione naturale, si dividono tra chi sostiene che la nascita di un figlio da fecondazione artificiale omologa post mortem avvenuta in un periodo che non consente più l’operatività della presunzione di concepimento in costanza di matrimonio può solo giustificare la proposizione di una domanda di dichiarazione giudiziale di paternità, con la conseguenza che un riconoscimento preventivo del marito mentre era ancora in vita sarebbe privo di effetti, e chi, invece, ritiene che la suddetta situazione non costituirebbe un ostacolo alla operatività della presunzione di paternità tutte le volte in cui possa essere provato, ai sensi dell’art. 234 c.c., il concepimento in costanza di matrimonio.
Tale requisito, attraverso una interpretazione estensiva della norma, dovrebbe considerarsi soddisfatto dimostrando che la fecondazione dell’ovulo (cioè, la creazione dell’embrione) sia avvenuta durante il matrimonio, purché la moglie non sia passata a nuove nozze. Quest’ultima tesi, però, oltre a fondarsi su una interpretazione del “concepimento” sensibilmente distante rispetto alla relativa accezione tradizionale, che lo identifica con il momento nel quale l’ovulo fecondato attecchisce nell’utero materno, finisce con il distinguere immotivatamente la situazione giuridica del nato a seconda del tipo di tecnica di procreazione medicalmente assistita che sia stata eseguita, essendo possibile congelare e conservare a lungo non solo l’embrione ma anche il liquido seminale e potendosi, pertanto, ipotizzare che la stessa fecondazione dell’ovulo avvenga, come peraltro accaduto nel caso in esame, solo dopo la morte del marito.
La diversa impostazione secondo la quale, nella fattispecie in esame, si potrebbe applicare la L. n. 40 del 2004, art. 8, sullo status giuridico del nato, muove, invece, dal rilievo che il legislatore non ha limitato espressamente l’applicabilità della norma in esame alle sole ipotesi di procreazione medicalmente assistita “lecita” ed ha, anzi, espressamente contemplato la relativa applicabilità alla ipotesi di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo, in relazione alla quale l’impossibilità di esercitare l’azione di disconoscimento della paternità e l’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità presuppongono che, anche in simili casi, il consenso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita sia sufficiente per l’attribuzione dello status di figlio.
Ne consegue che, ove si sia proceduto, nonostante il tenore letterale della L. n. 40 del 2004, art. 5 e art. 6, comma 1, dopo la morte del marito ed acquisito il relativo univoco consenso in vita, alla formazione di embrioni con il seme crioconservato dello stesso e gli ovociti della moglie ed al loro impianto, dovrebbe prevalere la tutela legislativa del nato da fecondazione omologa, posto che il sicuro legame genetico consentirebbe comunque l’instaurazione del rapporto di filiazione nei confronti di entrambi i genitori genetici, anche ove volesse ritenersi violato il quadro normativo derivante dalle disposizioni relative all’accesso alla P.M.A. nel nostro ordinamento interno.
Fermo quanto precede, rileva innanzitutto il Collegio che, per quanto concerne il nato da P.M.A. di tipo eterologo, la L. n. 40 del 2004, art. 9, comma 1, stabilisce che il marito o il convivente non possa esercitare l’azione di disconoscimento della paternità o l’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità purché il relativo consenso sia ricavabile da “atti concludenti“. Proprio l’effettuato riferimento della norma ad “atti concludenti“, da cui deve desumersi il consenso alla tecnica della procreazione eterologa (lecita, oggi, nei predetti limiti di cui a Corte Cost. n. 162 del 2014), costituisce, allora, un argomento significativo per ritenere, fondatamente, che questi stessi “atti concludenti” siano idonei a maggior ragione a dimostrare il consenso alle pratiche lecite di procreazione assistita omologa, essendo innegabile che la genitorialità di cui al citato art. 8 spetti alla coppia, coniugata o convivente, che abbia voluto congiuntamente accedere alla tipologia di P.M.A. consentita anche nel nostro ordinamento.
La L. n. 40 del 2004, art. 8 esprime, poi, l’assoluta centralità del consenso come fattore determinante la genitorialità in relazione ai nati a seguito dell’applicazione delle tecniche di P.M.A.. La norma non contiene alcun richiamo ai precedenti artt. 4 e 5, con i quali si definiscono i confini soggettivi dell’accesso alla P.M.A., così dimostrando una sicura preminenza della tutela del nascituro, sotto il peculiare profilo del conseguimento della certezza dello status filiationis, rispetto all’interesse, pure perseguito dal legislatore, di regolare rigidamente l’accesso a tale diversa modalità procreativa.
Ribadito, allora, che non si controverte, in questa sede, della illiceità, o meno, di una siffatta tecnica di P.M.A., ma, alla stregua di quanto si è già chiarito circa l’ambito operativo del procedimento D.P.R. n. 396 del 2000, ex artt. 95 e 96, esclusivamente della corrispondenza fra la realtà di un fatto come complessivamente dichiarato all’ufficiale di stato civile e la relativa riproduzione nell’atto di nascita come da quest’ultimo concretamente redatto, opina la Corte come sia possibile l’applicazione della disciplina della L. n. 40 del 2004, art. 8 (anche) alla specifica ed affatto peculiare ipotesi di cui oggi si discute, apparendo del tutto ragionevole la conclusione che il/la nato/a allorquando il marito (o il convivente) sia morto dopo avere prestato il consenso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita (nella specie, peraltro, pacificamente ribadito solo pochi giorni prima del decesso) ai sensi dell’art. 6 della medesima legge e prima della formazione dell’embrione avvenuta con il proprio seme precedentemente crioconservato (di cui, prima del decesso, abbia, altresì, autorizzato l’utilizzazione) sia da considerarsi figlio nato nel matrimonio della coppia che ha espresso il consenso medesimo prima dello scioglimento, per effetto della morte del marito, del vincolo nuziale.
In tal caso, benché manchi il requisito della esistenza in vita di tutti i soggetti al momento della fecondazione dell’ovulo, deve ritenersi che, una volta avvenuta la nascita, il/la figlio/a possa avere come padre colui che ha espresso il consenso ex art. 6 della legge predetta, senza mai revocarlo, dovendosi individuare in questo preciso momento la consapevole scelta della genitorialità.
L’appena riferita scelta interpretativa si fonda sulla rilevanza che assume la discendenza biologica, della quale la parte odierna ricorrente ha specificamente dedotto di aver fornito ampia prova, tra l’uomo che ha comunque espresso un consenso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, altresì autorizzando l’utilizzazione del proprio seme precedentemente prelevato e crioconservato, ed il nato, e prescinde, pertanto, da ogni considerazione del tempo in cui sono avvenuti il concepimento (se lecitamente, o meno, non interessa nella concreta fattispecie, non potendosi riflettere sul nato eventuali responsabilità dei genitori e/o dei medici che hanno assecondato i loro progetto) e la nascita. Proprio perché le tecniche in questione rendono possibile il differimento della nascita, senza per questo incidere sulla certezza della paternità biologica, si rivelano inapplicabili, in materia, quei principi, dettati nel codice civile (artt. 232 e 234 c.c., ma si veda anche l’art. 462 c.c., comma 2), basati su un sistema di presunzioni tramite le quali si cerca di stabilire quella certezza.
Alla predetta soluzione peraltro, precisa il Collegio, nemmeno sembra di assoluto ostacolo l’assunto secondo cui l’ordinamento deve proteggere l’infanzia garantendo il diritto ad avere una famiglia composta da due figure genitoriali, nel chiaro intento positivo di considerare prevalente la tutela del nascituro rispetto al diritto alla genitorialità.
Al contrario, si può comunque osservare che la limitazione della donna, nella specifica situazione in cui era venuta a trovarsi l’odierna ricorrente, all’accesso alla tecnica cui ella si era poi sottoposta non è funzionale a far prevalere l’interesse del nascituro a venire al mondo in una famiglia che possa garantire l’esistenza e l’educazione, perché l’alternativa è il non nascere affatto; parimenti, l’affermazione che nascere e crescere con un solo genitore integri una condizione esistenziale negativa non sembra potersi enfatizzare al punto tale da preferire la non vita. Al contrario, l’interesse del nato, nella specie, è quello di acquisire rapidamente la certezza della propria discendenza bi-genitoriale, elemento di primaria rilevanza nella costruzione della propria identità (cfr., anche nelle rispettive motivazioni, le già richiamate Cass. n. 6963 del 2018; Cass., SU, n. 1946 del 2017; Cass. n. 15024 del 2016).
In uno scenario, nel quale, come si è detto in precedenza, la genitorialità spesso va staccandosi dal nesso col matrimonio e dalla famiglia, declinandosi in una molteplicità di contesti prima ritenuti inediti, è, allora, necessario porsi in un’altra prospettiva, dove il rapporto familiare non si pone più in termini convenzionali, in cui nuove ipotesi di relazioni intersoggettive calzano la scena della famiglia, che non può più essere solo quella che il codice civile ha previsto nel 1942.
Il fenomeno dell’emersione di diverse relazioni intersoggettive nelle relazioni affettive è, del resto, in progressiva evoluzione, così da richiedere una tutela sistematica (e non più occasionale) dei fenomeni prima sconosciuti o ritenuti minoritari, imponendo soluzioni capaci di emanciparsi da quei modelli tradizionali che rischiano, ormai, di rivelarsi inadeguati rispetto ai primi.
Ciò posto, la fattispecie qui esaminata presuppone per la Corte, oltre alla morte del marito (o del convivente), che vi sia stato il consenso dello stesso (o del convivente) al momento di accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita e che tale consenso non solo sia certamente persistito fino al relativo decesso, ma, prima di tale momento ultimo, sia stato anche da lui arricchito dall’espressa autorizzazione all’utilizzo, post mortem, del proprio seme crioconservato: in presenza di una siffatta ipotesi, l’interpretazione preferibile è, dunque, quella secondo la quale la disciplina di attribuzione dello status nella procreazione medicalmente assistita configura un sistema alternativo, speciale, e non possono, di conseguenza, trovare applicazione i meccanismi di prova presuntiva del codice civile riferibili alla generazione biologica naturale..
Manca, del resto, qualsivoglia dato normativo che induca a ritenere che nella procreazione medicalmente assistita debbano applicarsi tali presunzioni in materia di procreazione biologica naturale se non espressamente derogati dalla L. n. 40 del 2004, artt. 8 e 9. Invero, gli argomenti, di tipo testuale, pure svolti a sostegno di quest’ultima tesi, per la Corte, non persuadono.
Si è, in primo luogo, osservato che il contenuto del comma 2 dell’art. 9, che pone il divieto dell’anonimato materno nella fecondazione medicalmente assistita, sembra presupporre l’astratta applicabilità alla procreazione medicalmente assistita dei principi stabiliti in tema di filiazione biologica naturale. Inoltre, sempre secondo tale tesi, la disposizione contenuta nell’art. 9, comma 3, secondo cui, in caso di applicazione di tecniche di tipo eterologo, il donatore di gameti non acquisisce alcuna relazione giuridica parentale con il nato, assume effettiva portata normativa soltanto se intesa quale deroga alla ordinaria disciplina della filiazione naturale, mentre avrebbe una mera portata esplicativa nel caso opposto.
Nondimeno, il divieto di anonimato materno, lungi dal presupporre l’operatività dei principi generali, ben può costituire espressione proprio delle differenze esistenti tra procreazione naturale e procreazione medicalmente assistita con riferimento alla determinazione dello status del nato, poiché in quest’ultimo caso il consenso dato alla pratica della procreazione medicalmente assistita determinerebbe una “responsabilità” riguardo alla filiazione, tale da escludere la stessa facoltà per la donna di non essere nominata.
D’altronde, risulta affatto condivisibile e tutt’altro che illogico il rilievo che, in un’ottica di tutela del nato, al consenso prestato dai genitori per l’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita il legislatore abbia riconnesso anche il riconoscimento del nato e che tale ipotesi sia stata, dunque, differenziata da quella di procreazione naturale, anche sotto il profilo delle possibili conseguenze. Ciò emerge in maniera evidente nella fecondazione eterologa, ove l’interesse del minore costituisce un vero e proprio limite al principio della verità biologica, tanto che il legislatore, per perseguire tale interesse, ha attribuito precipuo rilievo al consenso prestato dai coniugi o conviventi al ricorso a tecniche di procreazione assistita, ma risulta confermato anche in caso di fecondazione omologa post mortem, con riferimento alla quale, non essendo in alcun caso ipotizzabile un contrasto tra favor veritatis e favor minoris, coincidendo quest’ultimo con il diritto del minore alla propria identità, il consenso prestato dai coniugi o conviventi appare elemento qualificante la disciplina in materia di accertamento della filiazione in funzione di una effettiva tutela della personalità del minore.
Viceversa, proprio riguardo alla procreazione medicalmente assistita post mortem, le regole generali non appaiono congrue, in quanto si versa in presenza di un evento in cui si può avere la certezza che la fecondazione è avvenuta dopo la morte del soggetto che ha espresso il consenso e, ciononostante, si è altrettanto sicuri che ricorra con quello stesso soggetto quel rapporto di consanguineità che si pone a fondamento del sistema generale della filiazione.
Appare, pertanto, decisamente preferibile, di fronte ad un dato testuale sostanzialmente neutro, interpretare la norma in funzione della effettività della tutela del diritto della persona umana alla propria identità, la quale, come sottolineato dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (nelle due, già menzionate, sentenze “gemelle” Mennesson c. Francia, del 26 giugno 2014, ric. n. 65192/11, e Labassee c. Francia, del 26 giugno 2014, ric, n. 65941/11), comprende l’identificazione del proprio status di figlio di determinati genitori.
Alla stregua delle superiori considerazioni, nella concreta fattispecie oggi in esame occorre allora per la Corte applicare la disciplina contenuta nella menzionata L. n. 40 del 2004, art. 8, senza poter fare riferimento alla presunzione stabilita dall’art. 232 c.c., che, di per sé, non può costituire ostacolo all’attribuzione al nato a seguito di fecondazione omologa eseguita post mortem dello status di figlio del marito deceduto, anche se la nascita sia avvenuta dopo il decorso del termine di trecento giorni dallo scioglimento del matrimonio conseguente alla relativa morte.
Naturalmente, per potere affermare che L. sia figlia del marito deceduto della ricorrente, deve esistere il presupposto fondamentale previsto dal suddetto L. n. 40 del 2004, art. 8, vale a dire il consenso espresso congiuntamente dai coniugi al ricorso alle tecniche di P.M.A., secondo quanto stabilito dall’art. 6 della medesima legge, e mantenuto fermo dal marito fino alla data della relativa morte. D’altra parte, non tutti i requisiti del consenso indicati dalla norma appaiono necessari ai fini dell’attribuzione dello status filiationis, come si desume implicitamente dal disposto dell’art. 9, a norma del quale è sufficiente che il consenso sia ricavabile da atti concludenti.
In definitiva, quindi, benché la mancanza dei requisiti del consenso stabiliti dalla L. n. 40 del 2004, art. 6 non permetta di accedere alle pratiche di procreazione medicalmente assistita, laddove la procreazione comunque avvenga, lo status filiationis va determinato verificando solamente se effettivamente il coniuge o il convivente abbia prestato il proprio consenso alla procreazione medicalmente assistita anche solo mediante atti concludenti, e se tale consenso, integrato da quello riguardante anche la possibilità di utilizzo del proprio seme post mortem, sia effettivamente persistito fino al momento ultimo (nella specie, quello della morte del marito della odierna ricorrente) entro il quale lo stesso poteva essere revocato, non ravvisandosi valide ragioni per ritenere, al contrario, che il consenso peculiarmente espresso per un atto da compiersi dopo la morte perda efficacia al verificarsi di detto evento.
Nella fattispecie in esame, la R. ha dedotto che: i) con il coniuge G.A., avevano deciso di ricorrere alle tecniche di P.M.A. prestando il loro consenso il 31 marzo 2015; ii) il G., proprio nel corso della terapia, aveva appreso di essere gravemente malato e, dovendo far ricorso all’assunzione di farmaci che avrebbero compromesso la relativa capacità di generare, aveva reiterato il proprio consenso, con dichiarazione sottoscritta in data 8 settembre 2015, e, consapevole della propria fine imminente, aveva autorizzato la moglie all’utilizzo, post mortem, del proprio seme crioconservato al fine di ottenere una gravidanza con l’ausilio delle tecniche di fecondazione assistita omologa; iii) per realizzare il comune desiderio di procreazione, l’odierna ricorrente, dopo la morte del marito avvenuta il (OMISSIS), si era sottoposta, al trattamento di fecondazione assistita (FIV) in Spagna, dando, poi, alla luce, in Italia, il (OMISSIS), la piccola L..
Pertanto, alla stregua della L. n. 40 del 2004, art. 8, come in precedenza interpretato, il fatto storico della nascita, così avvenuta, di quella bambina, ne avrebbe dovuto comportare, ove adeguatamente documentate le circostanze suddette, la formazione del corrispondente atto dello stato civile con la indicazione della paternità di G.A. e del cognome paterno. Non si tratta, quindi, di attribuire alla figlia nata dalla R. uno stato diverso da quello che, secondo la previsione legale, le competerebbe (ciò, invero, dovrebbe formare oggetto di un’azione di stato), ma soltanto di rettificare un atto compilato non correttamente, così da renderlo corrispondente alla situazione reale prodotta dalla medesima previsione legale (L. n. 40 del 2004, art. 8), alla stregua della quale l’atto stesso doveva essere formato.
Ne consegue la erroneità tanto dell’affermazione della Corte di appello di Ancona secondo cui il rifiuto dell’ufficiale di stato civile di iscrivere nell’atto di nascita di cui si discute la paternità della bambina sulla base delle dichiarazioni della sola madre era stato “legittimo sia perché non è consentita al medesimo una indagine sulla rilevanza probatoria della documentazione relativa alla procreazione medicalmente assistita allegata alla richiesta di formazione dell’atto di nascita (come riprodotta nel presente procedimento dalla ricorrente-reclamante) sia perché, nel silenzio del legislatore con riferimento allo specifico caso della fecondazione post mortem (di cui si discute), trovano applicazione le regole generali del codice civile (artt. 231 e 232 c.c..) che escludono l’operatività della presunzione oltre trecento giorni dalla cessazione del vincolo (situazione verificatasi nel caso in esame in cui G.A. è deceduto il 29.9.2015 e la bambina è nata il 14.2.2017) e precludono la iscrizione della paternità sulla base delle sole dichiarazioni della madre…”; quanto dell’aver omesso, la medesima corte, di verificare, alla stregua della documentazione sottoposta anche al relativo esame, la possibilità di rettificare un atto dello stato civile non corretto, così da renderlo corrispondente alla situazione reale prodotta dalla medesima previsione legale alla stregua della quale l’atto stesso doveva essere formato.
Posto infatti, prosegue la Corte, che, come si è già chiarito, il giudice investito della dedotta illegittimità del rifiuto di rettifica di un atto di nascita – il cui procedimento si configura non come giudizio di costituzione diretta di uno status filiationis bensì di verifica della corrispondenza alla verità di una richiesta attestazione – dispone di una cognizione piena sull’accertamento della corrispondenza di quanto richiesto dal genitore in relazione alla completezza dell’atto di nascita del figlio con la realtà generativa e di discendenza genetica e biologica, potendo, così, a questo limitato fine, attivare tutte le risorse istruttorie fornitegli dalla parte, la corte dorica, proprio perché investita esclusivamente della corrispondenza alla verità del complesso di elementi fattuali documentati dalla parte reclamante, non aveva limitazioni per decidere, accogliendo, o meno, l’istanza di rettifica di quest’ultima a seconda della adeguatezza, o non, della documentazione dalla stessa allegata a dimostrare la coerenza del percorso ivi descritto.
Pertanto, respintone il primo motivo, il ricorso proposto dalla R., in proprio e quale esercente la potestà genitoriale sulla figlia minorenne L., va accolto in relazione agli ulteriori secondo, terzo e quarto motivo, con rinvio, anche per il regolamento delle spese del giudizio di cassazione, alla Corte d’appello di Ancona, in diversa composizione, la quale per il Collegio deve riesaminare la controversia alla stregua dei seguenti principi di diritto:
- a) le dichiarazioni rese all’ufficiale dello stato civile, se dirette, esclusivamente, a dare pubblica notizia di eventi, quali la nascita o la morte, rilevanti per l’ordinamento dello stato civile per il solo fatto di essersi verificati, impongono al menzionato ufficiale di riceverle e formarne nei relativi registri processo verbale per atto pubblico, senza che gli spetti di stabilire la compatibilità, o meno, di detti eventi con l’ordinamento italiano e se, per questo, abbiano rilevanza e siano produttivi di diritti e doveri. Diversamente, qualora, tali dichiarazioni siano, di per se stesse, produttive di effetti giuridici riguardo allo status della persona cui si riferiscono, l’ufficiale dovrà rifiutare di riceverle ove le ritenga in contrasto con l’ordinamento e con l’ordine pubblico;
- b) il procedimento di rettificazione degli atti dello stato civile, disciplinato dal D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, art. 96, è ammissibile ogni qualvolta sia diretto ad eliminare una difformità tra la situazione di fatto, quale è o dovrebbe essere nella realtà secondo le previsioni di legge, e come risulta dall’atto dello stato civile per un vizio, comunque o da chiunque originato, nel procedimento di formazione di esso. In tale procedimento, l’autorità giudiziaria dispone di una cognizione piena sull’accertamento della corrispondenza di quanto richiesto dal genitore in relazione alla completezza dell’atto di nascita del figlio con la realtà generativa e di discendenza genetica e biologica di quest’ultimo, potendo, così, a tale limitato fine, avvalersi di tutte le risorse istruttorie fornitele dalla parte;
- c) la L. 19 febbraio 2004, n. 40, art. 8, recante lo status giuridico del nato a seguito dell’applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita, è riferibile anche all’ipotesi di fecondazione omologa post mortem avvenuta mediante utilizzo del seme crioconservato di colui che, dopo avere prestato, congiuntamente alla moglie o alla convivente, il consenso all’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, ai sensi dell’art. 6 della medesima legge, e senza che ne risulti la relativa successiva revoca, sia poi deceduto prima della formazione dell’embrione avendo altresì autorizzato, per dopo la propria morte, la moglie o la convivente all’utilizzo suddetto. Ciò pure quando la nascita avvenga oltre i trecento giorni dalla morte del padre.
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Il 18 luglio esce la sentenza della I sezione della Corte EDU, R.V. ed altri c/ Italia, che si occupa di una fattispecie di illegittimità dei provvedimenti che dispongono l’affidamento di minori ad un Comune per violazione, in primis, del c.d. diritto al rispetto della vita privata e familiare di cui all’art.8 della CEDU.
Interessante il passaggio in cui la Corte afferma che – quando sia trascorso un notevole lasso di tempo dal momento in cui il minore è stato collocato per la prima volta in affidamento presso terzi – l’interesse del minore medesimo di non subire ulteriori modifiche fattuali della relativa situazione familiare (acquisita) può prevalere sull’interesse dei genitori di vedere la famiglia riunita (richiamando il caso K.A. c. Finlandia del 14 gennaio 2003).
Va precisato come nella CEDU difetti un riferimento esplicito ai c.d. “best interests of the child”, circostanza che non ha impedito, nondimeno, alla Corte EDU di far affiorare il pertinente canone in via interpretativa, concettualizzandolo alla luce dello human rights-based approach (ovvero di un approccio basato sui diritti umani), onde “l’interesse superiore del minore” si palesa ormai una sorta di costante nella giurisprudenza della Corte medesima.
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Il 19 agosto esce la sentenza della III sezione della Cassazione penale n.36221 alla cui stregua deve assumersi fondata, nel caso di specie, la violazione della legge penale e, segnatamente, dell’art. 12 comma 6 della legge n. 40 del 2004, nell’interpretazione data dal Giudice (milanese) di merito nella sentenza impugnata.
Occorre muovere per il Collegio dall’esegesi del ridetto art. 12 della legge n. 40 del 2004, (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), e, in tale ambito, viene in rilievo l’apparato sanzionatorio penale contenuto nell’art. 12 comma 6, che punisce: «chiunque, in qualsiasi forma, realizza, organizza o pubblicizza la commercializzazione di gameti o di embrioni o la surrogazione di maternità, … con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da 600.000 a un milione di euro».
La volontà legislativa, che sottendeva e permeava la prima disciplina organica in questa materia, di circoscrivere fortemente l’ambito della procreazione medicalmente assistita, si completava – rammenta la Corte – con la previsione di un sistema sanzionatorio amministrativo e penale diretto a sanzionare la mercificazione della procreazione medesima. E in tale ambito, la commercializzazione dei gameti era (e, come si vedrà, è) vietata, in quanto forma di mercificazione della procreazione assistita, strumentale alla procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo che, prima del 2014, era vietata.
Come è noto, prosegue la Corte, la legge n. 40 del 2004 è stata oggetto di ripetuti interventi da parte del Giudice delle leggi e, per quanto di rilievo in ragione dei motivi di ricorso, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 162 del 2014, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, comma 3, della legge 19 febbraio 2004, n. 40, nella parte in cui stabilisce, per la coppia di cui all’art. 5, comma 1, della medesima legge, il divieto del ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo, qualora sia stata diagnosticata una patologia che sia causa di sterilità o infertilità assolute ed irreversibili.
Quanto al profilo della disciplina sanzionatoria, all’esito della pronuncia che ha eliminato il divieto di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo, la stessa Corte costituzionale ha chiarito al par. 11.1. che “La ritenuta fondatezza delle censure non determina incertezze in ordine all’identificazione dei casi nei quali è legittimo il ricorso alla tecnica in oggetto. L’accoglimento delle questioni, in coerenza con il petitum formulato dai rimettenti, comporta, infatti, l’illegittimità del divieto in esame, esclusivamente in riferimento al caso in cui sia stata accertata l’esistenza di una patologia che sia causa irreversibile di sterilità o infertilità assolute. In particolare, secondo quanto stabilito dagli artt. 1, comma 2, e 4, comma 1, della legge n. 40 del 2004, all’evidenza direttamente riferibili anche alla PMA di tipo eterologo, il ricorso alla stessa, una volta dichiarato illegittimo il censurato divieto, deve ritenersi consentito solo «qualora non vi siano altri metodi terapeutici efficaci per rimuovere» le cause di sterilità o infertilità e sia stato accertato il carattere assoluto delle stesse, dovendo siffatte circostanze essere «documentate da atto medico» e da questo certificate. Il ricorso a questa tecnica, non diversamente da quella di tipo omologo, deve, inoltre, osservare i principi di gradualità e del consenso informato stabiliti dal citato art. 4, comma 2“.
Ed ancora ha precisato che “Nessuna lacuna sussiste in ordine ai requisiti soggettivi, poiché la dichiarata illegittimità del divieto non incide sulla previsione recata dall’art. 5, comma 1, di detta legge, che risulta ovviamente applicabile alla PMA di tipo eterologo (come già a quella di tipo omologo); quindi, alla stessa possono fare ricorso esclusivamente le «coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi». Ad analoga conclusione deve pervenirsi quanto alla disciplina del consenso, dato che la completa regolamentazione stabilita dall’art. 6 della legge n. 40 del 2004 – una volta venuto meno, nei limiti sopra precisati, il censurato divieto – riguarda evidentemente anche la tecnica in esame, in quanto costituisce una particolare metodica di PMA. È, inoltre, parimenti chiaro che l’art. 7 della legge n. 40 del 2004, il quale offre base giuridica alle Linee guida emanate dal Ministro della salute, «contenenti l’indicazione delle procedure e delle tecniche di procreazione medicalmente assistita», avendo ad oggetto le direttive che devono essere emanate per l’esecuzione della disciplina e concernendo il genus PMA, di cui quella di tipo eterologo costituisce una species, è, all’evidenza, riferibile anche a questa, come lo sono altresì gli artt. 10 ed 11, in tema di individuazione delle strutture autorizzate a praticare la procreazione medicalmente assistita e di documentazione dei relativi interventi“.
Ma ha, soprattutto, chiarito che “siffatta considerazione permette, poi, di ritenere che le norme di divieto e sanzione non censurate (le quali conservano validità ed efficacia), preordinate a garantire l’osservanza delle disposizioni in materia di requisiti soggettivi, modalità di espressione del consenso e documentazione medica necessaria ai fini della diagnosi della patologia e della praticabilità della tecnica, nonché a garantire il rispetto delle prescrizioni concernenti le modalità di svolgimento della PMA ed a vietare la commercializzazione di gameti ed embrioni e la surrogazione di maternità (art. 12, commi da 2 a 10, della legge n. 40 del 2004) sono applicabili direttamente (e non in via d’interpretazione estensiva) a quella di tipo eterologo, così come lo sono le ulteriori norme, nelle parti non incise da pronunce di questa Corte” (Corte costituzionale n. 162 del 2014).
La sanzione per la commercializzazione dei gameti di cui all’art. 12 comma 6 della legge n. 40 del 2004, nell’originaria previsione del 2004, era – chiosa ancora il Collegio – coerente con l’illiceità della fecondazione eterologa, il cui divieto si perfezionava con la disposizione della sanzione penale per la commercializzazione dei gameti che costituiva lo strumento necessario per la pratica di fecondazione vietata.
Ora la Corte costituzionale ha eliminato il divieto e ha affermato che la fecondazione di tipo eterologo è un diritto costituzionale ( par.6 “espressione della fondamentale e generale libertà di autodeterminarsi, libertà che, come questa Corte ha affermato, sia pure ad altri fini ed in un ambito diverso, è riconducibile agli artt. 2, 3 e 31 Cost., poiché concerne la sfera privata e familiare“), ma ha poi ribadito che la sanzione penale rimane applicabile perché permane il divieto di commercializzazione di gameti.
Dunque, la condotta vietata come delineata dall’art. 12 comma 6, della legge n. 40 del 2004, deve essere interpretata, con riferimento al divieto di commercializzazione di gameti, alla luce della praticabilità e liceità di tale tipo di fecondazione, che implica necessariamente “il trasferimento di gameti” da un soggetto donatore.
Per l’individuazione del perimetro entro il quale ricondurre la condotta penalmente illecita, ritiene, il Collegio, di poter richiamare i principi della direttiva 2004/23/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31 marzo 2004, sulla definizione di norme di qualità e di sicurezza per la donazione, l’approvvigionamento, il controllo, la lavorazione, la conservazione, lo stoccaggio e la distribuzione di tessuti e cellule umani, che all’art. 12 prevede la “gratuità” e “volontarietà” della donazione dei tessuti e cellule umane, e precisa, al comma 2, che i donatori possono solo ricevere “una indennità strettamente limitata a far fronte alle spese e inconvenienti risultanti dalla donazione. In tal caso gli Stati membri stabiliscono le condizioni alle quali viene concessa l’indennità“.
La direttiva è stata attuata con il Decreto Legislativo n. 191 del 6/11/2007, “Attuazione della direttiva 2004/23/CE sulla definizione di norme di qualità e di sicurezza per la donazione, l’approvvigionamento, il controllo, la lavorazione, la conservazione, lo stoccaggio e la distribuzione di tessuti e cellule umani“, che però non ha apportato modificazioni, nella parte di interesse, alla legge del 2004 (all’art. 2 comma 3 si legge: 3. “Alle cellule riproduttive, ai tessuti e alle cellule fetali e alle cellule staminali embrionali, si applicano le disposizioni vigenti in materia. Per la conservazione si applicano le disposizioni di cui al presente decreto in quanto compatibili”).
Va, tuttavia, rilevato che lo Stato non si è avvalso della possibilità di stabilire un’indennità per i donatori come consentito dalla Direttiva medesima all’art. 12 comma 2., come invece, a titolo esemplificativo, ha fatto con riguardo al trapianto di midollo osseo con la legge n. 62 del 2011, norme di carattere speciale che non possono valere quanto al diverso campo della procreazione medicalmente assistita. Di tal che, allo stato, alcuna forma di indennizzo è prevista nel caso di donazione di gameti che deve avvenire, si ripete, su base volontaria e improntata a gratuità. L’assenza di finalità lucrativa nella donazione trova conferma nei Decreti Ministeriali, succedutisi per regolare l’importazione e il trasferimento dei gameti, ed è stata ribadita anche dal Direttore del Centro Nazionale Trapianti con nota del 2016.
Tirando le fila del discorso, pare al Collegio che, a delineare il perimetro della fattispecie penale di commercializzazione di gameti, non si possa prescindere dai principi espressi dalla Direttiva del Consiglio d’Europa di “volontarietà” e “gratuità” della donazione, principi che concorrono a delineare l’area della rilevanza penale delle condotte di commercializzazione vietate dall’art. 12 comma 6, nel caso di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo (che necessita di donazione e trasferimento di gameti), nel senso che l’area della rilevanza penale deve essere individuata in quelle condotte, realizzate in qualunque forma, dirette ad immettere nel mercato (commercializzare) i gameti in violazione dei principi di volontarietà e gratuità della donazione. In tale ambito rientrano nella condotta di commercializzazione anche quelle condotte di reclutamento di donatori/donatrici dietro la prospettazione/corresponsione di una remunerazione, chiaramente dirette alla immissione nel mercato dei gameti, in vista della procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo.
Venendo al caso di specie, il Tribunale di Milano, ferma e non contestata la ricostruzione delle condotte contestate alle imputate, ha prosciolto per insussistenza del fatto, sul rilievo che non vi è commercio “allorché il trasferimento della cellula riproduttiva umana avviene all’interno di un trattamento di fecondazione c.d. eterologa“, proprio perché tale pratica richiede necessariamente il ricorso al gamete estraneo alla coppia. E da tale evidenza, il Giudice ha tratto la conclusione che l’applicazione della norma incriminatrice, laddove punisce la commercializzazione di gameti, doveva essere esclusa nei casi in cui essa era diretta ad una pratica di fecondazione medicalmente assistita di tipo eterologo.
L’interpretazione del Tribunale di Milano è per la Corte erronea per le ragioni sopra esposte. Per quanto sopra argomentato, ritiene, il Collegio, che la norma incriminatrice continua a prevedere la sanzione penale per le condotte di commercio di gameti, cioè per condotte dirette a remunerare la produzione, il trasferimento, la circolazione, l’importazione di gameti, in vista dell’immissione nel mercato, in violazione del principio di “gratuità” della donazione.
Al di fuori dei meri costi per l’esecuzione della prestazione medica (che la Regione Lombardia ha determinato a carico del richiedente nel caso di ricorso alla procreazione medicalmente assistita eseguita dal servizio sanitario nazionale), che restano fuori dall’ambito di rilevanza penale, costituiscono reato tutte le condotte dirette alla produzione e circolazione dei gameti, remunerate con corrispettivo in rapporto sinallagmatico con la condotta di produzione, circolazione e immissione nel mercato, condotte che costituiscono la mercificazione della procreazione assistita sanzionata dall’art. 12 comma 6 della legge n. 40 del 2004.
In conclusione, ritiene il Collegio di affermare il seguente principio di diritto: l’art. 12 comma 6 della legge n. 40 del 2004, all’esito della pronuncia della Corte costituzionale n. 162 del 2014, punisce chiunque, in qualsiasi forma, realizza, organizza o pubblicizza l’acquisizione di gameti in violazione dei principi di volontarietà e gratuità della donazione.
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Il 23 ottobre esce la sentenza della Corte costituzionale n.221 in tema di legittimità costituzionale del divieto di fecondazione assistita per le coppie dello stesso sesso (omosessuali).
Per la Corte, più in specie, vanno dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 5 e 12, commi 2, 9 e 10, della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 31, secondo comma, 32, primo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, dal Tribunale ordinario di Pordenone; vanno del pari dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 5, limitatamente alle parole «di sesso diverso», e 12, comma 2, limitatamente alle parole «dello stesso sesso o», «anche in combinato disposto con i commi 9 e 10», nonché degli artt. 1, commi 1 e 2, e 4 della legge n. 40 del 2004, sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 31, secondo comma, e 32, primo comma, Cost., nonché agli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU, agli artt. 2, paragrafo 1, 17, 23 e 26 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, adottato a New York il 19 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo con legge 25 ottobre 1977, n. 881, e agli artt. 5, 6, 22, paragrafo 1, 23, paragrafo 1, e 25 della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, fatta a New York il 13 dicembre 2006, ratificata e resa esecutiva con legge 3 marzo 2009, n. 18, dal Tribunale ordinario di Bolzano.
Entrambi i giudici rimettenti – osserva preliminarmente il Collegio – escludono la praticabilità di una interpretazione conforme a Costituzione delle disposizioni censurate, ritenendo che una simile operazione ermeneutica trovi un insormontabile ostacolo nell’univoco tenore letterale dell’enunciato normativo. L’affermazione appare corretta.
Stabilendo che alle tecniche di PMA possano accedere solo coppie formate da persone «di sesso diverso» (art. 5) e prevedendo sanzioni amministrative a carico di chi le applica a coppie «composte da soggetti dello stesso sesso» (art. 12, comma 2), la legge n. 40 del 2004 nega in modo puntuale e inequivocabile alle coppie omosessuali la fruizione delle tecniche considerate. Ciò, peraltro, in piena sintonia con l’ispirazione di fondo della legge stessa, sulla quale si porterà presto l’attenzione. Opera, dunque, il principio – ripetutamente affermato dalla Corte – secondo il quale l’onere di interpretazione conforme viene meno, lasciando il passo all’incidente di costituzionalità, allorché il tenore letterale della disposizione non consenta tale interpretazione (ex plurimis, sentenze n. 141 del 2019, n. 268 e n. 83 del 2017, n. 241 e n. 36 del 2016; ordinanza n. 207 del 2018).
La Corte ha avuto modo di porre in evidenza come la legge n. 40 del 2004 costituisca la «prima legislazione organica relativa ad un delicato settore, che negli anni più recenti ha conosciuto uno sviluppo correlato a quello della ricerca e delle tecniche mediche, e che indubbiamente coinvolge una pluralità di rilevanti interessi costituzionali» (sentenza n. 45 del 2005).
La materia tocca, al tempo stesso, «temi eticamente sensibili» (sentenza n. 162 del 2014), in relazione ai quali l’individuazione di un ragionevole punto di equilibrio fra le contrapposte esigenze, nel rispetto della dignità della persona umana, appartiene «primariamente alla valutazione del legislatore» (sentenza n. 347 del 1998).
La linea di composizione tra i diversi interessi in gioco si colloca, in specie, nell’«area degli interventi, con cui il legislatore, quale interprete della volontà della collettività, è chiamato a tradurre, sul piano normativo, il bilanciamento tra valori fondamentali in conflitto, tenendo conto degli orientamenti e delle istanze che apprezzi come maggiormente radicati, nel momento dato, nella coscienza sociale» (sentenza n. 84 del 2016). Ciò ferma restando la sindacabilità delle scelte operate, al fine di verificare se con esse sia stato realizzato un bilanciamento non irragionevole (sentenza n. 162 del 2014). Anche la Corte europea dei diritti dell’uomo ha affermato, d’altra parte, in più occasioni, che nella materia della PMA, la quale solleva delicate questioni di ordine etico e morale, gli Stati conservano – segnatamente quanto ai temi sui quali non si registri un generale consenso – un ampio margine di apprezzamento (tra le altre, sentenze 28 agosto 2012, Costa e Pavan contro Italia; Grande Camera, 3 novembre 2011, S. H. e altri contro Austria).
La possibilità – dischiusa dai progressi scientifici e tecnologici – di una scissione tra atto sessuale e procreazione, mediata dall’intervento del medico, pone, in effetti, un interrogativo di fondo: se sia configurabile – e in quali limiti – un “diritto a procreare” (o “alla genitorialità”, che dir si voglia), comprensivo non solo dell’an e del quando, ma anche del quomodo, e dunque declinabile anche come diritto a procreare con metodi diversi da quello naturale. Più in particolare, si tratta di stabilire se il desiderio di avere un figlio tramite l’uso delle tecnologie meriti di essere soddisfatto sempre e comunque, o se sia invece giustificabile la previsione di specifiche condizioni di accesso alle pratiche considerate: e ciò particolarmente in una prospettiva di salvaguardia dei diritti del concepito e del futuro nato.
Le soluzioni adottate, in proposito, dalla legge n. 40 del 2004 sono, come è noto, di segno restrittivo. Esse riflettono – quanto ai profili che qui vengono in rilievo – due idee di base.
La prima attiene alla funzione delle tecniche considerate. La legge configura, infatti, in apicibus, queste ultime come rimedio alla sterilità o infertilità umana avente una causa patologica e non altrimenti rimovibile: escludendo chiaramente, con ciò, che la PMA possa rappresentare una modalità di realizzazione del “desiderio di genitorialità” alternativa ed equivalente al concepimento naturale, lasciata alla libera autodeterminazione degli interessati. L’art. 1 della legge n. 40 del 2004 stabilisce, in particolare, che il ricorso alla PMA «è consentito» – alle condizioni e secondo le modalità previste dalla stessa legge, «che assicura i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito» – «[a]l fine di favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana» (comma 1) e sempre che «non vi siano altri metodi terapeutici efficaci per rimuovere le cause di sterilità o infertilità» (comma 2). Il concetto è ribadito ed esplicitato nel successivo art. 4, comma 1, in forza del quale l’accesso alle tecniche di PMA «è consentito solo quando sia accertata l’impossibilità di rimuovere altrimenti le cause impeditive della procreazione ed è comunque circoscritto ai casi di sterilità o di infertilità inspiegate documentate da atto medico nonché ai casi di sterilità o di infertilità da causa accertata e certificata da atto medico».
La seconda direttrice attiene alla struttura del nucleo familiare scaturente dalle tecniche in questione. La legge prevede, infatti, una serie di limitazioni di ordine soggettivo all’accesso alla PMA, alla cui radice si colloca il trasparente intento di garantire che il suddetto nucleo riproduca il modello della famiglia caratterizzata dalla presenza di una madre e di un padre: limitazioni che vanno a sommarsi a quella, di ordine oggettivo, insita nel disposto dell’art. 4, comma 3, che – nell’ottica di assicurare il mantenimento di un legame biologico tra il nascituro e gli aspiranti genitori – pone il divieto (in origine, assoluto) di ricorso a tecniche di PMA di tipo eterologo (ossia con impiego di almeno un gamete di un donatore “esterno”).
L’art. 5 della legge n. 40 del 2004 stabilisce, in specie, che possano accedere alla PMA esclusivamente le «coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi». La disciplina dell’art. 5 trova eco, sul versante sanzionatorio, nelle previsioni dell’art. 12. Per quanto al presente più rileva, il comma 2 di tale articolo punisce con una severa sanzione amministrativa pecuniaria (da 200.000 a 400.000 euro) chi applica tecniche di PMA «a coppie composte da soggetti dello stesso sesso», oltre che da soggetti non entrambi viventi, o in età minore, o non coniugati o non conviventi. La previsione sanzionatoria è rafforzata da quella del comma 9, in forza della quale nei confronti dell’esercente una professione sanitaria condannato per uno degli illeciti di cui allo stesso art. 12 (e, dunque, anche per quello di cui al comma 2) è «disposta la sospensione da uno a tre anni dall’esercizio professionale». Il comma 10 prevede, inoltre, la sospensione dell’autorizzazione alla realizzazione delle pratiche di PMA concessa alla struttura nel cui interno è eseguita la pratica vietata, con possibilità di revoca dell’autorizzazione stessa nell’ipotesi di violazione di più divieti o di recidiva.
La Corte rammenta a questo punto di essere intervenuta in due occasioni sulla trama normativa ora ricordata, al fine di ampliare, tramite declaratorie di illegittimità costituzionale, il novero dei soggetti abilitati ad accedere alla PMA.
Lo ha fatto, in particolare, con le sentenze n. 162 del 2014 e n. 96 del 2015: pronunce che gli odierni rimettenti e le parti private evocano a sostegno dell’ulteriore intervento ampliativo oggi richiesto, il quale viene prospettato come un ideale e coerente sviluppo delle decisioni già assunte. Con le pronunce considerate la Corte ha, peraltro, rimosso quelle che apparivano sostanzialmente come distonie, interne o esterne, della disciplina delineata dal legislatore, senza incidere – o incidendo solo in modo marginale – sulle coordinate di fondo di quest’ultima.
La sentenza n. 162 del 2014 ha ammesso, in specie, alla riproduzione artificiale le coppie alle quali «sia stata diagnosticata una patologia che sia causa di sterilità o infertilità assolute ed irreversibili», dichiarando illegittimo, limitatamente a tale ipotesi, il divieto di ricorso a tecniche di PMA di tipo eterologo stabilito dall’art. 4, comma 3, della legge n. 40 del 2004. In tal modo, si è posto rimedio all’«evidente elemento di irrazionalità» insito nel fatto che, dopo aver assegnato alla PMA lo scopo «di favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana», il legislatore aveva negato in assoluto – con il censurato divieto di fecondazione eterologa – la possibilità di realizzare il desiderio della genitorialità proprio alle «coppie affette dalle patologie più gravi, in contrasto con la ratio legis».
Circostanza, questa, che rivelava come il bilanciamento di interessi operato fosse irragionevole, posto che, sull’altro versante, le esigenze di tutela del nuovo nato apparivano adeguatamente soddisfatte dalla disciplina vigente, in rapporto tanto al «rischio psicologico» correlato al difetto di legame biologico con i genitori (conseguente alla fecondazione eterologa), quanto alla possibile «violazione del diritto a conoscere la propria identità genetica».
La successiva sentenza n. 96 del 2015 ha dischiuso, a sua volta, l’accesso alla PMA alle coppie fertili portatrici di gravi malattie genetiche trasmissibili al nascituro («accertate da apposite strutture pubbliche»). Si è eliminata, con ciò, l’altra «palese antinomia» già censurata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo con la sentenza 28 agosto 2012, Costa e Pavan contro Italia. La legge n. 40 del 2004 vietava, infatti, alle coppie dianzi indicate di ricorrere alla PMA, con diagnosi preimpianto, quando invece «il nostro ordinamento consente, comunque, a tali coppie di perseguire l’obiettivo di procreare un figlio non affetto dalla specifica patologia ereditaria di cui sono portatrici attraverso la, innegabilmente più traumatica, modalità della interruzione volontaria (anche reiterata) di gravidanze naturali […] consentita dall’art. 6, comma 1, lettera b), della legge 22 maggio 1978, n. 194 (Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza)».
Entrambe le pronunce si sono mosse, dunque, nella logica del rispetto – e, anzi, della valorizzazione – della finalità (lato sensu) terapeutica assegnata dal legislatore alla PMA (proiettandola, nel caso della sentenza n. 96 del 2015, anche sul nascituro), senza contestare nella relativa globalità – in punto di compatibilità con la Costituzione – l’altra scelta legislativa di fondo: quella, cioè, di riprodurre il modello della famiglia caratterizzata dalla presenza di una figura materna e di una figura paterna.
È ben vero – rammenta ancora la Corte – che la sentenza n. 162 del 2014 ha fatto venir meno – nella circoscritta ipotesi da essa considerata (quando, cioè, la fecondazione eterologa rappresenti l’unico modo per superare una infertilità assoluta e irreversibile di matrice patologica) – la necessità del legame biologico tra genitori e figli. Ma la pronuncia ha avuto cura di puntualizzare e sottolineare che alla fecondazione eterologa restano, comunque sia, abilitate ad accedere solo le coppie che posseggano i requisiti indicati dall’art. 5, comma 1, della legge n. 40 del 2004, e dunque rispondenti al paradigma familiare riflesso in tale disposizione.
Le questioni oggi in esame si collocano su un piano ben diverso. L’ammissione alla PMA delle coppie omosessuali, conseguente al loro accoglimento, esigerebbe, infatti, la diretta sconfessione, sul piano della tenuta costituzionale, di entrambe le idee guida sottese al sistema delineato dal legislatore del 2004, con potenziali effetti di ricaduta sull’intera platea delle ulteriori posizioni soggettive attualmente escluse dalle pratiche riproduttive (oltre che con interrogativi particolarmente delicati quanto alla sorte delle coppie omosessuali maschili, la cui omologazione alle femminili – in punto di diritto alla genitorialità – richiederebbe, come già accennato, che venga meno, almeno a certe condizioni, il divieto di maternità surrogata).
Nella specie, non vi è, d’altronde, alcuna incongruenza interna alla disciplina legislativa della materia, alla quale occorra por rimedio. Contrariamente a quanto mostrano di ritenere i giudici a quibus, l’infertilità “fisiologica” della coppia omosessuale (femminile) non è affatto omologabile all’infertilità (di tipo assoluto e irreversibile) della coppia eterosessuale affetta da patologie riproduttive: così come non lo è l’infertilità “fisiologica” della donna sola e della coppia eterosessuale in età avanzata.
Si tratta di fenomeni chiaramente e ontologicamente distinti. L’esclusione dalla PMA delle coppie formate da due donne non è, dunque, fonte di alcuna distonia e neppure di una discriminazione basata sull’orientamento sessuale. In questo senso si è, del resto, specificamente espressa anche la Corte europea dei diritti dell’uomo. Essa ha affermato, infatti, che una legge nazionale che riservi l’inseminazione artificiale a coppie eterosessuali sterili, attribuendole una finalità terapeutica, non può essere considerata fonte di una ingiustificata disparità di trattamento nei confronti delle coppie omosessuali, rilevante agli effetti degli artt. 8 e 14 CEDU: ciò, proprio perché la situazione delle seconde non è paragonabile a quella delle prime (Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 15 marzo 2012, Gas e Dubois contro Francia). In tali rilievi è evidentemente già insita l’infondatezza delle questioni sollevate dai rimettenti, sotto il profilo considerato, in riferimento agli artt. 3 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in correlazione con le disposizioni convenzionali da ultimo citate.
Ciò posto, e riprendendo l’ordine delle censure prospettato dai giudici a quibus, neppure è riscontrabile la denunciata violazione dell’art. 2 Cost. La Corte ha rilevato che la nozione di «formazion[e] sociale» – nel cui ambito l’art. 2 Cost. riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, e che deve intendersi come riferita a «ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico» – abbraccia anche l’unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone del medesimo sesso (sentenza n. 138 del 2010; similmente, sentenza n. 170 del 2014).
Indicazione cui fa, peraltro, puntuale eco la legge 20 maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze), la quale qualifica espressamente, all’art. 1, comma 1, l’unione civile tra persone dello stesso sesso «quale specifica formazione sociale ai sensi degli articoli 2 e 3 della Costituzione». La stessa Corte ha posto tuttavia in evidenza, in pari tempo, che la Costituzione, pur considerandone favorevolmente la formazione, «non pone una nozione di famiglia inscindibilmente correlata alla presenza di figli» e che, d’altra parte, «[l]a libertà e volontarietà dell’atto che consente di diventare genitori […] di sicuro non implica che la libertà in esame possa esplicarsi senza limiti» (sentenza n. 162 del 2014). Essa dev’essere, infatti, bilanciata con altri interessi costituzionalmente protetti: e ciò particolarmente quando si discuta della scelta di ricorrere a tecniche di PMA, le quali, alterando le dinamiche naturalistiche del processo di generazione degli individui, aprono scenari affatto innovativi rispetto ai paradigmi della genitorialità e della famiglia storicamente radicati nella cultura sociale, attorno ai quali è evidentemente costruita la disciplina degli artt. 29, 30 e 31 Cost., suscitando inevitabilmente, con ciò, delicati interrogativi di ordine etico.
In accordo con quanto si è posto in evidenza in principio, il compito di ponderare gli interessi in gioco e di trovare un punto di equilibrio fra le diverse istanze – tenendo conto degli orientamenti maggiormente diffusi nel tessuto sociale, nel singolo momento storico – deve ritenersi affidato in via primaria al legislatore, quale interprete della collettività nazionale, salvo il successivo sindacato sulle soluzioni adottate da parte della Corte, onde verificare che esse non decampino dall’alveo della ragionevolezza. Nella specie, peraltro, la scelta espressa dalle disposizioni censurate si rivela non eccedente il margine di discrezionalità del quale il legislatore fruisce in subiecta materia, pur rimanendo quest’ultima aperta a soluzioni di segno diverso, in parallelo all’evolversi dell’apprezzamento sociale della fenomenologia considerata.
Di certo, non può considerarsi irrazionale e ingiustificata, in termini generali, la preoccupazione legislativa di garantire, a fronte delle nuove tecniche procreative, il rispetto delle condizioni ritenute migliori per lo sviluppo della personalità del nuovo nato. In questa prospettiva, l’idea, sottesa alla disciplina in esame, che una famiglia ad instar naturae – due genitori, di sesso diverso, entrambi viventi e in età potenzialmente fertile – rappresenti, in linea di principio, il “luogo” più idoneo per accogliere e crescere il nuovo nato non può essere considerata, a sua volta, di per sé arbitraria o irrazionale. E ciò a prescindere dalla capacità della donna sola, della coppia omosessuale e della coppia eterosessuale in età avanzata di svolgere validamente anch’esse, all’occorrenza, le funzioni genitoriali.
Nell’esigere, in particolare, per l’accesso alla PMA, la diversità di sesso dei componenti della coppia – condizione peraltro chiaramente presupposta dalla disciplina costituzionale della famiglia – il legislatore ha tenuto conto, d’altronde, anche del grado di accettazione del fenomeno della cosiddetta “omogenitorialità” nell’ambito della comunità sociale, ritenendo che, all’epoca del varo della legge, non potesse registrarsi un sufficiente consenso sul punto.
La validità delle conclusioni ora esposte non è inficiata dai più recenti orientamenti della giurisprudenza comune sui temi dell’adozione di minori da parte di coppie omosessuali e del riconoscimento in Italia di atti formati all’estero, dichiarativi del rapporto di filiazione in confronto a genitori dello stesso sesso: orientamenti ai quali fanno ampi richiami i giudici a quibus e le parti costituite.
La giurisprudenza predominante ritiene, in effetti, ammissibile l’adozione cosiddetta non legittimante in favore del partner dello stesso sesso del genitore biologico del minore, ai sensi dell’art. 44, comma 1, lettera d), della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia). In questa chiave, si esclude che una valutazione negativa circa la sussistenza del requisito dell’interesse del minore possa fondarsi esclusivamente sull’orientamento sessuale del richiedente l’adozione e del relativo partner, non incidendo l’orientamento sessuale della coppia sull’idoneità dell’individuo all’assunzione della responsabilità genitoriale (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 22 giugno 2016, n. 12962).
La stessa Corte di cassazione ha ritenuto, per altro verso, possibile la trascrizione, nel registro dello stato civile in Italia, di un atto straniero dal quale risulti la nascita di un figlio da due donne, a seguito della medesima tecnica di procreazione assistita – comunemente nota come ROPA (Reception of Oocytes from Partner) – che intenderebbero praticare le due ricorrenti nel giudizio pendente davanti al Tribunale di Bolzano (donazione dell’ovulo da parte della prima e conduzione della gravidanza da parte della seconda con utilizzo di un gamete maschile di un terzo). Nell’escludere che la trascrizione si ponga in contrasto con l’ordine pubblico interno, il giudice di legittimità ha rilevato, da un lato, che non è configurabile un divieto costituzionale, per le coppie omosessuali, di accogliere e anche generare figli; dall’altro, che non esistono neppure certezze scientifiche o dati di esperienza in ordine al fatto che l’inserimento del figlio in una famiglia formata da una coppia omosessuale abbia ripercussioni negative sul piano educativo e dello sviluppo della personalità del minore, dovendo la dannosità di tale inserimento essere dimostrata in concreto (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 30 settembre 2016, n. 19599).
In termini analoghi la Corte di cassazione si era, peraltro, già espressa con riguardo all’affidamento del minore nato da una precedente relazione eterosessuale, dopo la manifestazione dell’omosessualità della madre e l’instaurazione, da parte sua, della convivenza con altra donna (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 11 gennaio 2013, n. 601).
Tutto ciò, come detto, non esclude la validità delle conclusioni dianzi raggiunte. Vi è, infatti, una differenza essenziale tra l’adozione e la PMA. L’adozione presuppone l’esistenza in vita dell’adottando: essa non serve per dare un figlio a una coppia, ma precipuamente per dare una famiglia al minore che ne è privo. Nel caso dell’adozione, dunque, il minore è già nato ed emerge come specialmente meritevole di tutela – così nella circoscritta ipotesi di adozione non legittimante ritenuta applicabile alla coppia omosessuale – l’interesse del minore stesso a mantenere relazioni affettive già di fatto instaurate e consolidate: interesse che – in base al ricordato indirizzo giurisprudenziale – va verificato in concreto (così come, del resto, per l’affidamento del minore nato da una precedente relazione eterosessuale).
La PMA, di contro, serve a dare un figlio non ancora venuto ad esistenza a una coppia (o a un singolo), realizzandone le aspirazioni genitoriali. Il bambino, quindi, deve ancora nascere: non è, perciò, irragionevole – come si è detto – che il legislatore si preoccupi di garantirgli quelle che, secondo la propria valutazione e alla luce degli apprezzamenti correnti nella comunità sociale, appaiono, in astratto, come le migliori condizioni “di partenza”.
Per quel che attiene, poi, alla denunciata violazione dell’art. 3 Cost., si è già posta precedentemente in evidenza l’insussistenza di quella legata a una pretesa discriminazione fondata sull’orientamento sessuale. Ma altrettanto deve dirsi anche quanto all’ulteriore censura, formulata dal solo Tribunale di Pordenone, secondo la quale la normativa in esame darebbe luogo a una ingiustificata disparità di trattamento in base alle capacità economiche, facendo sì che l’aspirazione alla genitorialità possa essere realizzata da quelle sole, tra le coppie omosessuali, che siano in grado di sostenere i costi per sottoporsi alle pratiche di PMA in uno dei Paesi esteri che lo consentono.
In assenza di altri vulnera costituzionali, il solo fatto che un divieto possa essere eluso recandosi all’estero non può costituire una valida ragione per dubitare della relativa conformità a Costituzione. La circostanza che esista una differenza tra la normativa italiana e le molteplici normative mondiali è un fatto che l’ordinamento non può tenere in considerazione. Diversamente opinando, la disciplina interna dovrebbe essere sempre allineata, per evitare una lesione del principio di eguaglianza, alla più permissiva tra le legislazioni estere che regolano la stessa materia.
Inoltre, non è violato l’art. 31, secondo comma, Cost., il quale riguarda la maternità e non l’aspirazione a diventare genitore.
Neppure è ravvisabile – chiosa ancora la Corte – la violazione dell’art. 32, primo comma, Cost., prospettata dal Tribunale di Pordenone sull’assunto che l’impossibilità di formare una famiglia con figli assieme al proprio partner dello stesso sesso sarebbe suscettibile di incidere negativamente, anche in modo rilevante, sulla salute psicofisica della coppia. La tutela costituzionale della «salute» non può essere estesa fino a imporre la soddisfazione di qualsiasi aspirazione soggettiva o bisogno che una coppia (o anche un individuo) reputi essenziale, così da rendere incompatibile con l’evocato parametro ogni ostacolo normativo frapposto alla sua realizzazione. La contraria affermazione che pure si rinviene nella sentenza n. 162 del 2014 – richiamata dal rimettente – deve intendersi calibrata sulla specifica fattispecie alla quale la pronuncia si riferisce (la coppia eterosessuale cui sia stata diagnosticata una patologia produttiva di infertilità o sterilità assolute e irreversibili). Se così non fosse, sarebbero destinate a cadere automaticamente, in quanto frustranti il desiderio di genitorialità, non solo la limitazione oggi in esame, ma tutte le altre limitazioni all’accesso alla PMA poste dall’art. 5, comma 1, della legge n. 40 del 2004: limitazioni che la stessa sentenza n. 162 del 2014 ha, per converso, specificamente richiamato anche in rapporto alla fecondazione eterologa.
Il Tribunale di Bolzano ha denunciato la violazione dell’art. 32, primo comma, Cost. sotto un diverso e più specifico profilo, che riflette le peculiarità della vicenda concreta sottoposta al relativo esame, nella quale – come già più volte ricordato – entrambe le ricorrenti, parti di una unione civile, risultano affette da patologie che le rendono incapaci di procreare naturalmente: una perché non produce ovociti; l’altra perché non in grado di portare a termine una gravidanza senza grave rischio.
Secondo il Tribunale rimettente, il divieto censurato si porrebbe in contrasto con la tutela costituzionale del diritto alla salute, in quanto impedirebbe alle componenti di una coppia di persone dello stesso sesso di superare le loro patologie riproduttive, tramite l’utilizzazione complementare delle potenzialità riproduttive rispettive (gestazionale dell’una, di produzione ovarica dell’altra): ciò in contrasto con lo stesso scopo lato sensu terapeutico che la legge n. 40 del 2004 assegna alla PMA.
Al riguardo, occorre rilevare che la censura – ove fondata – non giustificherebbe la pronuncia richiesta dal giudice a quo: ossia l’eliminazione tout court del requisito della diversità di sesso dal novero delle condizioni di accesso alle tecniche di PMA. Tale requisito dovrebbe essere rimosso, per converso, esclusivamente nel caso in cui fosse riscontrabile l’esigenza “terapeutica” alla quale fa riferimento il rimettente: ossia quando le componenti della coppia omosessuale femminile versino in condizioni obiettive di infertilità per ragioni patologiche. L’assetto che scaturirebbe da un simile intervento – pure teoricamente praticabile in questa sede, tramite una “resezione” del petitum – sarebbe, peraltro, palesemente insostenibile. Nell’ambito delle coppie omosessuali femminili, potrebbero accedere alla PMA – e dunque realizzare il desiderio della genitorialità – solo quelle le cui componenti non siano in grado di procreare in modo naturale. Tale rilievo disvela il vizio di prospettiva che inficia l’argomento posto in campo dal rimettente. La presenza di patologie riproduttive è un dato significativo nell’ambito della coppia eterosessuale, in quanto fa venir meno la normale fertilità di tale coppia. Rappresenta invece una variabile irrilevante – ai fini che qui interessano – nell’ambito della coppia omosessuale, la quale sarebbe infertile in ogni caso.
L’art. 11 Cost. – richiamato dal Tribunale ordinario di Bolzano (peraltro solo in dispositivo) con riferimento tanto agli artt. 8 e 14 CEDU, quanto a varie disposizioni del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici del 19 dicembre 1966, e della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità del 13 dicembre 2006 – è per la Corte un parametro inconferente, posto che dalle indicate convenzioni internazionali non derivano limitazioni di sovranità nei confronti dello Stato italiano (ex plurimis, con particolare riguardo alla CEDU, sentenze n. 22 del 2018, n. 210 del 2013 e n. 349 del 2007).
Va esclusa, infine, la dedotta violazione dell’art. 117, primo comma, Cost. in relazione a tutte le disposizioni sovranazionali evocate dai giudici a quibus.
Quanto al contrasto – denunciato da entrambi i rimettenti – con gli artt. 8 e 14 CEDU (in tema di diritto al rispetto della vita privata e familiare e di divieto di discriminazione), è ben vero che, a partire dalla sentenza 24 giugno 2010, Schalk e Kopf contro Austria, la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo è costante nell’affermare che alla coppia omosessuale compete il diritto al rispetto della vita, non solo privata, ma anche familiare, al pari della coppia di sesso opposto che si trovi nella stessa situazione. Essa costituisce, pertanto, una «famiglia», anche agli effetti del divieto di discriminazione (pur rimanendo affidate all’apprezzamento dei singoli Stati le modalità della relativa tutela, che non deve necessariamente aver luogo tramite l’estensione dell’istituto del matrimonio) (ex plurimis, sentenze 14 dicembre 2017, Orlandi e altri contro Italia; 21 luglio 2015, Oliari e altri contro Italia). Principio, questo, del quale è stata fatta specifica applicazione anche in tema di adozione dei minori (Grande Camera, sentenza 19 febbraio 2013, X e altri contro Austria).
La Corte di Strasburgo ha pure affermato, per altro verso, che il concetto di «vita privata», di cui all’art. 8 CEDU, comprende il diritto all’autodeterminazione e, dunque, anche il diritto al rispetto della decisione di diventare genitore e su come diventarlo (in modo naturale, tramite fecondazione assistita, mediante procedura di adozione, ecc.). La scelta di ricorrere alla PMA ricade, pertanto, nel relativo ambito di tutela, con la conseguenza che le ingerenze in essa da parte della pubblica autorità debbono rispondere alle finalità indicate dal paragrafo 2 dello stesso art. 8 e risultare proporzionate allo scopo (sentenze 16 gennaio 2018, Nedescu contro Romania; Grande Camera, 27 agosto 2015, Parrillo contro Italia; 2 ottobre 2012, Knecht contro Romania; 28 agosto 2012, Costa e Pavan contro Italia; Grande Camera, 3 novembre 2011, S.H. e altri contro Austria).
E, però, si è già ricordato come la stessa Corte di Strasburgo abbia escluso che una legge nazionale che riservi la PMA a coppie eterosessuali sterili, assegnandole una finalità terapeutica, possa dar luogo a una disparità di trattamento, rilevante agli effetti degli artt. 8 e 14 CEDU, nei confronti delle coppie omosessuali, stante la non equiparabilità delle rispettive situazioni (sentenza 15 marzo 2012, Gas e Dubois contro Francia).
Si è del pari ricordato come, secondo la Corte europea, nella disciplina della fecondazione medicalmente assistita – la quale suscita delicati problemi di ordine etico e morale – gli Stati fruiscano di un ampio margine di apprezzamento, particolarmente quanto ai profili sui quali non si riscontri un generale consenso a livello europeo: prospettiva nella quale essa ha ritenuto non incompatibile con la CEDU il divieto di fecondazione eterologa previsto dalla legislazione austriaca (Grande camera, sentenza 3 novembre 2011, S. H. contro Austria, che ha ribaltato la conclusione cui era giunta la prima sezione della Corte con la sentenza 1° aprile 2010, S. H. contro Austria).
In tale ottica, possono dunque valere anche in rapporto ai parametri convenzionali evocati le considerazioni precedentemente svolte onde escludere l’ipotizzata violazione del diritto alla procreazione costituzionalmente garantito.
Quanto osservato in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU può essere evidentemente esteso alle corrispondenti disposizioni – richiamate dal solo Tribunale di Bolzano – del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, in tema di divieto di discriminazione e diritto al rispetto della vita privata e familiare (artt. 2, paragrafo 1, 17, 23 e 26). Per quel che attiene, da ultimo, alle previsioni – invocate anch’esse dal solo Tribunale di Bolzano – della Convenzione di New York sui diritti delle persone con disabilità (artt. 5, 6, 22, paragrafo 1, 23, paragrafo 1, e 25, in tema, rispettivamente, di eguaglianza e non discriminazione, donne con disabilità, rispetto della vita privata, rispetto della famiglia e tutela della salute), può ripetersi quanto già osservato con riferimento alla censura di violazione del diritto alla salute, formulata dallo stesso Tribunale (supra, punto 17 del Considerato in diritto). È evidente, infatti, che le coppie omosessuali femminili non possono essere ritenute, in quanto tali, «disabili».
Alla luce delle considerazioni svolte, le questioni vanno per la Corte dichiarate non fondate.
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L’11 novembre 2019 esce l’ordinanza interlocutoria della I sezione della Cassazione n. 29071 che ha rimesso gli atti al Primo Presidente, che li ha a sua volta assegnati alle Sezioni Unite, ai sensi dell’art. 374, comma 2, c.p.c., ponendosi, nella specie, due questioni di massima di particolare importanza sul tema dei rapporti tra l’adozione legittimante dichiarata all’estero in favore di una coppia dello stesso sesso e l’ordine pubblico internazionale: la questione della compatibilità con l’ordine pubblico di un provvedimento straniero che riconosca l’adozione c.d. legittimante in favore di una coppia dello stesso sesso (compatibilità della quale si dubita, nell’ordinanza di rimessione, opinandosi che l’ordinamento interno manifesti un atteggiamento di tendenziale disvalore rispetto a tale estensione) e la questione della compatibilità con l’ordine pubblico di un provvedimento di adozione legittimante – di cui si chiede la trascrizione – equiparabile a quello adottato negli Stati Uniti e fondato sul solo consenso preventivo dei genitori biologici, in assenza di qualsivoglia valutazione dell’autorità giudiziaria sullo stato di adottabilità del minore. In particolare, quanto alla prima questione, si legge nell’ordinanza di rimessione che il ritenuto disvalore sarebbe ricavabile da un triplice ordine di considerazioni: a) quella derivante da una esplicita previsione normativa (art. 6, l. n. 184 del 1983), che prevede la possibilità dell’adozione legittimante soltanto in favore dei coniugi uniti in matrimonio; b) quella conseguente all’applicazione di un’altra norma, più recente (l’art. 1, comma 20, della l. n. 76 del 2016) che espressamente esclude l’equiparabilità tra “coniuge” e parte di un’unione civile ai fini dell’applicazione della l. n. 184 del 1983; c) quella scaturente dal diritto vivente, che, in tema di adozione da parte di coppie omosessuali, ha ritenuto applicabile l’istituto dell’adozione particolare di cui all’art. 44, comma 1, lett. d), della l. n. 184 del 1983 (Cass. 22 giugno 2016, n. 12962; Cass., SS.UU., 8 maggio 2019, n. 12193; Corte cost. 18 dicembre 2017, n. 272). Va peraltro osservato come altra parte della giurisprudenza, tanto di merito quanto di legittimità, si sia espressa nel senso della ammissibilità dell’adozione del figlio del partner nelle coppie omosessuali proprio in applicazione dell’istituto dell’adozione speciale ex art. 44, comma 1, lett. d), della l. n. 183 del 1984.
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L’11 dicembre esce l’ordinanza della I sezione della Cassazione n.32412 in tema di decadenza dalla responsabilità genitoriale e di connessa declaratoria di adottabilità di un minore.
La Corte premette di avere costantemente ribadito come il giudice di merito, nell’accertare lo stato di adottabilità di un minore, debba in primo luogo esprimere una prognosi sull’effettiva ed attuale possibilità di recupero, attraverso un percorso di crescita e sviluppo, delle capacità e competenze genitoriali, con riferimento, in primo luogo, alla elaborazione, da parte dei genitori, di un progetto, anche futuro, di assunzione diretta della responsabilità genitoriale, caratterizzata da cura, accudimento, coabitazione con il minore, ancorché con l’aiuto di parenti o di terzi, ed avvalendosi dell’intervento dei servizi territoriali (Cass. n. 14436/2017).
Il diritto del minore di crescere nell’ambito della propria famiglia d’origine, considerata l’ambiente più idoneo al relativo, armonico sviluppo psicofisico, è tutelato dalla L. n. 184 del 1983, art. 1 ragione questa per cui il giudice di merito deve, prioritariamente, tentare un intervento di sostegno diretto a rimuovere situazioni di difficoltà o disagio familiare e, solo quando, a seguito del fallimento del tentativo, risulti impossibile prevedere il recupero delle capacità genitoriali entro tempi compatibili con la necessità del minore di vivere in uno stabile contesto familiare, è legittima la dichiarazione dello stato di adottabilità (Cass. 22589/2017; Cass. 6137/2015).
Ne consegue per il Collegio che, per un verso, compito del servizio sociale incaricato non è solo quello di rilevare le insufficienze in atto del nucleo familiare, ma, soprattutto, di concorrere, con interventi di sostegno, a rimuoverle, ove possibile, e che, per altro verso, ricorre la “situazione di abbandono” sia in caso di rifiuto ostinato a collaborare con i servizi predetti, sia qualora, a prescindere dagli intendimenti dei genitori, la vita da loro offerta al figlio sia inadeguata al relativo normale sviluppo psico-fisico, cosicché la rescissione del legame familiare è l’unico strumento che possa evitargli un più grave pregiudizio ed assicurargli assistenza e stabilità affettiva (Cass. 7115/2011).
Il giudizio sulla situazione di abbandono – chiosa ancora la Corte – deve fondarsi su una valutazione quanto più possibile legata all’attualità, considerato il versante prognostico. Il parametro, che ci perviene anche dai principi elaborati dalla Corte di Strasburgo (cfr. in particolare la sentenza del 13/10/2015 – caso S.H. contro Italia), è divenuto un principio fermo anche nella giurisprudenza di legittimità, come può rilevarsi dalla pronuncia n. 24445 del 2015: “In tema di adozione del minore, il giudice, nella valutazione della situazione di abbandono, quale presupposto per la dichiarazione dello stato di adottabilità, deve fondare il suo convincimento effettuando un riscontro attuale e concreto, basato su indagini ed approfondimenti riferiti alla situazione presente e non passata, tenendo conto della positiva volontà di recupero del rapporto genitoriale da parte dei genitori“.
Solo un’indagine sulla persistenza e non solo sulla preesistenza della situazione di abbandono, svolta sulla base di un giudizio attuale, in particolare quando vi siano indizi di modificazioni significative di comportamenti e di assunzione d’impegni e responsabilità da parte dei genitori biologici, può condurre ad una corretta valutazione del parametro contenuto nella L. n. 184 del 1983, art. 8 dovendosi tenere conto del diritto del minore a vivere nella propria famiglia di origine, così come indicato nell’art. 1 della L. n. 184 del 1983 (Cass. 22934/2017).
In particolare, la norma, anche alla luce della progressiva elaborazione compiuta dalla giurisprudenza di legittimità e dai principi introdotti dalla Corte Europea dei diritti umani, fissa rigorosamente il perimetro all’interno del quale deve essere verificata la sussistenza della condizione di abbandono. Si deve trattare di una situazione non derivante esclusivamente da condizioni di emarginazione socio economica (disponendo l’art. 1 che siano intraprese iniziative di sostegno nel tempo della famiglia di origine), fondata su un giudizio d’impossibilità morale o materiale caratterizzato da stabilità ed immodificabilità, quanto meno in un tempo compatibile con le esigenze di sviluppo psicofisico armonico ed adeguato del minore, non dovuta a forza maggiore o a un evento originario derivante da cause non imputabili ai genitori biologici (cfr. sentenza Cedu Akinnibuson contro Italia del 16/7/2015), non determinata soltanto da comportamenti patologici ma dalla verifica del concreto pregiudizio per il minore (Cass. 7193 del 2016).
Da ultimo, il Collegio ha chiarito che “in tema di adozione di minori d’età, sussiste la situazione d’abbandono, non solo nei casi di rifiuto intenzionale dell’adempimento dei doveri genitoriali, ma anche qualora la situazione familiare sia tale da compromettere in modo grave e irreversibile un armonico sviluppo psico-fisico del bambino, considerato in concreto, ossia in relazione al suo vissuto, alle sue caratteristiche fisiche e psicologiche, alla sua età, al suo grado di sviluppo e alle sue potenzialità; ne consegue l’irrilevanza della mera espressione di volontà dei genitori di accudire il minore in assenza di concreti riscontri” (Cass. 4097/2018; conf. Cass. 26624/2018, in ordine alla irrilevanza della disponibilità, meramente dichiarata, a prendersi cura dei figli minori, che non si concretizzi in atti o comportamenti giudizialmente controllabili, tali da escludere la possibilità di un successivo abbandono).
In tema di accertamento dello stato di adottabilità, posto che il ricorso alla dichiarazione di adottabilità costituisce solo una “soluzione estrema“, il giudice di merito deve dunque operare un giudizio prognostico teso, in primo luogo, a verificare l’effettiva ed attuale possibilità di recupero delle capacità e competenze genitoriali, con riferimento sia alle condizioni di lavoro, reddituali ed abitative, senza però che esse assumano valenza discriminatoria, sia a quelle psichiche, da valutarsi, se del caso, mediante specifica indagine peritale, estendendo detta verifica anche al nucleo familiare, di cui occorre accertare la concreta possibilità di supportare i genitori e di sviluppare rapporti con il minore, avvalendosi dell’intervento dei servizi territoriali (Cass. 7559/2018).
Ora, chiosa ancora la Corte, nel caso di specie la Corte d’Appello ha esaminato la capacità genitoriale della madre (non essendo in discussione l’assenza della figura paterna, che non ha riconosciuto il minore) ed ha formulato un giudizio negativo sulla capacità della stessa di recupero del rapporto genitoriale, sulla base di una serie di elementi comportamentali emersi da una complessa istruttoria (essenzialmente sulla base di una consulenza tecnica neuropsichiatrica e dall’audizione delle educatrici della casa-famiglia ove il minore è stato accolto). Emerge che il minore al momento dell’ingresso nella casa-famiglia è stato trovato affetto da gravi difficoltà di linguaggio, segno inequivoco di un inidoneo sviluppo psico-fisico, dovute a molteplici fattori. La madre, dal 2015, ha avuto solo sporadici incontri con il bambino, il quale ha difficoltà a riconoscerla nel ruolo di madre.
Non rileva la semplice volontà della madre di prendersi cura dei figli, in assenza di adeguati riscontri. La Corte rammenta di avere anche recente affermato (Cass. 4097/2018) che “in tema di adozione di minori d’età, sussiste la situazione d’abbandono, non solo nei casi di rifiuto intenzionale dell’adempimento dei doveri genitoriali, ma anche qualora la situazione familiare sia tale da compromettere in modo grave e irreversibile un armonico sviluppo psico-fisico del bambino, considerato in concreto, ossia in relazione al suo vissuto, alle sue caratteristiche fisiche e psicologiche, alla sua età, al suo grado di sviluppo e alle sue potenzialità; ne consegue l’irrilevanza della mera espressione di volontà dei genitori di accudire il minore in assenza di concreti riscontri” (nella specie la Corte, confermando la sentenza di appello, ha ritenuto la persistenza di una situazione di abbandono, a fronte di un impegno, solo enunciato dai genitori,di rimuovere le problematiche esistenziali e di mutare lo stile di vita).
La sentenza di appello sviluppa adeguate e convincenti argomentazioni sull’inidoneità della madre, sull’impossibilità del recupero in tempi ragionevoli della situazione, spiegando dunque per quale ragione l’adozione, nella specie, costituirebbe l’unico strumento utile ad evitare ai minori un più grave pregiudizio ed ad assicurare loro assistenza e stabilità affettiva; risulta dunque effettuato un corretto giudizio prognostico volto a verificare l’effettiva ed attuale possibilità di recupero delle capacità e competenze genitoriali, con riferimento sia alle condizioni di lavoro, reddituali ed abitative, sia a quelle psichiche.
2020
Il 16 gennaio esce l’ordinanza della VI sezione della Cassazione n. 772 secondo la quale, in assenza di comportamenti pregiudizievoli del padre biologico, è interesse del minore assumerne il cognome, postponendolo a quello della madre, genitore che lo ha riconosciuto per primo.
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Il 24 gennaio esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n. 1668 che, in caso di sospensione della responsabilità genitoriale, stabilisce l’impugnabilità del decreto emesso dal Tribunale per i minorenni, in quanto incidente su diritti di natura personalissima e di primario rango costituzionale.
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Sempre il 24 gennaio esce l’ordinanza della I sezione della Cassazione n.1667 alla cui stregua la sentenza impugnata nel caso di specie ha correttamente attribuito natura decadenziale al termine previsto dall’art. 270 c.c., comma 2, in conformità del dettato di tale disposizione, che, nel disciplinare la dichiarazione di paternità, distingue l’azione proposta dal figlio, dichiarata imprescrittibile dal comma 1, da quella proposta dai discendenti dello stesso, assoggettata al predetto termine (decadenziale), decorrente dalla morte del figlio (cfr. Cass., Sez. I, 21/09/2001, n. 11934).
Per la Corte non può condividersi la tesi che pretende di distinguere tra l’indisponibilità del diritto all’accertamento della paternità e la rinunciabilità del termine di decadenza previsto per la relativa azione, trovando applicazione l’art. 2698 c.c., ai sensi del quale, ove la decadenza sia stabilita dalla legge in materia sottratta alla disponibilità delle parti, come quella riguardante lo stato delle persone, le stesse non possono rinunziarvi; anche poi a voler attribuire al termine in questione natura prescrizionale, l’indisponibilità dello status di figlio escluderebbe la possibilità di ravvisare una valida rinuncia nelle dichiarazioni rese dal convenuto in epoca anteriore all’instaurazione del giudizio, trovando applicazione l’art. 2937 c.c., comma 1, che non consente di rinunziare alla prescrizione a chi non può disporre validamente del diritto.
Per il Collegio è peraltro manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 270 c.c., nella parte in cui, assoggettando l’azione dei discendenti ad un brevissimo termine di decadenza, comporterebbe un’ingiustificata disparità di trattamento rispetto al figlio, la cui azione risulta invece sottratta a qualsiasi termine di prescrizione o decadenza; come già affermato dalla Corte medesima, la diversità della disciplina dettata dall’art. 270, primi due commi, trova giustificazione nell’evidente disomogeneità delle situazioni dagli stessi considerate, giacché l’imprescrittibilità dell’azione riguardo al figlio tutela l’interesse del medesimo al riconoscimento della propria filiazione, interesse che resta integro anche nell’ipotesi di decesso del presunto genitore, mentre il termine decadenziale previsto per l’azione promossa dai discendenti del presunto figlio è giustificato dal fatto che essi sono portatori di un interesse non diretto, ma solo riflesso al riconoscimento della filiazione del loro ascendente (cfr. Cass., Sez. I, 21/ 09/2001, n. 11934).
Inoltre, a differenza di quanto accade per i discendenti, il diritto al riconoscimento di uno status filiale corrispondente alla verità biologica costituisce per il figlio una componente essenziale del diritto all’identità personale, riconducibile all’art. 2 Cost. ed all’art. 8 della CEDU, che accompagna la vita individuale e relazionale, e l’incertezza su tale status può determinare una condizione di disagio ed un vulnus allo sviluppo adeguato ed alla formazione della personalità (cfr. Cass., Sez. I, 29/11/2016, n. 24292).
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Il 30 gennaio esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n. 2073 onde, ai sensi dell’art. 38 disp. att. c.c., vigente ratione temporis, competente all’emanazione dei provvedimenti di cui agli artt. 330 e ss. c.c., limitativi della responsabilità genitoriale, è il Tribunale ordinario presso il quale è pendente il giudizio di separazione.
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Il 13 febbraio esce l’ordinanza della I sezione della Cassazione n. 3643 secondo la quale l’adozione legittimante costituisce l’extrema ratio a cui si deve pervenire quando non si ravvisi alcun interesse per il minore di conservare una relazione con i genitori biologici, attesa la condizione di abbandono materiale e morale nella quale si verrebbe trovare a vivere.
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Il 25 febbraio esce l’ordinanza della I sezione della Cassazione n. 4791 alla cui stregua, in tema di accertamento dello stato di figlio, è necessario operare un bilanciamento tra l’interesse alla verità della procreazione e l’interesse concreto del bambino, non potendosi predicare in termini assoluti l’equazione “verità naturale” – “interesse del minore”.
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Il 3 aprile esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 7667 secondo la quale, in materia di adozione di maggiorenne, il giudice, nell’applicare la norma che contempla il divario minimo di età di 18 anni tra l’adottante e l’adottato, deve procedere ad un’interpretazione costituzionalmente compatibile dell’art. 291 c.c., al fine di evitare il contrasto con l’art. 30 Cost, alla luce della sua lettura da parte della giurisprudenza costituzionale e in relazione all’art. 8 CEDU. In particolare, secondo la Suprema Corte, occorre adottare una rivisitazione storico-sistematica dell’istituto, che, avuto riguardo alle circostanze del singolo caso in esame, consenta una ragionevole riduzione di tale divario di età, al fine di tutelare le situazioni familiari consolidatesi da lungo tempo e fondate su una comprovata affectio familiaris.
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Sempre il 3 aprile esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 7668 che, in un caso di procreazione medicalmente assistita eseguita all’estero con nascita di una bambina avvenuta in Italia, respinge la richiesta avanzata da due donne di vedersi indicate entrambe come madri, l’una come genitrice biologica e l’altra come genitrice intenzionale, in virtù del divieto per le coppie formate da persone «di sesso diverso» di accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita (PMA) cui possono accedere solo le «coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi» (art. 5 della legge n. 40 del 2004), rafforzato dalla previsione di sanzioni amministrative a carico di chi le applica a coppie «composte da soggetti dello stesso sesso» (art. 12, comma 2). Secondo la Suprema Corte, tale divieto – desumibile anche da altre disposizioni (cfr. dPR n. 396 del 2000, art. 30, comma 1; dPR 17 luglio 2015, art. 1, comma 1, lett. c, che ha sostituito l’art. 7, comma 1, lett. a, del dPR 30 maggio 1989, n. 223) che implicitamente postulano che una sola persona abbia diritto di essere menzionata come madre nell’atto di nascita, in virtù di un rapporto di filiazione che presuppone il legame biologico e/o genetico con il nato – è attualmente vigente all’interno dell’ordinamento italiano e, dunque, applicabile agli atti di nascita formati o da formare in Italia, a prescindere dal luogo dove sia avvenuta la pratica fecondativa.
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Il 22 aprile esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.8029, che – sul crinale della filiazione – nega ad una coppia omosessuale, composta da due madri unite in unione civile, la possibilità di riconoscere congiuntamente il figlio nato in Italia ma precedentemente concepito all’estero tramite il ricorso alla procreazione medicalmente assistita eterologa, portata avanti con l’apporto biologico di una sola delle due donne ma con il consenso dell’altra, in quanto in contrasto con le previsioni dell’art. 4 della legge n. 40/2004.
La Corte premette che l’eccesso di potere giurisdizionale per invasione della sfera di attribuzioni riservata al legislatore ricorre, secondo la giurisprudenza di legittimità, soltanto nel caso in cui il giudice non si sia limitato ad applicare una norma giuridica esistente, ma ne abbia creata una nuova, in tal modo esercitando un’attività di produzione normativa estranea alla relativa competenza.
Tale vizio non è ravvisabile per la Corte nel decreto impugnato che, nel dichiarare ammissibile il riconoscimento di un minore nato da una donna unita civilmente ad un’altra donna come figlio naturale di entrambe, nonostante l’assenza di un legame biologico con una di esse, ha fornito, a sostegno di tale conclusione, un’interpretazione costituzionalmente orientata della L. n. 40 del 2004, secondo cui la violazione del divieto di applicare tecniche di procreazione medicalmente assistita alle coppie omosessuali non comporta l’esclusione di ogni rapporto tra il minore ed il convivente del genitore che abbia prestato il proprio consenso all’utilizzazione delle predette tecniche, dovendosi ritenere prevalenti l’interesse del minore al riconoscimento dello status filiationis ed il relativo diritto alla bigenitorialità, realizzabile anche nello ambito delle unioni omosessuali, quali formazioni sociali idonee a consentire il libero sviluppo della personalità umana.
In quanto ancorato a precisi indici normativi e puntuali richiami giurisprudenziali, tale percorso argomentativo, indipendentemente dalla relativa condivisibilità, consente di escludere che la Corte d’appello abbia ecceduto nel caso di specie i limiti del proprio potere giurisdizionale, risultando piuttosto difficile distinguere, nell’ambito del predetto ragionamento, gli aspetti prettamente interpretativi da quelli eventualmente creativi, la cui estraneità all’esercizio della giurisdizione dev’essere peraltro valutata anche alla luce del margine di creatività intrinsecamente proprio dell’attività ermeneutica: è noto d’altronde che alla figura dell’eccesso di potere per sconfinamento nella sfera di attribuzioni del legislatore la Corte ha riconosciuto una portata eminentemente teorica ed astratta, escludendone la configurabilità allorquando, come nella specie, il giudice si sia attenuto al compito interpretativo che gli è proprio, ricercando la regula juris applicabile al caso concreto attraverso la ricostruzione della voluntas legis, anche se la stessa non sia stata desunta dal tenore letterale delle singole disposizioni, ma dal loro coordinamento sistematico, in quanto tale operazione non può tradursi nella violazione dei limiti esterni della giurisdizione, ma può dar luogo, al più, ad un error in judicando (cfr. Cass., Sez. Un., 27/06/2018, n. 16974; 12/12/2012, n. 22784; 28/01/2011, n. 2068).
Procedendo nel proprio iter motivazionale, per la Corte è opportuno premettere che nella fattispecie in esame non possono trovare applicazione i principi enunciati in una recente sentenza, con cui le Sezioni Unite hanno dichiarato inammissibile il riconoscimento dell’efficacia nel nostro ordinamento di un provvedimento giurisdizionale straniero avente ad oggetto l’accertamento del rapporto di filiazione tra un minore nato all’estero mediante il ricorso alla maternità surrogata ed il genitore intenzionale cittadino italiano, affermando che tale riconoscimento trova ostacolo nel divieto della surrogazione di maternità previsto dalla L. n. 40 del 2004, art. 12, comma 6, qualificabile come principio di ordine pubblico, in quanto posto a tutela di valori fondamentali, quali la dignità umana della gestante e l’istituto dell’adozione (cfr. Cass., Sez. Un., 8/05/2019, n. 12193).
L’atto di nascita del quale è stata chiesta la rettificazione nel presente giudizio riguarda infatti – rammenta la Corte – un minore in possesso della cittadinanza italiana, in quanto nato in Italia da una donna cittadina italiana, e la modifica richiesta consiste nell’attribuzione della qualità di genitore ad un’altra donna, anch’essa in possesso della cittadinanza italiana, legata da unione civile alla madre del minore: la fattispecie deve ritenersi pertanto assoggettata interamente alla disciplina dell’ordinamento italiano, non presentando alcun elemento di estraneità rispetto allo stesso, tale da giustificare il ricorso alla nozione di ordine pubblico internazionale, per stabilire se nella decisione della controversia possa darsi ingresso a norme o istituti appartenenti ad altri ordinamenti.
Nessun rilievo può assumere, in proposito, la circostanza, risultante dal decreto impugnato, che il minore, pur essendo venuto al mondo in Italia, sia stato concepito in Spagna, a seguito del consenso ivi prestato dalla genitrice intenzionale alla sottoposizione della convivente a tecniche di procreazione medicalmente assistita: ai sensi della L. 31 maggio 1995, n. 218, art. 33, lo stato di figlio è infatti determinato dalla legge nazionale di quest’ultimo, o, se più favorevole, da quella dello Stato di cui uno dei genitori è cittadino al momento della nascita, restando pertanto inifluenti il luogo e le modalità del concepimento.
Non merita dunque accoglimento per la Corte la richiesta di rimessione della causa alle Sezioni Unite, avanzata dal Pubblico Ministero per l’ipotesi in cui la ridetta Corte avesse ritenuto di non dover recepire la nozione di ordine pubblico risultante dalla sentenza citata, al fine di ottenere l’esclusione dell’applicabilità della legge straniera, la cui inoperatività è invece ricollegabile all’applicazione delle norme ordinarie di diritto internazionale privato.
Ciò posto, non può condividersi per il Collegio l’interpretazione della L. n. 40 del 2004, fornita dal decreto impugnato, secondo cui il ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita da parte di coppie dello stesso sesso, in violazione di quanto disposto dall’art. 5, comporterebbe esclusivamente l’irrogazione della sanzione amministrativa comminata dall’art. 12, comma 2, a carico di chi ne abbia fatto applicazione, ma non escluderebbe l’operatività dell’art. 8, in virtù del quale il nato potrebbe acquistare lo stato di figlio riconosciuto non solo del partner che lo ha messo al mondo, ma anche di quello che, pur non avendo fornito alcun apporto biologico, sia stato parte integrante del progetto di assunzione della responsabilità genitoriale, per aver prestato il proprio consenso all’utilizzazione delle predette tecniche.
Lo stesso decreto impugnato pone in risalto le scelte di fondo sottese alla disciplina in esame, consistenti da un lato nell’escludere il ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo e dall’altro nello assoggettare a precisi requisiti soggettivi ed oggettivi l’accesso alle altre tecniche.
Il primo principio, originariamente enunciato in termini assoluti dall’art. 4, ha subito un parziale temperamento per effetto delle sentenze della Corte costituzionale n. 162 del 2014 e n. 96 del 2015, che hanno dichiarato illegittima la predetta disposizione nella parte in cui estendeva il divieto del ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo anche alle coppie alle quali fosse stata diagnosticata una patologia che fosse causa di sterilità o infertilità assolute ed irreversibili ed alle coppie fertili portatrici di gravi malattie genetiche trasmissibili.
Il secondo principio, rimasto invece invariato, trova a propria volta espressione nell’art. 5, il quale consente l’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita soltanto alle coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi, nell’art. 6, il quale subordina l’utilizzazione delle predette tecniche al consenso informato di entrambi i richiedenti, e nell’art. 10, il quale riserva la realizzazione degli interventi in questione alle strutture pubbliche o a strutture private autorizzate.
L’osservanza di tali principi è presidiata dall’art. 12, il quale eleva al rango d’illeciti amministrativi le relative violazioni, prevedendo sanzioni pecuniarie a carico di chiunque, a qualsiasi titolo, utilizzi a finii procreativi gameti di soggetti estranei alla coppia richiedente (comma 1) o applichi tecniche di procreazione medicalmente assistita a coppie prive dei requisiti soggettivi prescritti dall’art. 5 (comma 2) o senza aver raccolto il consenso secondo le modalità prescritte (comma 4) o presso strutture diverse da quelle autorizzate (comma 5), ma escludendo la punibilità dell’uomo o della donna ai quali siano state applicate le tecniche in esame (comma 8).
Il sistema trova poi il proprio completamento nell’art. 8, che attribuisce ai nati lo stato di figli nati nel matrimonio o di figli riconosciuti della coppia che ha espresso la volontà di ricorrere alle predette tecniche, e nell’art. 9, che, oltre a stabilire il divieto dell’anonimato per la madre biologica, esclude, in caso di violazione del divieto di ricorrere a tecniche di tipo eterologo, la facoltà del coniuge o del convivente il cui consenso sia ricavabile da atti concludenti di esercitare l’azione di disconoscimento della paternità o d’impugnare il riconoscimento per difetto di veridicità, precludendo inoltre al donatore dei gameti l’acquisizione di qualsiasi relazione parentale con il nato.
E’ proprio l’esame degli artt. 8 e 9, ritenuto idoneo ad evidenziare la prevalenza dell’interesse del nato ad una genitorialità completa, e quindi al riconoscimento di uno status filiationis corrispondente al complessivo esito dell’evento intenzionale dei genitori, ad aver indotto la Corte territoriale ad affermare che l’illegittimità della condotta dei coniugi o dei conviventi, che abbiano prestato il proprio consenso all’applicazione di tecniche di procreazione medicalmente assistita in assenza dei requisiti oggettivi o soggettivi prescritti dalla legge, non consente di escludere l’instaurazione di un rapporto genitoriale tra il minore messo al mondo da uno di essi e l’altro convivente, pur in assenza di un rapporto biologico tra gli stessi; e tale conclusione è stata ritenuta estensibile anche all’ipotesi in cui la nascita del minore costituisca il risultato dell’applicazione di tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo effettuata su richiesta di una coppia omosessuale, in virtù dell’orientamento ormai prevalente nella coscienza sociale e giuridica, che ravvisa nelle unioni omosessuali formazioni sociali idonee a favorire il libero sviluppo della persona, e del conseguente diritto delle predette coppie a realizzare in tali unioni un progetto di genitorialità condivisa.
La tesi in esame costituisce indubbiamente il portato delle citate pronunce d’incostituzionalità, che, introducendo un limite al divieto assoluto del ricorso a tecniche di tipo eterologo, hanno reso configurabili nel nostro ordinamento ipotesi di genitorialità svincolate da un rapporto biologico con il nato, in tal modo aprendo la strada ad un vivace dibattito dottrinale e giurisprudenziale riguardante la possibilità di riconoscere la sussistenza di un rapporto di filiazione anche nei confronti di coppie che abbiano fatto ricorso alle predette tecniche non perché affette cita sterilità o infertilità patologiche o da malattie genetiche trasmissibili, ma perché fisiologicamente incapaci di generare o per l’età avanzata o per difetto di complementarità biologica dei componenti.
La predetta tematica – prosegue il Collegio – è stata affrontata dalla Corte costituzionale in una recente pronuncia, con la quale, nel dichiarare infondata la questione di legittimità costituzionale della L. n. 40 del 2004, artt. 5 e 12, nella parte in cui precludono alle coppie omosessuali l’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, essa ha precisato la portata ed i limiti dei precedenti interventi, in tal modo pervenendo all’esclusione da un lato della possibilità di ravvisarvi una generalizzata legittimazione del ricorso alle predette tecniche, dall’altro dell’utilizzabilità delle stesse per la soddisfazione delle aspirazioni genitoriali delle coppie omosessuali.
Ha infatti osservato che le sentenze n. 162 del 2014 e n. 96 del 2015, pur avendo comportato un ampliamento del novero dei soggetti abilitati ad accedere alla procreazione medicalmente assistita, hanno lasciato inalterate le coordinate di fondo della predetta legge, costituite dalla configurazione di tali tecniche come rimedio alla sterilità o infertilità umana avente una causa patologica e non altrimenti rimuovibile e dall’intento di garantire che il nucleo familiare scaturente dalla loro applicazione riproduca il modello della famiglia caratterizzata dalla presenza di una madre e di un padre.
Premesso che l’ammissione delle coppie omosessuali alla procreazione medicalmente assistita richiederebbe la sconfessione, sul piano della tenuta costituzionale, di entrambe le linee guida della relativa disciplina, la Consulta ha rilevato che quest’ultima non presenta alcuna incongruenza interna, non essendo l’infertilità fisiologica della coppia omosessuale omologabile a quella della coppia eterosessuale affetta da patologie riproduttive.
Pur confermando che nella nozione di formazione sociale di cui all’art. 2 Cost., rientra anche l’unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone del medesimo sesso, ha ricordato che, come già affermato nella sentenza n. 162 del 2014, la Costituzione non pone una nozione di famiglia inscindibilmente correlata alla presenza di figli, ribadendo che il riconoscimento della libertà e volontarietà dell’atto che consente di diventare genitori di sicuro non implica che tale libertà possa esplicarsi senza limiti.
Precisato inoltre che la possibilità, dischiusa dai progressi scientifici e tecnologici, di una scissione tra atto sessuale e procreazione, mediata dall’intervento del medico, pone il problema di stabilire se il desiderio di avere un figlio tramite l’uso delle tecnologie meriti di essere soddisfatto sempre e comunque, ovvero se sia giustificabile la previsione di specifiche condizioni di accesso alle pratiche considerate, soprattutto in una prospettiva di salvaguardia dei diritti del concepito e del nato, ha affermato che il compito di ponderare gli interessi in gioco e di trovare un equilibrio tra le diverse istanze, tenendo conto degli orientamenti maggiormente diffusi allo interno del tessuto sociale nel singolo momento storico, spetta in via primaria al legislatore, quale interprete della collettività nazionale.
In proposito, sempre la Corte costituzionale ha rilevato – rammenta ancora il Collegio – che la scelta espressa dalle disposizioni censurate non eccede il margine di discrezionalità del quale il legislatore fruisce nella materia in esame, non potendosi per un verso considerare irrazionale ed ingiustificata la preoccupazione di garantire, a fronte delle nuove tecniche procreative, il rispetto delle condizioni ritenute migliori per lo sviluppo della personalità del nuovo nato, e dovendosi per altro verso escludere, pur a fronte di soluzioni di segno diverso, l’arbitrarietà o l’irrazionalità dell’idea, sottesa alla disciplina in esame, che una famiglia ad instar naturae rappresenti, in linea di principio, il luogo più idoneo per accogliere e crescere il nuovo nato, e ciò indipendentemente dalla capacità della donna sola, della coppia omosessuale o della coppia eterosessuale in età avanzata di svolgere validamente anch’esse, all’occorrenza, le funzioni genitoriali (cfr. Corte Cost., sent. n. 221 del 2019; al riguardo, v. anche sent. n. 237 del 2019).
La perdurante operatività, emergente dalle predette considerazioni, delle linee guida sottese alla disciplina dettata dalla L. n. 40 del 2004, confermando da un lato la piena vigenza del divieto di ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo, salvi i casi d’infertilità patologica o di malattie genetiche trasmissibili, dall’altro l’esclusione della possibilità di avvalersi delle predette tecniche per la realizzazione di forme di genitorialità svincolate dal rapporto biologico tra il nascituro ed i richiedenti, si pone in radicale contrasto con l’interpretazione sistematica prospettata dal decreto impugnato, secondo cui sarebbero proprio le norme in esame a consentire, anche al di fuori dei predetti casi, l’instaurazione di un rapporto genitoriale tra il nato ed il coniuge o il convivente del genitore che non abbia fornito alcun apporto biologico alla procreazione, e ciò in ossequio alla preminenza dell’interesse del minore al mantenimento di uno status filiationis corrispondente al progetto genitoriale concretizzatosi nella prestazione del consenso alla procreazione medicalmente assistita.
Non può condividersi, in particolare, il tentativo di astrarre il disposto dell’art. 9, dal contesto in cui è collocato, per desumere dal divieto di anonimato per la madre biologica e dal divieto di disconoscimento della paternità per il coniuge o il convivente che abbia prestato il proprio consenso un principio generale in virtù del quale, ai fini dell’instaurazione del relativo rapporto, può considerarsi sufficiente il mero dato volontaristico o intenzionale, rappresentato dal consenso prestato alla procreazione o comunque dall’adesione ad un comune progetto genitoriale.
Se è vero infatti, prosegue il Collegio, che lo sviluppo scientifico e tecnologico ha reso possibili forme di procreazione svincolate dall’atto sessuale, è anche vero però che l’intera disciplina del rapporto di filiazione, così come delineata dal codice civile, rimane tuttora saldamente ancorata alla necessità di un rapporto biologico tra il nato ed i genitori, la cui esclusione richiederebbe, a pena d’inevitabili squilibri, radicali modifiche di sistema, non realizzabili attraverso un intervento episodico del giudice.
In tal senso depongono chiaramente l’art. 269, comma 3, il quale identifica la madre con la donna che ha partorito colui che si pretende essere figlio, l’art. 231, in virtù del quale il marito si presume padre del figlio concepito o nato in costanza di matrimonio, l’art. 243-bis, che richiede l’esercizio di un’apposita azione per dimostrare l’insussistenza del rapporto di filiazione, l’art. 250, che attribuisce la legittimazione a riconoscere il figlio nato fuori del matrimonio alla madre o al padre, l’art. 263, che consente l’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità, l’art. 269, che consente di ottenere giudizialmente la dichiarazione di paternità o maternità nei casi in cui è ammesso il riconoscimento.
La stessa Corte costituzionale, rammenta ancora il Collegio, pur avendo posto in risalto la libertà e la volontarietà dell’atto che consente di diventare genitori, ha d’altronde riconosciuto che tale valore dev’essere bilanciato con altri valori costituzionalmente protetti, soprattutto quando, come nella specie, si discuta della scelta di ricorrere a tecniche che, alterando le dinamiche naturalistiche del processo di generazione degli individui, aprono scenari affatto innovativi rispetto ai paradigmi della genitorialità e della famiglia storicamente radicati nella cultura sociale, attorno ai quali è evidentemente costruita la disciplina degli artt. 29, 30 e 31 Cost. (cfr. Corte Cost., sent. n. 221 del 2019, cit.), oltre a quella del codice civile.
In contrario, non appare sufficiente il richiamo del decreto impugnato alla disciplina delle unioni civili ed agli orientamenti da tempo affermatisi nella giurisprudenza di legittimità e di quella costituzionale, che riconoscono i diritti delle coppie omosessuali ed escludono la legittimità di condotte ingiustificatamente discriminatorie nei confronti delle stesse, ravvisando in tali unioni un fenomeno meritevole di tutela ai sensi dell’art. 2 Cost., quali formazioni sociali idonee a consentire il pieno dispiegamento della personalità umana: il riconoscimento, ormai ampiamente diffuso nella coscienza sociale, della capacità delle coppie omosessuali di accogliere, crescere ed educare figli, che ha condotto a ritenere ammissibile l’adozione del minore da parte del partner dello stesso sesso del genitore biologico, ai sensi della L. 4 maggio 1983, n. 184, art. 44, comma 1, lett. d), (cfr. Cass., Sez. I, 22/06/2016, n. 12962), nonché la trascrizione dell’atto di nascita validamente formato all’estero dal quale risulti che il nato è figlio di due donne (cfr. Cass., Sez. I, 15/06/2017, n. 14878; 30/09/2016, n. 19599), non implica infatti lo sganciamento della filiazione dal dato biologico, né giustifica la prospettazione di un meccanismo d’instaurazione del relativo rapporto alternativo a quello fondato su tale dato, non dovendo la predetta genitorialità esprimersi necessariamente nelle medesime forme giuridiche previste per il figlio nato dal matrimonio o riconosciuto, a condizione, ovviamente, che al minore accolto dalla coppia omosessuale sia assicurata una tutela comparabile a quella garantita a quest’ultimo.
Non è un caso d’altronde, prosegue la Corte, che la L. n. 76 del 2016, nel dettare la disciplina delle unioni civili tra persone dello stesso sesso, si sia limitata a far salvo “quanto previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti” (art. 1, comma 20), senza richiamare in alcun modo la disciplina della procreazione medicalmente assistita, rimasta immodificata a seguito di tale intervento normativo.
L’esclusione della possibilità di ricollegare, in assenza di un rapporto biologico, l’instaurazione del rapporto di filiazione tra il minore ed il partner del genitore biologico al consenso da quest’ultimo prestato all’applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita, non contrasta in alcun modo neppure con la giurisprudenza della Corte EDU: quest’ultima, infatti, pur riconoscendo alla coppia omosessuale il diritto al rispetto della vita privata, anche familiare, ed includendo in tale nozione anche il diritto al rispetto della decisione di diventare genitore e del modo di diventarlo (cfr. Corte EDU, 16/01/2018, Nedescu c. Romania; 27/08/2015, Parrillo c. Italia; 28/08/2012, Costa e Pavan c. Italia), ha escluso la possibilità di ravvisare un trattamento discriminatorio nella legge nazionale che attribuisca alla procreazione medicalmente assistita finalità esclusivamente terapeutiche, riservando alle coppie eterosessuali sterili il ricorso alle relative tecniche (cfr. Corte EDU, sent. 15/03/2012, Gas e Dubois c. Francia), ed ha riconosciuto che in tale materia gli Stati godono di un ampio margine di apprezzamento, soprattutto con riguardo a quei profili in relazione ai quali non si riscontra un generale consenso a livello Europeo (cfr. Corte EDU, sent. 3/11/2011, S.H. c. Austria).
Quanto poi all’interesse del minore, la Corte EDU, pur osservando che il mancato riconoscimento del rapporto di filiazione è destinato inevitabilmente ad incidere sulla vita familiare del minore, ha escluso la configurabilità di una violazione del diritto al rispetto della stessa, ove sia assicurata in concreto la possibilità di condurre un’esistenza paragonabile a quella delle altre famiglie (cfr. Corte EDU, sent. 26/06/2014, Mennesson e Labassee c. Francia).
La predetta violazione non è pertanto configurabile nel caso in cui, come nella specie, non sia in discussione il rapporto di filiazione con il genitore biologico, ma solo quello con il genitore d’intenzione, il cui mancato riconoscimento non preclude al minore l’inserimento nel nucleo familiare della coppia genitoriale nè l’accesso al trattamento giuridico ricollegabile allo status filiationis, pacificamente riconosciuto nei confronti dell’altro genitore (in proposito, v. anche Cass., Sez. Un., 8/05/2019, n. 12193).
Può quindi concludersi per il Collegio che il riconoscimento di un minore concepito mediante il ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo da parte di una donna legata in unione civile con quella che lo ha partorito, ma non avente alcun legame biologico con il minore, si pone in contrasto con la L. n. 40 del 2004, art. 4, comma 3 e con l’esclusione del ricorso alle predette tecniche da parte delle coppie omosessuali, non essendo consentita, al di fuori dei casi previsti dalla legge, la realizzazione di forme di genitorialità svincolate da un rapporto biologico, con i medesimi strumenti giuridici previsti per il minore nato nel matrimonio o riconosciuto.
Tale conclusione non si pone in alcun modo in contrasto con i precedenti della Corte che hanno riconosciuto l’efficacia nel nostro ordinamento dell’atto di nascita formato all’estero dal quale risulti che il nato, concepito mediante il ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita, è figlio di due persone dello stesso sesso, ancorché una di esse non abbia alcun rapporto biologico con il minore (cfr. Cass., Sez. I, 15/06/2017, n. 14878; 30/09/2016, n. 19599): indipendentemente dalla considerazione che in uno dei due casi esaminati nelle predette pronunce entrambe le donne indicate come genitrici potevano vantare un rapporto biologico con il minore, avendo l’una fornito l’ovulo per la fecondazione e l’altra provveduto alla gestazione, è sufficiente rilevare che il riconoscimento dell’atto straniero non fa venir meno l’estraneità dello stesso all’ordinamento italiano, il quale si limita a consentire la produzione dei relativi effetti, così come previsti e regolati dall’ordinamento di provenienza, nei limiti in cui la relativa disciplina risulti compatibile con l’ordine pubblico.
Tale compatibilità, com’è noto, dev’essere valutata alla stregua dei principi fondamentali della Costituzione e di quelli consacrati nelle fonti internazionali e sovranazionali, nonché del modo in cui detti principi si sono incarnati nella disciplina ordinaria dei singoli istituti e dell’interpretazione fornitane dalla giurisprudenza costituzionale e ordinaria, la cui opera di sintesi e ricomposizione dà forma a quel diritto vivente, dal quale non può prescindersi nella ricostruzione della nozione di ordine pubblico, quale insieme dei valori fondanti dell’ordinamento in un determinato momento storico (cfr. Cass., Sez. Un., 8/05/2019, n. 12193).
La nozione di ordine pubblico rilevante ai fini del riconoscimento dell’efficacia degli atti e dei provvedimenti stranieri è più ristretta di quella rilevante nell’ordinamento interno, corrispondente al complesso dei principi informatori dei singoli istituti, quali si desumono dalle norme imperative che li disciplinano: non può quindi ravvisarsi alcuna contraddizione tra il riconoscimento del rapporto di filiazione risultante dall’atto di nascita formato all’estero e l’esclusione di quello derivante dal riconoscimento effettuato in Italia, la cui efficacia dev’essere valutata alla stregua della disciplina vigente nel nostro ordinamento.
Tale disparità di trattamento – prosegue la Corte – non comporta la violazione di alcun precetto costituzionale, costituendo il naturale portato della differenza tra la normativa italiana e quelle vigenti in altri Paesi, la cui diversità, pur rendendo possibili condotte elusive della più restrittiva disciplina dettata dal nostro ordinamento, non costituisce di per sé causa d’illegittimità costituzionale di quest’ultima (cfr. Corte Cost., sent. n. 221 del 2019).
L’esclusione dell’ammissibilità del riconoscimento consente poi di ritenere legittimo il rifiuto opposto dall’ufficiale di stato civile alla ricezione della dichiarazione di riconoscimento del minore come figlio naturale delle due donne, o comunque come figlio naturale della donna che si è limitata a prestare il proprio consenso alla fecondazione eterologa, trovando tale provvedimento giustificazione nel disposto del D.P.R. n. 396 del 2000, art. 42, che, subordinando il riconoscimento alla dimostrazione dell’insussistenza di motivi ostativi legalmente previsti, consente di escluderne l’operatività nella ipotesi in cui, come nella specie, la costituzione del rapporto di filiazione trovi ostacolo nella disciplina legale della procreazione medicalmente assistita.
Il decreto impugnato – conclude la Corte – va pertanto cassato, in applicazione del principio enunciato, e, non risultando necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., u.c., con il rigetto della domanda.
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Il 12 maggio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 8816 alla cui stregua la decisione del Tribunale per i minorenni relativa all’obbligo di mantenimento a carico del genitore non affidatario o collocatario non ha effetti costitutivi, bensì meramente dichiarativi; di conseguenza la Suprema Corte statuisce l’efficacia retroattiva della relativa decisione del Tribunale dal momento della domanda.
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Il 19 maggio esce l’ordinanza della I sezione della Cassazione n. 9143 secondo la quale, in tema di provvedimenti riguardanti i figli, confermando il ruolo fondamentale dell’interesse del minore, quale criterio esclusivo di orientamento delle scelte del giudice, il giudizio prognostico da compiere in ordine alla capacità dei genitori di crescere ed educare il figlio nella situazione determinata dalla disgregazione dell’unione genitoriale non può prescindere comunque dal rispetto del principio della bigenitorialità.
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Sempre il 19 maggio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 9144 che stabilisce che ciascuno degli ascendenti e delle persone legate agli stessi da un rapporto di coniugio o di convivenza è titolare di un proprio diritto a mantenere rapporti significativi con i nipoti minorenni; la Suprema Corte statuisce altresì che la valutazione del giudice deve avere di mira l’esclusivo interesse del minore.
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Il 19 maggio esce altresì l’ordinanza della I sezione della Cassazione n. 9145 alla cui stregua iI diritto di instaurare e mantenere rapporti significativi con i nipoti minorenni, riconosciuto agli ascendenti dall’art. 317-bis c.c., costituisce una posizione soggettiva piena soltanto nei confronti dei terzi mentre riveste una portata recessiva nei confronti dei minori, titolari dello speculare quanto prevalente diritto di conservare rapporti significativi con i parenti.
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Il 29 maggio esce la sentenza della Corte costituzionale n. 102 che statuisce l’illegittimità costituzionale dell’art.574 bis, comma3, c.p., nella parte in cui prevede che la condanna pronunciata contro il genitore per il delitto di sottrazione e trattenimento di minore all’estero ai danni del figlio minore comporta la sospensione dell’esercizio della responsabilità genitoriale, anziché la possibilità per il giudice di disporre la sospensione dell’esercizio della responsabilità genitoriale. L’automatica applicazione della pena accessoria della sospensione della responsabilità genitoriale prevista dall’art. 574-bis, terzo comma, cod. pen., infatti, risulta incompatibile con i parametri costituzionali, interpretati anche alla luce degli obblighi internazionali e del diritto dell’Unione europea in materia di tutela di minori che vincolano l’ordinamento italiano. La Corte dichiara, invece, inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 34 cod. pen., sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 27, terzo comma, 30 e 31 della Costituzione, nonché all’art. 10 Cost., in relazione alla Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 27 maggio 1991, n. 176. Viene, infine, dichiarata inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 574-bis cod. pen., sollevata, in riferimento all’art. 10 Cost., in relazione alla Convenzione sui diritti del fanciullo.
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Il 10 giugno esce l’ordinanza della III sezione della Cassazione n. 11097 alla cui stregua il fatto che un genitore abbandoni un figlio, senza curarsene né da un punto di vista emotivo né economico, se prolungato nel tempo, costituisce un illecito permanente e tale deve essere valutato, anche ai fini della prescrizione per il risarcimento del danno.
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L’11 giugno esce l’ordinanza della VI sezione della Cassazione n. 11186 secondo la quale l’iscrizione all’università non può bastare per sancire il diritto del figlio a percepire l’assegno di mantenimento da parte del padre laddove il figlio abbia un contratto di lavoro a tempo indeterminato, seppur part-time.
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Il 19 giugno esce l’ordinanza della III sezione della Cassazione n. 11955 secondo la quale, in tema di espulsione del cittadino straniero, a seguito della sentenza n. 202 del 2013 della Corte costituzionale e in linea con la nozione di diritto all’unità familiare delineata dalla giurisprudenza della Corte EDU con riferimento all’art. 8 CEDU, l’art. 13, comma 2 bis, del d.lgs. n. 286 del 1998 si applica – con valutazione caso per caso, in coerenza con la direttiva comunitaria 2008/115/CE – anche al cittadino straniero che abbia legami familiari nel nostro Paese, ancorché non nella posizione di richiedente formalmente il ricongiungimento familiare. Tuttavia, in caso di mancato esercizio del diritto al ricongiungimento familiare, i legami dello straniero nel territorio dello Stato, per consentire l’applicazione della tutela rafforzata di cui al citato comma 2 bis, devono essere soggettivamente qualificati ed effettivi. Il giudice di merito è tenuto a darne conto adeguatamente, sulla base dell’esame dei vari elementi dedotti a sostegno della relazione affettiva, che, in presenza di figli minori, dovrà tenere conto anche della difficoltà che la distanza con il paese di origine determina per mantenere la relazione affettiva con il figlio, tenuto conto della sua età e della relativa normale limitazione di autonomia negli spostamenti che da ciò deriva.
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Sempre il 19 giugno esce la sentenza della III sezione penale della Cassazione n. 18574 che afferma la responsabilità penale di una madre e del suo compagno per aver costretto la figlia a non frequentare scuola e amici e per averla costretta a subire abusi sessuali.
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Il 25 giugno esce la sentenza della Corte costituzionale n. 127 che dichiara la non fondatezza, in riferimento agli artt. 2 e 3 della Costituzione, dell’art. 263 c.c. nella parte in cui non esclude la legittimazione ad impugnare il riconoscimento del figlio in capo a colui che lo abbia compiuto nella consapevolezza della sua non veridicità. Secondo la Corte, infatti, non è possibile invocare una disparità di trattamento con la disciplina di cui all’art. 9, comma 1 della legge n. 40/2004 (la norma preclude espressamente l’impugnazione di cui all’art. 263 cod. civ. – oltre che l’azione di disconoscimento della paternità, nei casi previsti dall’art. 235, primo comma, numeri 1) e 2), cod. civ. – al coniuge o al convivente che abbia prestato il proprio consenso a tecniche di procreazione medicalmente assistita), trattandosi di un tertium comparationis non idoneo, non potendo equipararsi la volontà di generare con materiale biologico altrui e la volontà di riconoscere un figlio altrui. La Corte afferma, inoltre, che nel caso dell’impugnazione del riconoscimento consapevolmente falso da parte del suo autore, il bilanciamento tra il concreto interesse del soggetto riconosciuto e il favore per la verità del rapporto di filiazione non può costituire il risultato di una valutazione astratta e predeterminata e non può implicare ex se il sacrificio dell’uno in nome dell’altro. L’esigenza di operare una razionale comparazione degli interessi in gioco, alla luce della concreta situazione dei soggetti coinvolti, impone al giudice di tenere conto di tutte le variabili del caso concreto, sotteso alla domanda di rimozione dello status di cui all’art. 263 cod. civ
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Il 28 luglio esce l’ordinanza della I sezione della Cassazione n. 16125 alla cui stregua i provvedimenti dell’autorità giudiziaria in materia di affidamento dei figli minori consentono restrizioni al diritto di visita dei genitori solo nell’interesse superiore del minore, assicurando sempre il rispetto del principio della bigenitorialità.
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Il 5 agosto esce l’ordinanza della I sezione della Cassazione n. 16695 che stabilisce che, ai sensi dell’art. 5, comma 1, l. n. 184/1983, gli affidatari o l’eventuale famiglia collocataria devono essere convocati, a pena di nullità, nei procedimenti di adottabilità dei minori. Non è prevista, invece, disciplina alcuna sulle modalità attraverso cui deve essere disposta tale convocazione; pertanto, non possono essere invocate sanzioni processuali, per la mancata osservanza del profilo della riservatezza degli affidatari stessi.
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Il 6 agosto esce l’ordinanza della I sezione della Cassazione n. 16740 secondo la quale, in tema di separazione, la casa familiare deve essere assegnata tenendo prioritariamente conto dell’interesse dei figli minorenni e dei figli maggiorenni non economicamente autosufficienti a permanere nell’ambiente domestico in cui sono cresciuti e che costituisce il centro dei propri affetti, al fine di garantire il mantenimento delle loro consuetudini di vita e delle relazioni sociali che in tale ambiente si sono radicate. Pertanto, quando il legame con la casa familiare dei figli, maggiorenni, anche se non economicamente autosufficienti, risulta reciso ovvero quando la casa familiare non costituisce più l’habitat domestico necessario a garantire, nella quotidianità, il riferimento affettivo utile e di sostegno ad una crescita sana si avrà la revoca dell’assegnazione.
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Il 16 settembre esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n. 19299 in virtù della quale, a seguito della separazione personale, nel quantificare l’ammontare del contributo dovuto dal genitore non collocatario per il mantenimento del figlio minore, deve osservarsi il principio di proporzionalità, che richiede una valutazione comparata dei redditi di entrambi i genitori, oltre alla considerazione delle esigenze attuali del figlio e del tenore di vita da lui goduto. In particolare, l’art. 155 c.c., nell’imporre a ciascuno dei coniugi l’obbligo di provvedere al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito, individua, quali elementi da tenere in conto nella determinazione dell’assegno, oltre alle esigenze dei figli, il tenore di vita dallo stesso goduto in costanza di convivenza, i tempi di permanenza presso ciascuno di essi e la valenza economica dei compiti domestici e di cura da loro assunti, nonché le risorse economiche di entrambi i genitori.
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Il 17 settembre esce l’ordinanza della I sezione della Cassazione n. 19326 alla cui stregua il fondamento della condizione di adottabilità di un minore risiede in un suo stato personale costituito da una situazione non transeunte di abbandono, non suscettibile, prevedibilmente, di essere superata e la cui rimozione sia necessaria per consentire al bambino di ricevere l’assistenza, morale e materiale, della quale il suo sviluppo ha bisogno. Nel caso di specie, la Suprema Corte afferma che il rifiuto intenzionale dell’adempimento dei doveri genitoriali assume rilievo ai fini della dimostrazione della situazione di abbandono, a meno che lo stesso non venga validamente superato da un eventuale atteggiamento sopravvenuto dei genitori naturali, contrario a quello originario di rifiuto di assistenza, che risulti credibile.
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Il 22 settembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 19824 alla cui stregua, nel bilanciamento dei valori di rango costituzionale che si impone all’interprete, al cospetto del diritto al riconoscimento dello status di filiazione, quello della madre a mantenere l’anonimato al momento del parto si ponga comunque in posizione preminente. Quest’ultimo diritto, infatti, è finalizzato a tutelare i beni supremi della salute e della vita, oltre che del nascituro, della madre, la quale potrebbe essere indotta a scelte di natura diversa, fonte di possibile forte rischio per entrambi, ove, nel momento di estrema fragilità che caratterizza il parto, la donna che opta per l’anonimato avesse solo il dubbio di poter essere esposta, in seguito, ad un’azione di accertamento giudiziale della maternità. Dunque, in tale prospettiva e per garantire ampia tutela alla donna che compie tale difficile scelta, il diritto all’anonimato non può essere in alcun modo sacrificato o compresso per tutta la durata della vita della madre. Tale regola può essere, al limite, derogata (consentendo quindi l’esercizio dell’accertamento giudiziale della maternità) solo ove fosse stata proprio la madre con la propria inequivocabile condotta, ad aver manifestato la volontà di revocare nei fatti la scelta, a suo tempo presa, di rinuncia alla genitorialità giuridica, accogliendo nella propria casa il bambino come un figlio. Tuttavia, al di fuori di tale caso limite, la tutela del diritto all’anonimato della madre, per tutta la durata della vita della stessa massima. A diverse conclusioni si deve, invece, addivenire con riferimento al periodo successivo alla morte della madre, in relazione al quale il diritto all’anonimato in oggetto è suscettibile di essere compresso, o indebolito, in considerazione della necessità di fornire piena tutela al diritto all’accertamento dello status di filiazione. Secondo la Suprema Corte, infatti, nel bilanciamento dei valori cli rango costituzionale che si impone all’interprete per il periodo successivo alla morte della madre, l’esigenza di tutela dei diritti degli eredi e discendenti della donna che ha optato per l’anonimato non può che essere recessiva rispetto a quella del figlio che rivendica il proprio status. In conclusione, venendo meno per effetto della morte della madre, l’esigenza di tutela dei diritti alla vita ed alla salute, che era stata fondamentale nella scelta dell’anonimato, non vi sono più elementi ostativi non soltanto per la conoscenza del rapporto di filiazione, ma anche per la proposizione dell’azione volta all’accertamento dello status di figlio naturale, ex art. 269 cod. civ.. Tale soluzione si impone anche per una lettura costituzionalmente orientata della norma sopra citata – alla luce degli artt. 2 e 30 Cost., ma anche 24 Cost. – oltre che internazionalmente orientata (art. 117 Cost.). In proposito, l’art. 8 CEDU, nella lettura datane dalla Corte EDU, tende essenzialmente a premunire l’individuo contro ingerenze arbitrarie dei poteri pubblici, non contentandosi di ordinare allo Stato di astenersi da simili ingerenze, ma aggiungendovi obblighi positivi inerenti ad un rispetto effettivo della vita privata; tra questi non può non rientrare il diritto a proporre le azioni che lo stesso ordinamento nazionale offre per il riconoscimento dello status di figlio naturale di una persona.
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Sempre il 22 settembre esce anche la sentenza della I sezione della Cassazione n. 19825 che conferma il principio secondo il quale lo stato di abbandono dei minori non può essere escluso in conseguenza della disponibilità a prendersi cura di loro, manifestata da parenti entro il quarto grado, quando non sussistano rapporti significativi pregressi tra loro e i bambini, e neppure possano individuarsi potenzialità di recupero dei rapporti, non traumatiche per i minori, in tempi compatibili con lo sviluppo equilibrato della loro personalità. Nella pronuncia in parola, la Suprema Corte richiama inoltre, condividendolo, l’orientamento consolidato secondo cui il prioritario diritto dei minori a crescere nell’ambito della loro famiglia di origine non esclude la pronuncia della dichiarazione di adottabilità perfino quando, nonostante l’impegno profuso dal genitori nel superare le proprie difficoltà personali e genitoriali, permanga tuttavia la sua incapacità di elaborare un progetto di vita credibile per i figli, e non risulti prevedibile con certezza l’adeguato recupero delle capacità genitoriali in tempi compatibili con l’esigenza dei minori di poter conseguire una equilibrata crescita psico-fisica.
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Il 9 ottobre esce l’ordinanza della VI sezione della Cassazione n. 21752 secondo la quale l’obbligo dei genitori di concorrere al mantenimento dei figli, secondo le regole degli artt. 147 e 148 c.c., non cessa “ipso facto” con il raggiungimento della maggiore età da parte di questi ultimi, ma perdura, immutato, finché il genitore interessato alla declaratoria della cessazione dell’obbligo stesso non dia la prova che il figlio ha raggiunto l’indipendenza economica, ovvero che il mancato svolgimento di un’attività economica dipende da un atteggiamento di inerzia e o di rifiuto ingiustificato dello stesso.
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Il 4 novembre esce la sentenza della Corte costituzionale n. 230 che dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 20, della legge 20 maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze) e dell’art. 29, comma 2, del D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127), sollevata, in riferimento agli artt. 2, 3, primo e secondo comma, 30 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 24, paragrafo 3, della Carta dei diritti Fondamentali dell’Unione Europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, agli artt. 8 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, e alla Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con legge 27 maggio 1991, n. 176. Al riguardo, nell’ordinanza di rimessione era stata messa in discussione la legittimità costituzionale del predetto comma 20 dell’art. 1 della legge n. 76 del 2016, perché, limitando l’applicabilità delle leggi speciali alle coppie di donne omosessuali unite civilmente ai “soli diritti e […] doveri nascenti dall’unione civile”, nel combinato disposto con l’art. 29, 2° comma d.P.R. 396 del 2000 avrebbe precluso loro la possibilità di essere indicate, entrambe, quali genitori nell’atto di nascita quantunque siano unite civilmente e abbiano fatto ricorso (all’estero) alla procreazione medicalmente assistita. La Corte costituzionale nella sentenza in parola afferma che, se è vero che la genitorialità del nato a seguito del ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita (d’ora in poi: PMA) è legata anche al “consenso” prestato, e alla “responsabilità” conseguentemente assunta, da entrambi i soggetti che hanno deciso di accedere ad una tale tecnica procreativa, occorre pur sempre che quelle coinvolte nel progetto di genitorialità così condiviso siano coppie «di sesso diverso», atteso che le coppie dello stesso sesso non possono accedere, in Italia, alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, ai sensi dell’art. 5 della legge n. 40 del 2004. La Corte richiama precedenti pronunce alla cui stregua, l’esclusione dalla PMA delle coppie formate da due donne non è fonte di alcuna distonia e neppure di una discriminazione basata sull’orientamento sessuale. In questo senso si è espressa anche la Corte europea dei diritti dell’uomo, per la quale una legge nazionale che riservi il ricorso all’inseminazione artificiale a coppie eterosessuali sterili, attribuendole una finalità terapeutica, non può essere considerata fonte di una ingiustificata disparità di trattamento nei confronti delle coppie omosessuali, rilevante agli effetti degli artt. 8 e 14 CEDU: ciò proprio perché la situazione delle seconde non è paragonabile a quella delle prime. Ricorda la Corte, inoltre, come in passato la stessa abbia già affermato che ad opposte conclusioni neppure può poi condurre la legge n. 76 del 2016, che – pur riconoscendo la dignità sociale e giuridica delle coppie formate da persone dello stesso sesso – non consente, comunque, la filiazione, sia adottiva che per fecondazione assistita, in loro favore, in quanto dal rinvio che il comma 20 dell’art. 1 di detta legge opera alle disposizioni sul matrimonio (cosiddetta clausola di salvaguardia) restano, infatti, escluse, perché non richiamate, quelle, appunto, che regolano la paternità, la maternità e l’adozione legittimante.
Secondo la Corte, i precetti di cui agli artt. 2, 3, 30 Cost. e i parametri europei e convenzionali, congiuntamente richiamati attraverso l’intermediazione dell’art. 117, primo comma, Cost., non autorizzano la reductio ad legitimitatem della normativa censurata nel senso dell’auspicato riconoscimento delle donne omosessuali civilmente unite quali genitori del nato da fecondazione eterologa praticata dall’una con il consenso dell’altra. La scelta, operata dopo un ampio dibattito dal legislatore del 2016 – quella, cioè, di non riferire le norme relative al rapporto di filiazione alle coppie dello stesso sesso, cui è pur riconosciuta la piena dignità di una «vita familiare» – sottende l’idea, non arbitraria o irrazionale, che una famiglia ad instar naturae – due genitori, di sesso diverso, entrambi viventi e in età potenzialmente fertile – rappresenti, in linea di principio, il “luogo” più idoneo per accogliere e crescere il nuovo nato. E tale scelta non viola gli artt. 2 e 30 Cost. perché l’aspirazione della madre intenzionale ad essere genitore non assurge a livello di diritto fondamentale della persona nei sensi dell’art. 2 Cost. A sua volta, l’art. 30 Cost. non pone una nozione di famiglia inscindibilmente correlata alla presenza di figli e la libertà e volontarietà dell’atto che consente di diventare genitori non implica che possa esplicarsi senza limiti. E ciò poiché deve essere bilanciata, tale libertà, con altri interessi costituzionalmente protetti: particolarmente quando si discuta della scelta di ricorrere a tecniche di PMA, le quali, alterando le dinamiche naturalistiche del processo di generazione degli individui, aprono scenari affatto innovativi rispetto ai paradigmi della genitorialità e della famiglia storicamente radicati nella cultura sociale, attorno ai quali è evidentemente costruita la disciplina degli artt. 29, 30 e 31 Cost., suscitando inevitabilmente, con ciò, delicati interrogativi di ordine etico. Con riferimento all’art. 3 Cost., la Corte afferma che è pur vero che la giurisprudenza, anche di legittimità, ammette il riconoscimento in Italia di atti formati all’estero, dichiarativi del rapporto di filiazione nei confronti di “due madri”, ma, come è stato già rilevato, la circostanza che esista una differenza tra la normativa italiana e le molteplici normative mondiali è un fatto che l’ordinamento non può tenere in considerazione. Diversamente opinando, la disciplina interna dovrebbe essere sempre allineata, per evitare una lesione del principio di eguaglianza, alla più permissiva tra le legislazioni estere che regolano la stessa materia. Né diversamente rilevano, per la Corte, le fonti europee, poiché sia la Carta di Nizza sia la CEDU, in materia di famiglia, rinviano in modo esplicito alle singole legislazioni nazionali e al rispetto dei principi ivi affermati.
La Corte afferma, comunque, che se il riconoscimento della omogenitorialità, all’interno di un rapporto tra due donne unite civilmente, non è imposto dai precetti costituzionali, vero è anche che tali parametri neppure sono chiusi a soluzioni di segno diverso, in base alle valutazioni che il legislatore potrà dare alla fenomenologia considerata, non potendosi escludere la capacità della donna sola, della coppia omosessuale e della coppia eterosessuale in età avanzata di svolgere validamente anch’esse, all’occorrenza, le funzioni genitoriali. Pertanto, con riferimento al riconoscimento del diritto ad esser genitori di entrambe le donne unite civilmente, ex lege n. 76 del 2016, tale obiettivo non è raggiungibile, secondo la Corte costituzionale, attraverso il sindacato di costituzionalità della disposizione di segno opposto, recata dalla legge stessa e da quella del collegato d.P.R. n. 396 del 2000; essendo lo stesso, viceversa, perseguibile per via normativa, implicando una svolta che, anche e soprattutto per i contenuti etici ed assiologici che la connotano, non è costituzionalmente imposta, ma propriamente attiene all’area degli interventi, con cui il legislatore, quale interprete della volontà della collettività, è chiamato a tradurre il bilanciamento tra valori fondamentali in conflitto, tenendo conto degli orientamenti e delle istanze che apprezzi come maggiormente radicati, nel momento dato, nella coscienza sociale.
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Il 16 dicembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 28723 che conferma il proprio orientamento secondo il quale nell’interesse superiore del minore, va assicurato il rispetto del principio della bigenitorialità, da intendersi quale presenza comune dei genitori nella vita del figlio, idonea a garantirgli una stabile consuetudine di vita e salde relazioni affettive con entrambi, nel dovere dei primi di cooperare nell’assistenza, educazione ed istruzione. Tale orientamento trova riscontro nella giurisprudenza della Corte Edu, che, chiamata a pronunciarsi sul rispetto della vita familiare di cui all’art. 8 CEDU, pur riconoscendo all’autorità giudiziaria ampia libertà in materia di diritto di affidamento di un figlio di età minore, ha precisato che è comunque necessario un rigoroso controllo sulle “restrizioni supplementari”, ovvero quelle apportate dalle autorità al diritto di visita dei genitori, e sulle garanzie giuridiche destinate ad assicurare la protezione effettiva del diritto dei genitori e dei figli al rispetto della loro vita familiare, di cui all’art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, onde scongiurare il rischio di troncare le relazioni familiari tra un figlio in tenera età ed uno dei genitori. La Corte EDU, in particolare, ha invitato le Autorità nazionali ad adottare tutte le misure atte a mantenere i legami tra il genitore e i figli, affermando che per un genitore e suo figlio, stare insieme costituisce un elemento fondamentale della vita familiare e che le misure interne che lo impediscono costituiscono una ingerenza nel diritto protetto dall’art. 8 della Convenzione. I giudici di Strasburgo, inoltre, hanno precisato che, in un quadro di osservanza della frequentazione tra genitore e figlio, gli obblighi positivi da adottarsi dalle autorità degli Stati nazionali, per garantire effettività della vita privata o familiare nei termini di cui all’art. 8 della Convenzione EDU, non si limitano al controllo che il bambino possa incontrare il proprio genitore o avere contatti con lui, ma includono l’insieme delle misure preparatorie che, non automatiche e stereotipate, permettono di raggiungere questo risultato, nella preliminare esigenza che le misure deputate a ravvicinare il genitore al figlio rispondano a rapida attuazione, perché il trascorrere del tempo può avere delle conseguenze irrimediabili sulle relazioni tra il fanciullo e quello dei genitori che non vive con lui.
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Il 31 dicembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 29977 che, in tema di separazione, afferma la legittimazione iure proprio e concorrente della madre ad agire per ottenere l’aumento del contributo di mantenimento per il figlio maggiorenne anche laddove quest’ultimo, per motivi di studio, trascorra lunghi periodi non più presso l’abitazione della madre, ma nella città ove abbia intrapreso gli studi universitari. La Suprema Corte, in particolare, richiama il proprio orientamento costante alla cui stregua, l’obbligo di mantenere il figlio non cessa automaticamente con il raggiungimento della maggiore età, ma si protrae, qualora questi, senza sua colpa, divenuto maggiorenne, sia tuttavia ancora dipendente dai genitori. In tale ipotesi, il coniuge separato o divorziato, già affidatario, è legittimato, iure proprio, e in via concorrente con la diversa legittimazione del figlio, che trova fondamento nella titolarità, in capo a quest’ultimo, del diritto al mantenimento, ad ottenere dall’altro coniuge un contributo per il mantenimento del figlio maggiorenne. La perdurante legittimazione del coniuge già affidatario, in difetto di richiesta di corresponsione diretta dell’assegno da parte del figlio divenuto nelle more maggiorenne, si configura come autonoma, nel senso che il genitore già collocatario resta titolare, nei confronti dell’altro genitore obbligato, di un’autonoma pretesa basata sul comune dovere nei confronti del figlio ai sensi degli artt. 147 e 148 c.c. L’art. 337 septies c.c., prevede, infatti, come ipotesi alternativa a quella, ordinaria, del versamento diretto dell’assegno di mantenimento al figlio maggiorenne, quella conseguente a “diversa determinazione del giudice” che può consistere nel versamento del contributo all’altro genitore che si occupi materialmente del mantenimento del figlio, a ciò conseguendo la legittimazione attiva del suddetto genitore. Poiché, di norma, è il genitore con il quale il figlio abita a provvedere materialmente ai bisogni ed alle necessità del figlio stesso, la coabitazione si configura, nelle ipotesi che più frequentemente ricorrono, come un parametro fattuale di rilevanza indiziaria, idoneo a giustificare la deroga alla regola generale della corresponsione diretta della somma a titolo di contributo al mantenimento al figlio maggiorenne. Il versamento dell’assegno periodico al genitore con cui permane la coabitazione con il figlio maggiorenne rappresenta, perciò, un contributo concreto alla copertura delle spese correnti che egli si trova a dover sostenere mensilmente, spese correnti cui sono e restano comunque entrambi i genitori obbligati ai sensi degli artt. 147 e 148 c.c. La coabitazione può assurgere ad univoco indice del fatto che permanga un più intenso legame di comunanza familiare tra il figlio maggiorenne e il genitore con cui abita e che sia quest’ultimo la figura di riferimento per il corrente sostentamento del primo e colui che provvede materialmente alle sue esigenze. Ciò che decisivamente rileva, perciò, ai fini della legittimazione, è che il genitore di cui trattasi sia appunto la figura di riferimento del figlio per il suo corrente sostentamento e colui che provvede materialmente alle sue esigenze: elemento, questo, rispetto al quale la convivenza ha valore puramente inferenziale. Nella pronuncia in parola la Suprema Corte dà infine continuità all’orientamento secondo il quale non può darsi dirimente rilevanza al solo dato temporale della permanenza del figlio presso l’abitazione del genitore già collocatario. Mentre, infatti, il rapporto coniugale è connotato di regola da una quotidiana coabitazione e dalla unicità di interessi familiari, quello di filiazione può essere più spesso caratterizzato, in presenza di peculiari e personali interessi del figlio, specie se maggiorenne, da una sua presenza solo saltuaria per la necessità di assentarsi con frequenza per motivi di studio o di lavoro anche per non brevi periodi. Pur in difetto della prevalenza temporale della presenza del figlio nella casa del genitore già collocatario, quest’ultimo e la sua casa potranno, dunque, essere rimasti per il primo un punto di riferimento stabile del nucleo familiare, sebbene “ristretto” all’esito della separazione coniugale, stante la sistematicità del ritorno del figlio studente in quel luogo, compatibilmente con i suoi impegni universitari o, in generale, di studio. Soprattutto, poi, potrà verificarsi in concreto che sia quel genitore, pur in assenza di coabitazione abituale o prevalente, a provvedere materialmente alle esigenze del figlio stesso, anticipando ogni esborso necessario per il suo sostentamento presso la sede di studio.
2021
Il 13 gennaio esce l’ordinanza della I sezione della Cassazione n. 379 alla cui stregua, in materia di rimborso delle spese cd. straordinarie sostenute dai genitori per il mantenimento del figlio, fermo il carattere composito della dizione utilizzata, occorre in via sostanziale distinguere tra: a) gli esborsi che sono destinati ai bisogni ordinari del figlio e che, certi nel loro costante e prevedibile ripetersi anche lungo intervalli temporali, più o meno ampi, sortiscono l’effetto di integrare l’assegno di mantenimento forfettizzato dal giudice – consensualmente determinato dai genitori – e possono essere azionati in forza del titolo originario di condanna adottato in materia di esercizio della responsabilità in sede di separazione, scioglimento, cessazione degli effetti civili, annullamento, nullità del matrimonio ovvero all’esito di procedimenti relativi ai figli nati fuori dal matrimonio, previa allegazione che consenta, con mera operazione aritmetica, di preservare del titolo stesso i caratteri della certezza, liquidità ed esigibilità; b) le spese che, imprevedibili e rilevanti nel loro ammontare, in grado di recidere ogni legame con i caratteri di ordinarietà dell’assegno di contributo al mantenimento, richiedono per la loro azionabilità l’esercizio di un’autonoma azione di accertamento in cui convergono il rispetto del principio dell’adeguatezza della posta alle esigenze del figlio e quello della proporzione del contributo alle condizioni economico-patrimoniali del genitore onerato e tanto in comparazione con quanto statuito dal giudice che si sia pronunciato sul tema della responsabilità genitoriale a seguito di separazione, divorzio, annullamento e nullità del vincolo matrimoniale e, comunque, in ordine ai figli nati fuori dal matrimonio.
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Il 17 febbraio esce l’ordinanza della I sezione della Cassazione n. 4220 che conferma l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale, in tema di adozione di minori di età, sussiste la situazione di abbandono, non solo nei casi di rifiuto intenzionale dell’adempimento dei doveri genitoriale, ma anche qualora la situazione familiare sia tale da compromettere in modo grave e irreversibile un armonico sviluppo psico-fisico del bambino, considerato in concreto, ossia in relazione al suo vissuto, alle sue caratteristiche fisiche e psicologiche, alla sua età, al suo grado di sviluppo e alle sue potenzialità, risultando irrilevante, pertanto, la mera espressione di volontà dei genitori di accudire il minore in assenza di concreti riscontri.
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Il 24 febbraio esce l’ordinanza della I sezione della Cassazione n. 5059 secondo la quale, in tema di separazione personale dei coniugi, nel caso di mancata preventiva concertazione delle spese straordinarie relative al figlio e di rifiuto di provvedere al rimborso della quota di spettanza da parte del coniuge che non le ha effettuate, la valutazione dell’esistenza in concreto dei motivi di dissenso spetta al giudice di merito, il quale è tenuto a verificare la rispondenza delle spese all’interesse del minore, mediante una valutazione improntata alla commisurazione dell’entità delle stesse rispetto all’utilità per il figlio e alla sostenibilità in relazione alle condizioni economiche dei genitori.
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Il 9 marzo esce la sentenza della Corte costituzionale n. 32 che dichiara l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale degli artt. 8 e 9 della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita) e 250 c.c., sollevate in riferimento agli artt. 2, 3, 30 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 2, 3, 4, 5, 7, 8 e 9 della Convenzione sui diritti del fanciullo, firmata a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con legge 27 maggio 1991, n. 176, e agli artt. 8 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848.
Nell’ambito della pronuncia in parola, la Corte afferma come le norme censurate riguardassero la condizione di nati a seguito di PMA eterologa praticata in un altro paese, in conformità alla legge dello stesso, da una donna, che aveva intenzionalmente condiviso il progetto genitoriale con un’altra donna e, per un lasso di tempo sufficientemente ampio, esercitato le funzioni genitoriali congiuntamente, dando vita con le figlie minori a una comunità di affetti e di cure. La circostanza che aveva indotto la madre biologica a recidere un tale legame nei confronti della madre intenzionale, coincidente con il manifestarsi di situazioni conflittuali all’interno della coppia, ha reso evidente per la Corte costituzionale un vuoto di tutela. Pur in presenza di un rapporto di filiazione effettivo, consolidatosi nella pratica della vita quotidiana con la medesima madre intenzionale, nessuno strumento può essere, infatti, utilmente adoperato per far valere i diritti dei minori: il mantenimento, la cura, l’educazione, l’istruzione, la successione e, più semplicemente, la continuità e il conforto di abitudini condivise.
L’elusione del limite stabilito dall’art. 5 della legge n. 40 del 2004 per la Corte non evoca scenari di contrasto con principi e valori costituzionali, non essendo configurabile un divieto costituzionale, per le coppie omosessuali, di accogliere figli, pur spettando alla discrezionalità del legislatore la relativa disciplina e non esistendo neppure certezze scientifiche o dati di esperienza in ordine al fatto che l’inserimento del figlio in una famiglia formata da una coppia omosessuale abbia ripercussioni negative sul piano educativo e dello sviluppo della personalità del minore. Al contrario, è possibile evidenziare una preoccupante lacuna dell’ordinamento nel garantire tutela ai minori e ai loro migliori interessi, a fronte di quanto in forte sintonia affermato dalla giurisprudenza delle due corti europee, oltre che dalla giurisprudenza costituzionale, come necessaria permanenza dei legami affettivi e familiari, anche se non biologici, e riconoscimento giuridico degli stessi, al fine di conferire certezza nella costruzione dell’identità personale.
In particolare, la Corte sottolinea l’insufficienza del ricorso effettuato da parte di alcune pronunce della Corte di Cassazione all’adozione in casi particolari; la stessa, infatti, per come attualmente regolata, è resa impraticabile proprio nelle situazioni più delicate per il benessere del minore, quali sono la crisi della coppia e la negazione dell’assenso da parte del genitore biologico/legale, reso necessario dall’art. 46 della medesima legge n. 184 del 1983. La previsione di tale necessario assenso, d’altro canto, si lega alle caratteristiche peculiari dell’adozione in casi particolari, che opera in ipotesi tipiche e circoscritte, producendo effetti limitati, visto che non conferisce al minore lo status di figlio legittimo dell’adottante, non assicura la creazione di un rapporto di parentela tra l’adottato e la famiglia dell’adottante (considerata l’incerta incidenza della modifica dell’art. 74 cod. civ. operata dall’art. 1, comma 1, della legge 10 dicembre 2012, n. 219, recante «Disposizioni in materia di riconoscimento dei figli naturali») e non interrompe i rapporti con la famiglia d’origine.
Risulta, pertanto, evidente per la Corte che i nati a seguito di PMA eterologa praticata da due donne versano in una condizione deteriore rispetto a quella di tutti gli altri nati, solo in ragione dell’orientamento sessuale delle persone che hanno posto in essere il progetto procreativo. Essi, destinati a restare incardinati nel rapporto con un solo genitore, proprio perché non riconoscibili dall’altra persona che ha costruito il progetto procreativo, vedono gravemente compromessa la tutela dei loro preminenti interessi. La loro condizione rivela caratteri solo in parte assimilabili a un’altra categoria di nati cui, per molti anni, è stato precluso il riconoscimento dello status di figli (i cosiddetti figli incestuosi), destinatari di limitate forme di tutela, a causa della condotta dei genitori. Ciò ha indotto in passato la Corte di legittimità a ravvisare una capitis deminutio perpetua e irrimediabile, lesiva del diritto al riconoscimento formale di un proprio status filiationis, che è elemento costitutivo dell’identità personale, protetta, oltre che dagli artt. 7 e 8 della citata Convenzione sui diritti del fanciullo, dall’art. 2 della Costituzione, e in contrasto con il principio costituzionale di eguaglianza.
Nonostante il riscontrato vuoto di tutela dell’interesse del minore, tuttavia, la Corte ha ritenuto nella pronuncia in parola di non potervi porre rimedio, attirando, ancora una volta, sulla specifica materia eticamente sensibile l’attenzione del legislatore, al fine di individuare un ragionevole punto di equilibrio tra i diversi beni costituzionali coinvolti, nel rispetto della dignità della persona umana. Il legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità, dovrà al più presto colmare il denunciato vuoto di tutela, a fronte di incomprimibili diritti dei minori e, al riguardo, la Corte auspica una disciplina della materia che, in maniera organica, individui le modalità più congrue di riconoscimento dei legami affettivi stabili del minore, nato da PMA praticata da coppie dello stesso sesso, nei confronti anche della madre intenzionale. La Corte quindi afferma, in via esemplificativa, che l’intervento del legislatore potrà estrinsecarsi in una riscrittura delle previsioni in materia di riconoscimento, ovvero nell’introduzione di una nuova tipologia di adozione, che attribuisca, con una procedura tempestiva ed efficace, la pienezza dei diritti connessi alla filiazione. Solo un intervento del legislatore, che disciplini in modo organico la condizione dei nati da PMA da coppie dello stesso sesso, consentirà di ovviare alla frammentarietà e alla scarsa idoneità degli strumenti normativi ora impiegati per tutelare il “miglior interesse del minore”. Esso, inoltre, eviterebbe le “disarmonie” che potrebbero prodursi per effetto di un intervento mirato solo a risolvere il problema specificamente sottoposto all’attenzione della Corte di legittimità. Nel dichiarare l’inammissibilità della questione esaminata, per il rispetto dovuto alla prioritaria valutazione del legislatore circa la congruità dei mezzi adatti a raggiungere un fine costituzionalmente necessario, la Corte afferma con forza che non sarebbe più tollerabile il protrarsi dell’inerzia legislativa, in ragione della gravità del vuoto di tutela del preminente interesse del minore riscontrato.
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Il 9 marzo esce la sentenza della Corte Costituzionale n. 33 che dichiara l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 12, comma 6, della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), dell’art. 64, comma 1, lettera g), della legge 31 maggio 1995, n. 218 (Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato), e dell’art. 18 del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127), sollevate in riferimento agli artt. 2, 3, 30, 31 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), agli artt. 2, 3, 7, 8, 9 e 18 della Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con legge 27 maggio 1991, n. 176, e all’art. 24 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE).
In particolare, la Corte di legittimità richiama la qualificazione, operata dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione, del divieto penalmente sanzionato di surrogazione di maternità di cui all’art. 12, comma 6, della legge n. 40 del 2004 come principio di ordine pubblico, in quanto posto a tutela di valori fondamentali, tra cui segnatamente la dignità umana della gestante. In una precedente pronuncia della stessa Corte Costituzionale era stato affermato che la pratica della maternità surrogata offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane e che gli accordi di maternità surrogata comportano un rischio di sfruttamento della vulnerabilità di donne che versino in situazioni sociali ed economiche disagiate; situazioni che, ove sussistenti, condizionerebbero pesantemente la loro decisione di affrontare il percorso di una gravidanza nell’esclusivo interesse dei terzi, ai quali il bambino dovrà essere consegnato subito dopo la nascita. Tali preoccupazioni stanno verosimilmente alla base della condanna di «qualsiasi forma di maternità surrogata a fini commerciali» espressa dal Parlamento europeo nella propria Risoluzione del 13 dicembre 2016 sulla situazione dei diritti fondamentali nell’Unione europea nel 2015.
Nella pronuncia in parola la Corte Costituzionale mira a fornire una risposta all’interrogativo se il diritto vivente espresso dalle Sezioni Unite, alla luce della complessità della vicenda, sia compatibile con i diritti del minore sanciti da norme costituzionali e sovranazionali.
Ricorda la Corte di legittimità che il principio secondo cui in tutte le decisioni relative ai minori di competenza delle pubbliche autorità, compresi i tribunali, deve essere riconosciuto rilievo primario alla salvaguardia dei “migliori interessi” (best interests) o dell’“interesse superiore” (intérêt supérieur) del minore, fu espresso anzitutto nella Dichiarazione universale dei diritti del fanciullo, adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 20 novembre 1959. Tale principio è poi confluito nell’art. 3, comma 1, della Convenzione sui diritti del fanciullo e nell’art. 24, comma 2, CDFUE ed è stato altresì considerato dalla giurisprudenza della Corte EDU come specifica declinazione del diritto alla vita familiare di cui all’art. 8 CEDU.
Non v’è dubbio, secondo la Corte Costituzionale, che l’interesse di un bambino accudito sin dalla nascita da una coppia che ha condiviso la decisione di farlo venire al mondo è quello di ottenere un riconoscimento anche giuridico dei legami che, nella realtà fattuale, già lo uniscono a entrambi i componenti della coppia, ovviamente senza che ciò abbia implicazioni quanto agli eventuali rapporti giuridici tra il bambino e la madre surrogata. Questi legami sono parte integrante della stessa identità del bambino, che vive e cresce in una determinata famiglia, o comunque – per ciò che concerne le unioni civili – nell’ambito di una determinata comunità di affetti, essa stessa dotata di riconoscimento giuridico, e certamente riconducibile al novero delle formazioni sociali tutelate dall’art. 2 Cost.. Sicché indiscutibile è l’interesse del bambino a che tali legami abbiano riconoscimento non solo sociale ma anche giuridico, a tutti i fini che rilevano per la vita del bambino stesso – dalla cura della sua salute, alla sua educazione scolastica, alla tutela dei suoi interessi patrimoniali e ai suoi stessi diritti ereditari –; ma anche, e prima ancora, allo scopo di essere identificato dalla legge come membro di quella famiglia o di quel nucleo di affetti, composto da tutte le persone che in concreto ne fanno parte. E ciò anche laddove il nucleo in questione sia strutturato attorno ad una coppia composta da persone dello stesso sesso, dal momento che l’orientamento sessuale della coppia non incide di per sé sull’idoneità all’assunzione di responsabilità genitoriale. Ciò che rileva è unicamente l’interesse del minore a che sia affermata in capo a costoro la titolarità giuridica di quel fascio di doveri funzionali agli interessi del minore che l’ordinamento considera inscindibilmente legati all’esercizio di responsabilità genitoriali. Doveri ai quali non è pensabile che gli stessi possano ad libitum sottrarsi. Per tali ragioni, l’ormai consolidata giurisprudenza della Corte EDU afferma la necessità, al metro dell’art. 8 CEDU, che i bambini nati mediante maternità surrogata, anche negli Stati parte che vietino il ricorso a tali pratiche, ottengano un riconoscimento giuridico del legame di filiazione con entrambi i componenti della coppia che ne ha voluto la nascita, e che se ne sia poi presa concretamente cura. Né l’interesse del minore potrebbe ritenersi soddisfatto dal riconoscimento del rapporto di filiazione con il solo genitore “biologico”. Laddove, infatti, il minore viva e cresca nell’ambito di un nucleo composto da una coppia di due persone, che non solo abbiano insieme condiviso e attuato il progetto del suo concepimento, ma lo abbiano poi continuativamente accudito, esercitando di fatto in maniera congiunta la responsabilità genitoriale, egli avrà un preciso interesse al riconoscimento giuridico del proprio rapporto con entrambe, e non solo con il genitore che abbia fornito i propri gameti ai fini della maternità surrogata.
Secondo la Corte costituzionale, tuttavia, l’interesse del bambino non può essere considerato automaticamente prevalente rispetto a ogni altro controinteresse in gioco. La frequente sottolineatura della “preminenza” di tale interesse ne segnala l’importanza e lo speciale “peso” in qualsiasi bilanciamento; ma, anche rispetto all’interesse del minore, tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile, pertanto, individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri. Se così non fosse, si verificherebbe l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona. Gli interessi del minore devono quindi essere bilanciati, alla luce del criterio di proporzionalità, con lo scopo legittimo perseguito dall’ordinamento di disincentivare il ricorso alla surrogazione di maternità, penalmente sanzionato dal legislatore; scopo di cui si fanno carico le Sezioni Unite della Corte di cassazione, allorché negano la trascrivibilità di un provvedimento giudiziario straniero, nella parte in cui attribuisce lo status di genitore anche al componente della coppia che abbia partecipato alla surrogazione di maternità, senza fornire i propri gameti. Di tale bilanciamento tra gli interessi del bambino e la legittima finalità di disincentivare il ricorso a una pratica che l’ordinamento italiano considera illegittima e anzi meritevole di sanzione penale si è, del resto, fatta carico anche la giurisprudenza della Corte EDU. Dal complesso delle pronunce rese sul tema dalla Corte di Strasburgo, si evince, infatti, che – anche a fronte della grande varietà di approccio degli Stati parte rispetto alla pratica della maternità surrogata – ciascun ordinamento gode, in linea di principio, di un certo margine di apprezzamento in materia; ferma restando, però, la rammentata necessità di riconoscimento del «legame di filiazione» con entrambi i componenti della coppia che di fatto se ne prende cura. La Corte EDU riconosce, in particolare, che gli Stati parte possano non consentire la trascrizione di atti di stato civile stranieri, o di provvedimenti giudiziari, che riconoscano sin dalla nascita del bambino lo status di padre o di madre al “genitore d’intenzione”; e ciò proprio allo scopo di non fornire incentivi, anche solo indiretti, a una pratica procreativa che ciascuno Stato ben può considerare potenzialmente lesiva dei diritti e della stessa dignità delle donne che accettino di portare a termine la gravidanza per conto di terzi. Tuttavia, la stessa Corte EDU ritiene comunque necessario che ciascun ordinamento garantisca la concreta possibilità del riconoscimento giuridico dei legami tra il bambino e il “genitore d’intenzione”, al più tardi quando tali legami si sono di fatto concretizzati; lasciando poi alla discrezionalità di ciascuno Stato la scelta dei mezzi con cui pervenire a tale risultato, tra i quali si annovera anche il ricorso all’adozione del minore. Rispetto, peraltro, a quest’ultima soluzione, la Corte EDU sottolinea come essa possa ritenersi sufficiente a garantire la tutela dei diritti dei minori nella misura in cui sia in grado di costituire un legame di vera e propria “filiazione” tra adottante e adottato e a condizione che le modalità previste dal diritto interno garantiscano l’effettività e la celerità della sua messa in opera, conformemente all’interesse superiore del bambino. Il punto di equilibrio raggiunto dalla Corte EDU – espresso da una giurisprudenza ormai consolidata – secondo la Corte costituzionale appare corrispondente anche all’insieme dei principi sanciti in materia dalla Costituzione italiana. Essi per un verso non ostano alla soluzione, cui le sezioni unite civili della Cassazione sono pervenute, della non trascrivibilità del provvedimento giudiziario straniero, e a fortiori dell’originario atto di nascita, che indichino quale genitore del bambino il “padre d’intenzione”; ma per altro verso impongono che, in tal caso, sia comunque assicurata tutela all’interesse del minore al riconoscimento giuridico del suo rapporto con entrambi i componenti della coppia che non solo ne abbiano voluto la nascita in un Paese estero in conformità alla lex loci, ma che lo abbiano poi accudito esercitando di fatto la responsabilità genitoriale. Una tale tutela dovrà, in questo caso, essere assicurata attraverso un procedimento di adozione effettivo e celere, che riconosca la pienezza del legame di filiazione tra adottante e adottato, allorché ne sia stata accertata in concreto la corrispondenza agli interessi del bambino. Ogni soluzione che non dovesse offrire al bambino alcuna chance di un tale riconoscimento, sia pure ex post e in esito a una verifica in concreto da parte del giudice, finirebbe per strumentalizzare la persona del minore in nome della pur legittima finalità di disincentivare il ricorso alla pratica della maternità surrogata.
Il possibile ricorso all’adozione in casi particolari di cui all’art. 44, comma 1, lettera d), della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia) costituisce una forma di tutela degli interessi del minore certo significativa, ma ancora non del tutto adeguata al metro dei principi costituzionali e sovranazionali rammentati. L’adozione in casi particolari non attribuisce la genitorialità all’adottante. Inoltre, per la Corte pur a fronte della novella dell’art. 74 cod. civ., operata dall’art. 1, comma 1, della legge 10 dicembre 2012, n. 219 (Disposizioni in materia di riconoscimento dei figli naturali), che riconosce la generale idoneità dell’adozione a costituire rapporti di parentela, con la sola eccezione dell’adozione di persone di maggiore età, è ancora controverso – stante il perdurante richiamo operato dall’art. 55 della legge n. 184 del 1983 all’art. 330 cod. civ. – se anche l’adozione in casi particolari consenta di stabilire vincoli di parentela tra il bambino e coloro che appaiono socialmente, e lui stesso percepisce, come i propri nonni, zii, ovvero addirittura fratelli e sorelle, nel caso in cui l’adottante abbia già altri figli propri. Essa richiede inoltre, per il suo perfezionamento, il necessario assenso del genitore “biologico” (art. 46 della legge n. 184 del 1983), che potrebbe non essere prestato in situazioni di sopravvenuta crisi della coppia, nelle quali il bambino finisce per essere così definitivamente privato del rapporto giuridico con la persona che ha sin dall’inizio condiviso il progetto genitoriale, e si è di fatto presa cura di lui sin dal momento della nascita.
Al fine di assicurare al minore nato da maternità surrogata la tutela giuridica richiesta dai principi convenzionali e costituzionali attraverso l’adozione, essa dovrebbe dunque essere disciplinata in modo più aderente alle peculiarità della situazione in esame, che è in effetti assai distante da quelle che il legislatore ha inteso regolare per mezzo dell’art. 44, comma 1, lettera d), della legge n. 184 del 1983. Il compito di adeguare il diritto vigente alle esigenze di tutela degli interessi dei bambini nati da maternità surrogata – nel contesto del difficile bilanciamento tra la legittima finalità di disincentivare il ricorso a questa pratica, e l’imprescindibile necessità di assicurare il rispetto dei diritti dei minori, nei termini sopra precisati – non può che spettare, secondo la Corte costituzionale, in prima battuta, al legislatore, al quale deve essere riconosciuto un significativo margine di manovra nell’individuare una soluzione che si faccia carico di tutti i diritti e i principi in gioco. Pertanto, di fronte al ventaglio delle opzioni possibili, tutte compatibili con la Costituzione e tutte implicanti interventi su materie di grande complessità sistematica, Corte di legittimità afferma la necessità di arrestarsi e cedere doverosamente il passo alla discrezionalità del legislatore, nella ormai indifferibile individuazione delle soluzioni in grado di porre rimedio all’attuale situazione di insufficiente tutela degli interessi del minore.
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Il 31 marzo esce la sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n, 9006 secondo la quale non contrasta con i principi di ordine pubblico internazionale il riconoscimento degli effetti di un provvedimento giurisdizionale straniero di adozione di minore da parte di coppia omoaffettiva maschile che attribuisca lo status genitoriale secondo il modello dell’adozione piena o legittimante, non costituendo elemento ostativo il fatto che il nucleo familiare del figlio minore adottivo sia omogenitoriale ove sia esclusa la preesistenza di un accordo di surrogazione di maternità a fondamento della filiazione.
Al riguardo, in via preliminare, le Sezioni Unite affermano che la controversia che origina dal rifiuto di trascrizione del provvedimento giurisdizionale estero di costituzione dello status filiationis, sia assoggettata al procedimento disciplinato dalla L. n. 218 del 1995, art. 67 e la competenza in unico grado sia da attribuire alla Corte d’Appello.
Con riferimento al perimetro del sindacato giurisdizionale in tema di riconoscimento di provvedimenti giurisdizionali esteri, la valutazione, secondo le Sezioni Unite, deve essere limitata agli effetti che l’atto è destinato a produrre nel nostro ordinamento e non alla conformità della legge estera, posta a base del provvedimento, alla nostra legge interna regolativa degli stessi istituti. In particolare, in tema di riconoscimento di atti esteri incidenti sui rapporti familiari, deve escludersi il sindacato sulla correttezza giuridica della soluzione adottata né in relazione all’ordinamento straniero né in relazione a quello italiano, non essendo consentito un controllo di tipo contenutistico sul provvedimento di cui si chiede il riconoscimento.
La pronuncia in parola affronta quindi la questione relativa alla compatibilità degli effetti del provvedimento straniero con i principi di ordine pubblico che ove contrastanti possono limitarne od escluderne il riconoscimento.
La Suprema Corte pone in evidenza con nettezza l’estraneità della fattispecie da quella formante oggetto della sentenza delle S.U. n. 12193 del 2019, non essendo stato sottoposto al controllo di compatibilità con i principi di ordine pubblico il riconoscimento di uno status genitoriale costituito all’estero per mezzo della tipologia di procreazione medicalmente assistita eterologa definibile come gestazione per altri (nel caso in specie infatti era stata accertato che entrambi i genitori biologici avevano prestato il relativo consenso all’adozione del minore)..
Con riferimento alla questione della compatibilità dello status genitoriale, di natura intrinsecamente adottiva, acquisito da coppia omogenitoriale maschile con i principi attualmente costituenti l’ordine pubblico internazionale, le Sezioni Unite ritengono di prestare convinta adesione alla nozione di ordine pubblico internazionale elaborata nella pronuncia delle S.U. n. 16601 del 2017 e ribadita nella più recente n. 12193 del 2019. Entrambe le pronunce si collocano nel solco della concezione aperta ed universalistica dell’ordine pubblico internazionale, già espressa in precedenti orientamenti, riconoscendo ai principi di ordine pubblico internazionale non soltanto la funzione di limite all’applicazione della legge straniera (L. n. 218 del 1995, art. 16) e al riconoscimento di atti e provvedimenti stranieri (L. n. 218 del 1995, art. 64), ma anche quella di promozione e garanzia di tutela dei diritti fondamentali della persona, attraverso i principi provenienti dal diritto dell’Unione Europea, delle Convenzioni sui diritti della persona cui l’Italia ha prestato adesione e con il contributo essenziale della giurisprudenza della Corte di Giustizia e della Corte Europea dei diritti umani. A comporre il complesso dei principi fondamentali e caratterizzanti il profilo etico giuridico dell’ordinamento di un determinato periodo storico, secondo la definizione accolta da dottrina internazionalistica autorevole, concorrono non soltanto il sistema dei principi e valori derivanti dalla Costituzione ma anche quelli desumibili dalle leggi ordinarie quando come nervature sensibili, fibre dell’apparato sensoriale e delle parti vitali di un organismo, inverano l’ordinamento costituzionale.
L’operazione da svolgere, secondo la pronuncia in esame, non ha ad oggetto la coerenza della normazione interna di uno o più istituti con quella estera che ha condotto alla formazione del provvedimento giurisdizionale di cui si chiede il riconoscimento, ma la verifica della compatibilità degli effetti che l’atto produce (nella specie l’attribuzione di uno status genitoriale adottivo) con i limiti non oltrepassabili, costituiti dai principi fondanti l’autodeterminazione e le scelte relazionali del minore e degli aspiranti genitori (art. 2 Cost.; art. 8 Cedu); dal principio del preminente interesse del minore di origine convenzionale ma ampiamente attuato in numerose leggi interne ed in particolare nella recente riforma della filiazione (Legge Delega n. 219 del 2012, D.Lgs. n. 153 del 2013); dal principio di non discriminazione, rivolto sia a non determinare ingiustificate disparità di trattamento nello status filiale dei minori con riferimento in particolare al diritto all’identità ed al diritto di crescere nel nucleo familiare che meglio garantisca un equilibrato sviluppo psico-fisico nonché relazionale sia a non limitare la genitorialità esclusivamente sulla base dell’orientamento sessuale della coppia richiedente; dal principio solidaristico che è alla base della genitorialità sociale sulla base del quale la legge interna (L.n. 184 del 1983 così come modificata dalla L. n. 149 del 2001 e dalla recente legge sulla continuità affettiva n. 173 del 2015) e il diritto vivente hanno concorso a creare una pluralità di modelli di genitorialità adottiva, unificati dall’obiettivo di conservare la continuità affettiva e relazionale ove già stabilizzatasi nella relazione familiare. I principi enucleati peraltro risultano strettamente interconnessi essendo l’uno funzionale all’inveramento dell’altro, così come le leggi, in larga parte riformatrici, che li esprimono e li attuano.
Secondo le Sezioni Unite, laddove, manchi la condizione negativa della gestazione per altri, e nella specie, anche l’operatività del divieto di accesso alla p.m.a. alle coppie omoaffettive, la contrarietà ai principi di ordine pubblico appare riconducibile soltanto alle norme interne limitative della genitorialità adottiva e al paradigma eterosessuale delle unioni matrimoniali. La Suprema Corte rileva che l’ininfluenza dell’orientamento sessuale nelle controversie riguardanti l’affidamento dei minori e la responsabilità genitoriale all’interno del conflitto familiare costituiscono un approdo fermo nella giurisprudenza di legittimità, così come per l’accesso all’adozione non legittimante delle coppie omoaffettive. La conclusione univocamente assunta dalla giurisprudenza di legittimità che si è espressa al riguardo si fonda sulla considerazione della mancanza di riscontri scientifici sulla inidoneità genitoriale di una coppia formata da persone dello stesso sesso.
Il limite, dovuto alla contrarietà ai principi di ordine pubblico internazionale, al riconoscimento di status genitoriali contenuti in provvedimenti esteri, richiesti da componenti di coppie omoaffettive, è stato individuato in precedenti pronunce, esclusivamente nel ricorso alla gestazione per altri, limite peraltro comune anche alle coppie eterosessuali. In particolare, non sono stati ritenuti incidenti sulla valutazione di compatibilità della omogenitorialità con i nostri principi di ordine pubblico internazionale i limiti derivanti dalla legislazione interna in tema di accesso all’adozione legittimante (L. n. 184 del 1983, art. 6) previsto soltanto per le coppie eterosessuali coniugate e dalla legge sulle unioni civili che non ha espressamente esteso alle coppie omoaffettive l’accesso all’adozione legittimante, lasciando tuttavia aperta la strada all’adozione in casi particolari, in quanto già riconosciuta dalla giurisprudenza sulla base delle norme vigenti (L. n. 76 del 2016, art. 1, comma 20). Non è stato ritenuto riconducibile ai principi di ordine pubblico internazionale il regime codicistico della prova della filiazione in relazione al riconoscimento di provvedimento estero costitutivo di status genitoriale in coppia omogenitoriale femminile. La valutazione di compatibilità è stata, fino al momento attuale, compiuta assumendo come principi cardine il diritto del minore alla conservazione dell’identità e della stabilità familiare e il favor verso la continuità degli status filiali da bilanciare, tuttavia, con il limite incomprimibile della dignità dei soggetti coinvolti, senza includere, però, nel perimetro dei principi di ordine pubblico internazionale né le norme interne che escludono l’accesso alle procreazione medicalmente assistita alle coppie omoaffettive né quelli che introducono il medesimo limite all’adozione legittimante, attualmente consentita soltanto a coppie unite in matrimonio. La condizione soggettiva costituita dall’eterosessualità della coppia che resiste all’interno del nostro ordinamento anche in relazione all’accesso all’unione matrimoniale, introduce un limite che definisce, allo stato attuale, la disciplina normativa applicabile ad alcuni istituti. Fino al momento attuale, evidenziano le Sezioni Unite, tale limite non è stato elevato al rango di principio di ordine pubblico internazionale, alla luce della continua e crescente attenzione ad una prospettiva maggiormente inclusiva dei modelli relazionali e familiari che richiedono riconoscimento e tutela, realizzata mediante un’interpretazione aperta dell’art. 2 Cost e dell’art. 8 Cedu. In particolare, per le coppie omoaffettive la condivisione della necessità di un riconoscimento giuridico e di una tendenziale equiparazione al sistema di tutela proprio dell’unione matrimoniale è stata ampiamente realizzata con la L. n. 76 del 2016 dopo il forte monito della CEDU. Il margine di apprezzamento degli Stati e la conseguente discrezionalità legislativa interna nell’introdurre alcune condizioni a tale equiparazione oltre a non poter oltrepassare il limite della proporzionalità tra il sacrificio del diritto fondamentale in gioco e l’interesse di rilievo pubblicistico che sottende la limitazione, non modifica il riconoscimento, costituzionale e convenzionale, delle unioni omoaffettive come luoghi in cui si sviluppa la personalità dei soggetti coinvolti (art. 2 Cost.) anche in ordine all’aspirazione alla genitorialità, quando si formi in un contesto relazionale caratterizzato da stabilità giuridica ed effettiva (art. 8 Cedu) e, soprattutto non può incidere sulla centralità del preminente interesse del minore nelle decisioni che riguardano il suo diritto all’identità ed ad uno sviluppo individuale e relazionale equilibrato e senza strappi.
A seguito dell’esame dei più recenti interventi della giurisprudenza costituzionale e di legittimità, la Suprema Corte afferma l’impossibilità di introdurre tra i principi di ordine pubblico internazionale che possono costituire il limite al riconoscimento dell’atto estero che forma oggetto del presente giudizio, le condizioni di accesso alla genitorialità adottiva legittimante contenute nella L. n. 184 del 1983, art. 6 e dalla L. n. 76 del 2016, art. 1, comma 20. I divieti all’accesso alle procreazioni medicalmente assistite, non riconducibili ai principi di ordine pubblico internazionale, sono anche estranei al riconoscimento della genitorialità esclusivamente adottiva.
Nell’ordinamento coesistono principi di derivazione costituzionale e convenzionale che si pongono rispetto ad essi in una condizione di netta sovraordinazione e preminenza sia per la loro collocazione tra i diritti inviolabili della persona sia per il grado di condivisione che ne costituisce un tratto peculiare. In primo luogo, il principio del preminente interesse del minore nelle determinazioni che incidono sul suo diritto all’identità, alla stabilità affettiva, relazionale e familiare, contenuto nell’art. 24 della Carta dei diritti fondamentali della Unione Europea, nell’art. 3 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo e divenuto parte integrante della costruzione del diritto alla vita privata e familiare ad opera della Corte Europea dei diritti umani oltre che fondamento della riforma della L. n. 184 del 1983 ad opera della L. n. 149 del 2001 e della recente Legge sulla continuità affettiva (n. 173 del 2015) nonché di tutta la disciplina legislativa relativa alla responsabilità genitoriale, e agli status filiationis, essendo una delle estrinsecazioni più rilevanti dell’art. 2 Cost.
In secondo luogo, il principio della parità di trattamento tra tutti i figli, nati all’interno e fuori del matrimonio o adottivi, che trova la sua fonte costituzionale negli artt. 3 e 31 Cost. e che è stato inverato dalla recente riforma della filiazione (L. n. 219 del 2012; D.Lgs. n. 154 del 2013). Al riguardo, proprio in relazione alla filiazione adottiva, attualmente ripartita tra l’adozione legittimante e quella in casi particolare, deve essere rimarcata, secondo la Suprema Corte, l’innovazione relativa all’art. 74 c.c. che ha reso unico, senza distinzioni, il vincolo di parentela che scaturisce dagli status filiali, con la sola eccezione dell’adozione dei maggiorenne, così da ingenerare perplessità in dottrina sulla compatibilità costituzionale della conservazione di un regime differenziato nei diversi modelli di genitorialità adottiva nel nostro ordinamento.
Il panorama dei principi intangibili in tema di tutela degli status filiali, fortemente caratterizzato dall’obiettivo di non creare discriminazioni nel regime giuridico di tutela dei minori è completato dalla considerazione che il quadro attuale della genitorialità sociale è molto composito. Oltre alla espressa estensione alle persone singole della adozione in casi particolari, la giurisprudenza costituzionale e la giurisprudenza di legittimità che si sono trovate fin dagli anni 90 a confrontarsi con le richieste di costituzione di status genitoriali adottivi da parte di soggetti diversi dalle coppie coniugate eterosessuali, hanno unanimemente riconosciuto l’esigenza di ampliare le condizioni di accesso all’adozione legittimante ed hanno sollecitato il legislatore al riguardo, ritenendo che ciò corrispondesse non solo ad una sensibilità condivisa ma anche alle indicazioni della Convenzione sulle adozioni firmata a Strasburgo il 24/4/1967 che impone di trovare per il minore un “foyer stable et harmonieux”. In tempi più recenti, in relazione alle istanze delle coppie omoaffettive rivolte alla realizzazione della genitorialità all’interno di un nucleo relazionale stabile e prevalentemente sostenuto da un riconoscimento giuridico in Italia od all’estero, è stata individuata proprio nel modello adottivo indicato nella L. n. 184 del 1983, art. 44, lett. d) la forma di riconoscimento minimo e residuale anche per i minori venuti al mondo all’esito di un accordo di surrogazione di maternità.
Alla forte promozione della giurisprudenza costituzionale, sovranazionale e di legittimità di un regime giuridico interno di accesso alla genitorialità sociale meno restrittivo e più vicino alla evoluzione condivisa dei modelli relazionali e filiali si collega indissolubilmente per le Sezioni Unite il superamento, sotto il profilo dei principi di ordine pubblico internazionale, della limitazione alla coppia eterosessuale unita in matrimonio dell’accesso all’adozione legittimante stabilita nell’art. 6. Le Sezioni Unite precisano, altresì, che l’unione matrimoniale così come prevista nell’art. 29 Cost. costituisce il modello di relazione familiare fornito, allo stato attuale della regolazione interna, del massimo grado di tutela giuridica ma in relazione agli status genitoriali non costituisce più, soprattutto dopo la riforma della filiazione, il modello unico o quello ritenuto esclusivamente adeguato per la nascita e la crescita dei figli minori e conseguentemente deve escludersi che possa essere ritenuto un limite al riconoscimento degli effetti di un atto che attribuisce la genitorialità adottiva ad una coppia omoaffettiva, peraltro unita in matrimonio, tanto più che in relazione alla genitorialità sociale l’imitatio naturae manca ab origine ed è ampiamente compensata dalle ragioni solidaristiche dell’istituto e, con riferimento al minore, dalla realizzazione, da assoggettarsi a verifica giurisdizionale, del processo di sviluppo personale e relazionale più adeguato alla sua crescita.
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Il 23 aprile esce l’ordinanza della I sezione della Cassazione n. 10849 che conferma l’orientamento secondo il quale la temporanea autorizzazione alla permanenza in Italia del familiare del minore, prevista dall’art. 31 del d.lgs. n. 286 del 1998 in presenza di gravi motivi connessi al suo sviluppo psico-fisico, non richiede necessariamente l’esistenza di situazioni di emergenza o di circostanze contingenti ed eccezionali strettamente collegate alla sua salute, potendo comprendere qualsiasi danno effettivo, concreto, percepibile ed obiettivamente grave che in considerazione dell’età o delle condizioni di salute ricollegabili al complessivo equilibrio psico-fisico, deriva o deriverà certamente al minore dall’allontanamento del familiare o dal suo definitivo sradicamento dall’ambiente in cui è cresciuto. In particolare, il giudice del merito deve svolgere un giudizio prognostico che, alla luce delle allegazioni delle parti e dei riscontri probatori anche provenienti da relazioni di agenzie pubbliche o indagini tecniche, conduca a comprendere se l’allontanamento del familiare possa determinare nel minore, in relazione alla sua attuale condizione di vita, un grave disagio psico-fisico dovuto al suo rimpatrio o, nell’ipotesi in cui, al rigetto della domanda debba conseguire anche l’allontanamento del minore, se il definitivo sradicamento dall’habitat sociale, relazionale, culturale e linguistico nel quale vive, possano produrre le conseguenze pregiudizievoli previste dalla norma, tenuto conto delle condizioni di salute e dell’età. Al riguardo, è necessario partire dalla valutazione della situazione attuale del minore come primo termine di paragone per la prognosi da svolgere sia in relazione all’allontanamento di uno dei genitori sia in relazione al suo rimpatrio ove l’irregolarità del soggiorno riguardi entrambi. Per svolgere questa indagine è necessario tenere conto di tutte le emergenze probatorie esterne ai soggetti coinvolti oltre alle condizioni soggettive ed oggettive dei soggetti coinvolti così come allegate. Solo all’esito della valutazione di tutti questi elementi si può pervenire alla verifica della sussistenza o della mancanza del grave disagio psicofisico del minore, derivante dal rimpatrio del familiare o dal suo sradicamento. Si tratta di un giudizio che ha ad oggetto indici provenienti esclusivamente dalla situazione fattuale dei soggetti coinvolti, da eventuali accertamenti tecnici su di essi, o anche, trattandosi della tutela dei minori, su relazioni di servizi pubblici dedicati all’osservazione e al sostegno dei minori e delle famiglie, o scolastici. Tale giudizio, tuttavia, non può fondarsi su considerazioni generali relative alla sicurezza pubblica e alle politiche migratorie, ma deve fondarsi su una rigorosa operazione di bilanciamento che conduca, nel caso concreto, in considerazione della peculiare situazione del genitore o dei genitori, a ritenere che l’interesse del minore pur prioritario nella considerazione della norma, possa essere recessivo, non avendo, come ampiamente chiarito dalla giurisprudenza della Corte EDU, sull’interpretazione dell’art. 8, carattere assoluto. Tanto meno, secondo la Suprema Corte, il giudizio può fondarsi sul mero rilievo che l’autorizzazione è stata già richiesta e, dunque, rischia di perdere il requisito della temporaneità, dal momento che l’elemento temporale non è uno dei requisiti e delle condizioni di riconoscimento del diritto ma indica esclusivamente una caratteristica legata alla durata del permesso, considerata, tuttavia, in relazione alle singole richieste. Non è esclusa, pertanto, la possibilità di un rinnovo, tenuto conto del prioritario interesse del minore, ove sia compiuto in termini favorevoli un giudizio prognostico all’attualità. Infine, la Suprema Corte precisa che nel giudizio prognostico, ove il rimpatrio riguardi tutta la famiglia, non può essere esclusa la valutazione del deterioramento grave della condizione economica del nucleo familiare, ove privo di prospettive di occupazione in caso di rimpatrio.
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Il 25 giugno esce la sentenza della Corte costituzionale n. 133 che dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 263, terzo comma, c.c., come modificato dall’art. 28, comma 1, del d. lgs. n. 154/2013, nella parte in cui non prevede che, per l’autore del riconoscimento, il termine annuale per proporre l’azione di impugnazione decorra dal giorno in cui ha avuto conoscenza della non paternità. Al riguardo, la Corte afferma preliminarmente che la riforma dell’art. 263 c.c., introdotta con il d.lgs. n. 154 del 2013, ha profondamente innovato la precedente disciplina, nell’ambito di una novella legislativa che, pur avendo mantenuto distinte le azioni di stato, si è ispirata all’obiettivo di eliminare ogni discriminazione tra i figli nel rispetto dell’articolo 30 della Costituzione. In particolare, al precedente regime in materia di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità, tutto improntato al favor veritatis, è subentrata una regolamentazione che ha notevolmente rafforzato l’esigenza di stabilità dello status filiationis e di tutela del figlio. La modifica del dato normativo è stata, poi, accompagnata da pronunce della Corte costituzionale che hanno precisato la necessaria sussistenza di uno spazio di bilanciamento in concreto fra gli interessi implicati, affidato alla valutazione giudiziale. L’art. 263 c.c. sottende l’esigenza di operare una razionale comparazione degli interessi in gioco, alla luce della concreta situazione dei soggetti coinvolti, posto che la regola di giudizio che il giudice è tenuto ad applicare in questi casi deve tenere conto di variabili molto più complesse della rigida alternativa vero o falso. Tutto ciò premesso, la Corte nella pronuncia in parola rileva che l’art. 263 c.c. regola qualsivoglia ipotesi di impugnazione per difetto di veridicità, abbracciando tanto casi di riconoscimento effettuato nella consapevolezza della non paternità, quanto ipotesi in cui il consenso all’atto personalissimo si fondi sull’erronea supposizione del legame biologico. Secondo la Corte, mentre può ritenersi non irragionevole che il termine annuale decorra dall’annotazione del riconoscimento per chi abbia posto in essere l’atto nella consapevolezza della non paternità biologica, per converso, evidenzia una palese irragionevolezza nel far decorrere il medesimo termine dall’annotazione del riconoscimento, per chi ignorasse il difetto di veridicità, limitando la possibilità di far valere la decorrenza del termine dalla scoperta della non paternità alla sola ipotesi dell’impotenza. Da tale considerazione discende una irragionevole disparità di trattamento fra autori del riconoscimento, che possano provare l’impotenza, e autori del riconoscimento non affetti da tale patologia, che siano parimenti venuti a conoscenza della non veridicità della paternità biologica, quando oramai sia decorso il termine annuale conteggiato a partire dall’annotazione del riconoscimento. La norma in parola comporta, secondo la Corte, una irragionevole disparità di trattamento anche nel confronto tra le regole dettate per il padre che intenda far valere la verità biologica, impugnando il riconoscimento, e quelle previste per il padre che agisca per il disconoscimento di paternità. Il padre non coniugato, infatti, può dimostrare solo l’impotenza, onde far decorrere il termine annuale di decadenza da un dies a quo diverso rispetto all’annotazione del riconoscimento; il padre coniugato può, invece, avvalersi anche di altre prove, tra cui quella dell’adulterio, onde sottrarsi al dies a quo che altrimenti decorre dalla nascita. Anche a fronte di tale diversità di trattamento, che finisce per rendere più stabile lo status filiationis sorto al di fuori del matrimonio rispetto a quello del figlio concepito o nato durante il matrimonio, la Corte di legittimità ritiene, dunque, fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 263, terzo comma, cod. civ., nella parte in cui non prevede che il termine annuale di decadenza decorra per l’autore del riconoscimento dalla mera scoperta della non paternità, che in sé abbraccia qualsivoglia ragione l’abbia determinata. In tal modo, si garantisce al padre non coniugato una disciplina sul termine di decadenza annuale dall’azione, che presenta una latitudine analoga a quella spettante al padre coniugato, pur se questi, per sottrarsi alla decadenza del termine, è onerato dalla prova delle singole ragioni di sospetto o di acquisita certezza della non paternità, individuate dall’art. 244, secondo e terzo comma, c.c.
Questioni intriganti
Cosa ha spinto il legislatore italiano a rivedere la disciplina della filiazione negli anni 2012-13?
- in primo luogo si è trattato di rispettare le prescrizioni della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), laddove prescrive il divieto di discriminazione basato sulla nascita, affiorando la necessità di elidere qualunque differenza di disciplina tra la condizione di chi nasce all’interno di una famiglia fondata sul matrimonio (e dunque da genitori coniugati) e di chi è invece concepito da genitori “non coniugi”;
- ne è scaturita la sostanziale equiparazione tra figli legittimi e figli c.d. naturali;
- ciò anche in considerazione della circostanza onde si sono rivelati non infrequenti i casi in cui un figlio consapevole ab origine di essere legittimo si sia ritrovato ad essere considerato dall’ordinamento un figlio “naturale” e dunque – prima della riforma – in uno status considerato degno di minor tutela; ciò anche in conseguenza della progressiva erosione – siccome operata dalla giurisprudenza, anche della Corte costituzionale -del c.d. favor legitimitatis a favore dell’opposto favor veritatis, tendendosi dunque sempre più a far affiorare il “vero” status (naturale) del figlio piuttosto che accontentarsi di una “legittimità” non corrispondente al vero;
- in sostanza, la filiazione viene allora “sganciata” dal matrimonio, onde lo status di “figlio” viene tutelato in quanto tale, in termini di relativa condizione giuridica, lasciando in disparte il tipo di vincolo che eventualmente avvince i relativi genitori;
- in questo modo, senza ad un tempo svilire il matrimonio, viene tuttavia messo in primo piano – sulla scorta della giurisprudenza convenzionale di cui alla Corte EDU, sviluppatasi nella interpretazione dell’art.21 della Carta di Nizza – il valore di tipo “originale” (e non già “dipendente” dal matrimonio dei genitori) della filiazione, rendendo protagonista il preminente interesse del minore;
- ciò anche in coerenza con quel principio di responsabilità per la procreazione scolpito all’art.30, comma 1, Cost., alla cui stregua è dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, “anche se nati fuori del matrimonio”;
- la riforma ha anche creato, innovando sul punto, un vincolo giuridico – rilevante a fini alimentari e successori – tra figlio nato fuori dal matrimonio e parenti del proprio genitore, giusta estensione del concetto di parentela di cui all’art.74 c.c., che quale “parentela naturale” coinvolge ormai, per l’appunto, anche i figli nati fuori dal matrimonio (e quelli adottivi) che, in quanto “parenti”, hanno – come i figli nati in contesto matrimoniale – diritti sia sul crinale successorio che su quello degli alimenti.
Quali problemi pone la formazione di una “nuova famiglia” da parte di chi ha già dei figli nati da una precedente relazione?
- per quanto riguarda il c.d. “inserimento” dei figli in una “nuova” famiglia, occorre ancora distinguere, sulla scorta dell’art.252 c.c.: a.1) si tratta di prole nata da un precedente matrimonio: in questo caso i genitori (legittimi) possono liberamente concordare che loro figlio sia accolto nella “nuova famiglia” formata dall’uno o dall’altro dei genitori medesimi; a.2) si tratta di prole naturale riconosciuta (ancorché non adulterina) nata fuori dal matrimonio: in questo caso i genitori “naturali” possono concordare che loro figlio sia accolto nella “nuova famiglia” formata dall’uno o dall’altro dei genitori medesimi, ma occorre in più – nel contesto della “nuova famiglia” – il consenso del coniuge convivente non genitore e, entro determinati limiti, dei figli oltre i 16 anni conviventi, oltre all’autorizzazione del giudice;
- la dottrina più illuminata evidenzia in proposito come simile “svista” del Legislatore possa avere ricadute in termini di frizione con la Costituzione e con la CEDU, anche in termini di violazione del principio di proporzionalità, sol che si consideri come i figli “legittimi” – per i quali, in quanto tali, è più semplice trovarsi accolti nella “nuova famiglia” di uno dei relativi genitori – sono ormai anche i figli di genitori bigami, stante la riforma dell’art.128, comma 4, c.c. (ad opera del decreto legislativo 154.13), onde la disciplina del matrimonio putativo, è ormai da assumersi estesa anche ai figli di genitori bigami (che, come tali, si considerano dunque, ed appunto, “legittimi”), quand’anche essi siano stati in mala fede (l’estensione ridetta non si applica invece ai figli adulterini);
- peraltro la legge delega 219.12 ha previsto [art.2, comma 1, lettera e), n.1)] che la disciplina attinente all’inserimento del figlio riconosciuto nella “nuova famiglia” dell’uno o dell’altro genitore venga adeguata al principio di unificazione dello status di figlio, demandando esclusivamente al giudice la valutazione di compatibilità di cui all’art 30, terzo comma, della Costituzione, alla cui stregua “la legge assicura ai figli nati fuori del matrimonio ogni tutela giuridica e sociale, compatibile con i diritti dei membri della famiglia legittima”: senonché l’art.252, comma 5, c.c., come modificato dal decreto legislativo delegato 154.13, lungi dal demandare in via esclusiva al giudice la compatibilità di ascendenza costituzionale ridetta, rende del tutto insuperabile per il giudice medesimo (che pure può superare altre opposizioni: quella dell’altro genitore naturale e quello dei figli conviventi ultrasedicenni) l’eventuale dissenso espresso, nell’ambito della “nuova famiglia”, dal coniuge convivente di quel genitore naturale che vorrebbe ivi accogliere il proprio figlio avuto da una precedente relazione, e che potrebbe dunque trovare un ostacolo decisivo nel soggetto con il quale è convolato a nozze, che non è genitore del (previo) figlio naturale e che non lo vuole nella “nuova famiglia”; si tratta di una evidente discrasia tra decreto delegato e legge di delega che sembra patentemente confliggere con il diritto di ogni figlio di crescere “in famiglia”.
Cosa occorre rammentare della c.d. “responsabilità genitoriale” post riforma 2012/13?
- non se ne rinviene – nel contesto letterale della riforma – una precisa definizione;
- si è trattato di una consapevole scelta del Legislatore del 2012/13, come risulta dalla Relazione di accompagnamento che prende atto di come il codice civile originario non contenga definizioni, ed assumendo coerentemente opportuno mantenere ferma, per omogeneità sistematica, la pertinente opzione; si è del pari assunto inopportuno distinguere due nozioni, quella di “responsabilità genitoriale” e quella di “potestà genitoriale”, perché ciò avrebbe imposto la fissazione di limiti dell’una o dell’altra nozione difficilmente conciliabili da un punto di vista logico, prima che giuridico, con la materia trattata;
- in sostanza, seguendo pedissequamente le scelte del legislatore del 1942, che non definì la “potestà genitoriale” (dizione ormai abbandonata), la Riforma non definisce a propria volta la “responsabilità genitoriale”, potendo in tal modo la relativa nozione essere riempita di contenuti a seconda dell’evoluzione socio-culturale dei rapporti genitori-figli, in guisa adattabile alle relative, eventuali e future evoluzioni; la responsabilità genitoriale ha quale oggetto principale l’adempimento degli obblighi corrispondenti ai diritti previsti dall’art. 315 bis c.c,, nel rispetto (o, comunque, tenendo conto) delle capacità, inclinazioni naturali e aspirazioni del figlio; i poteri di amministrazione e rappresentanza, l’usufrutto legale e il potere di richiamo alla casa familiare, che vi attengono, cessando con il raggiungimento della maggiore età del figlio o con l’emancipazione del figlio minore;
- secondo la Relazione illustrativa, la responsabilità genitoriale non viene meno con la maggiore età del “figlio” perdurando essa piuttosto, quantomeno nella relativa componente “economica”, sino a che il figlio stesso non abbia raggiunto una propria autonomia ed indipendenza;
- essa deve essere esercitata tenendo conto: e.1) delle capacità del figlio; e.2) delle inclinazioni naturali del figlio; e.3) delle aspirazioni del figlio;
- a seguito della riforma, l’esercizio della responsabilità genitoriale spetta, con i poteri ad essa annessi, ad entrambi i genitori che abbiano riconosciuto il figlio nato fuori dal matrimonio, palesandosi peraltro irrilevante la loro convivenza, onde anche nella filiazione fuori dal matrimonio ogni decisione che riguardi il figlio va presa di comune accordo tra i genitori che abbiano riconosciuto il figlio medesimo, stabilendo in primo luogo la residenza abituale del minore;
- laddove entrambi i genitori abbiano convenuto che il figlio conviva con uno solo di essi, tale circostanza non fa per ciò solo venire meno il diritto dell’altro genitore ad esercitare i poteri connessi con la responsabilità genitoriale, salvo che non ricorrano i requisiti della lontananza scolpiti all’art. 317 c.c.;
- nel solo caso di conflitto tra i genitori – che abbiano interrotto la convivenza o che non siano mai stati conviventi – in ordine alle modalità con le quali il figlio deve mantenere i rapporti con ciascuno dei essi, si può fare applicazione della disciplina, comune anche alla fattispecie della crisi della famiglia legittima, di cui agli articoli 337 bis ss. c.c., che consente al giudice di determinare le regole dell’affidamento condiviso o, in casi eccezionali, di disporre l’affidamento esclusivo, limitando per conseguenza l’esercizio della responsabilità genitoriale che spetterebbe al genitore non affidatario;
- il genitore che non esercita la responsabilità genitoriale vigila – ex art.316, comma 5, c.c. – sull’istruzione, sull’educazione e sulle condizioni di vita del figlio; si tratta di norma che riguarda il caso dell’affidamento del minore ad uno solo dei genitori, da applicarsi in combinato disposto con il nuovo art.337 quater c,c., onde il genitore non affidatario può rivolgersi al giudice quando ritenga che siano state assunte decisioni pregiudizievoli all’interesse del figlio;
- con la riforma, infine, il padre ha perduto il potere di adottare provvedimenti indifferibili e urgenti nel caso di incombente pericolo di un grave pregiudizio per il figlio, in attuazione del principio di non discriminazione che richiede anche in simili fattispecie sempre il comune consenso di entrambi i genitori.
Cosa occorre rammentare della c.d. “PMA”, “procreazione medicalmente assistita”?
- si tratta di un fenomeno affiorato e sviluppatosi negli ultimi lustri, che si intreccia con il c.d. diritto ad essere genitore e, dunque, ad avere un figlio;
- l’anelito alla procreazione potrebbe trovare un ostacolo in patologie (ad esempio la sterilità) che affliggano uno o entrambi gli aspiranti genitori, di sesso diverso; potrebbe altresì trovare un ostacolo – per ovvie ragioni – nel caso in cui gli aspiranti genitori siano dello stesso sesso;
- in entrambi i casi l’anelito alla procreazione potrebbe trovare una realizzazione attraverso tecniche di “procreazione medicalmente assistita”, e dunque avvalendosi dell’opera di professionisti della medicina (fecondazione c.d. omologa, “interna” alla coppia di aspiranti genitori) e, all’occorrenza, di terzi, con particolare riguardo a persone fisiche di sesso femminile che si prestino (gratuitamente o a titolo oneroso) a condurre la gestazione con il consenso degli aspiranti genitori (c.d. utero in affitto), tanto se questi ultimi facciano luogo ad una coppia eterosessuale quanto omosessuale (fecondazione c.d. eterologa, “esterna” alla coppia di aspiranti genitori); si parla a questo proposito di scomposizione del processo generativo;
- in una prima fase storica, è stata la giurisprudenza (di merito) a fornire tutela al c.d. diritto a diventare genitore, in difetto di specifiche disposizioni normative dettate all’uopo dal legislatore; altra possibilità è stata quella di recarsi all’estero, dove le tecniche di PMA sono ammesse, per procedervi (in via omologa o eterologa), con il rischio tuttavia per i neo-genitori di incorrere in responsabilità (anche) penale una volta rientrati in Italia;
- nel 2004, con la legge n.40, il Legislatore italiano ha regolamentato la materia, vietando la fecondazione c.d “eterologa” (con il presidio di sanzioni penali ed amministrative), ed ammettendo entro determinati limiti quella “omologa”;
- è poi intervenuta la Corte costituzionale dapprima, nel 2014, per assumere costituzionalmente illegittimo il divieto del ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo, qualora sia stata diagnosticata una patologia che sia causa di sterilità o infertilità assolute ed irreversibili, divieto capace di conculcare il diritto ad autodeterminarsi dei genitori e quello a diventare genitori; quindi, nel 2019, per dichiarare all’opposto costituzionalmente legittimo il divieto di fecondazione assistita per le coppie dello stesso sesso (omosessuali);
- questioni delicate pone la possibilità “di fatto” per gli aspiranti genitori di aggirare il divieto previsto in Italia ricorrendo a tecniche di PMA all’estero, stante – a valle della eventuale nascita del figlio – la necessità di procedere alle pertinenti trascrizioni negli atti dello stato civile, con conseguente scandaglio delle autorità italiane (amministrative e giurisdizionali) in termini di conformità all’ordine pubblico.