Corte di Cassazione, Sezioni Unite Civili, sentenza 06 luglio 2022, n. 21348
PRINCIPI DI DIRITTO
In materia di edilizia residenziale pubblica, a seguito degli interventi legislativi di cui all’art. 5, comma 3-bis, del d.l. n. 70 del 2011, introdotto in sede di conversione dalla legge n. 106 del 2011, e all’art. 25-undedes del d.l. n. 119 del 2018, introdotto in sede di conversione dalla legge n. 136 del 2018, il vincolo del prezzo massimo di cessione degli immobili permane fino a quando lo stesso non venga eliminato con la procedura di affrancazione di cui all’art. 31, comma 49-bis, della legge n. 448 del 1998. Tale vincolo sussiste, in virtù della sostanziale equiparazione disposta dall’art. 3, comma 63, della legge n. 662 del 1996 e dall’art. 31, comma 46, della legge n. 448 del 1998, sia per le convenzioni di cui all’art. 35 della legge n. 865 del 1971 (c.d. convenzioni PEEP) sia per quelle di cui agli artt. 7 e 8 della legge n. 10 del 1977 (c.d. convenzioni Bucalossi), poi trasferiti, senza significative modifiche, negli artt. 17 e 18 del d.P.R. n. 380 del 2001.
La procedura di affrancazione finalizzata all’eliminazione del vincolo di prezzo per i successivi acquirenti degli immobili di edilizia residenziale pubblica, che l’art. 25-undedes del d.l. n. 119 del 2018 ha esteso in favore di tutti gli interessati, è consentita, secondo la previsione del comma 2 della citata disposizione, anche in relazione agli atti di cessione avvenuti anteriormente alla data di entrata in vigore dell’art. 5, comma 3-bis, del di. n. 70 del 2011 (13 luglio 2011); e la pendenza della procedura di rimozione dei vincoli determina la limitazione degli effetti dei relativi contratti di trasferimento degli immobili nei termini di cui all’art. 31, comma 49- quater, della legge n. 448 del 1998.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
- Con il primo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dei commi 49-bis e 49-ter dell’art. 31 della legge 23 dicembre 1998, n. 448, in relazione alla persistenza del vincolo di contenimento del prezzo anche nei confronti degli acquirenti successivi al primo. Sostiene la ricorrente che la Corte d’appello avrebbe errato nell’affermare chel’obbligo di contenimento dei prezzi di vendita degli immobili costruiti in base a concessione edilizia di cui alla legge n. 10 del 1977 (c.d. legge Bucalossi) graverebbe soltanto sul costruttore titolare della concessione e nei confronti del primo acquirente, ma non anche nei confronti degli acquirenti successivi.
Dopo aver ricapitolato i punti salienti della complessa evoluzione normativa in materia, la ricorrente osserva che le modifiche introdotte dalla legge 12 luglio 2011, n. 106, di conversione del decreto-legge 13 maggio 2011, n. 70, avrebbero in tutto contraddetto la giurisprudenza precedente, richiamata dalla Corte d’appello, che aveva limitato la nullità dei patti che prevedono un prezzo in eccedenza – in relazione alle c.d. convenzioni Bucalossi – ai soli trasferimenti compiuti dal costruttore.
Il successivo intervento di cui alla citata sentenza delle Sezioni Unite n. 18135 del 2015 – pronuncia che, peraltro, aveva ad oggetto un caso di edilizia agevolata ai sensi dell’art. 35 della legge 22 ottobre 1971, n. 865 – conterrebbe un obiter dictum; mentre, infatti, quella sentenza riconosce l’esistenza di un vincolo di prezzo anche in relazione alle alienazioni successive per gli immobili di cui alla legge n. 865 del 1971 (c.d. convenzioni P.E.E.P.), la stessa l’esclude per l’edilizia convenzionata di cui alla legge n. 10 del 1977. Tuttavia, prosegue la ricorrente, in questa materia è intervenuta la successiva e più recente sentenza 4 dicembre 2017, n. 28949, la quale, pur dando apparente continuità alla distinzione operata dalle Sezioni Unite, sarebbe giunta a conclusioni «radicalmente opposte», richiamando i citati commi 49- bis e 49-ter dell’art. 31 della legge n. 448 del 1998.
La sentenza n. 28949, infatti, ha dedotto dalla previsione del comma 49-ter la conseguenza per cui anche per gli alloggi di edilizia convenzionata di cui alla legge Bucalossi l’efficacia del vincolo di prezzo non sarebbe limitata al primo atto di trasferimento, «ma andrebbe estesa a tutti i successivi passaggi di proprietà dell’immobile fino a quando non sia intervenuta la convenzione di rimozione ex art. 31, comma 49-bis». La Corte d’appello, dunque, non tenendo conto della complessiva evoluzione della giurisprudenza in argomento, avrebbe erroneamente rigettato la domanda principale della ricorrente, avente ad oggetto la restituzione del prezzo eccedentario pagato.
- Con il secondo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 5), cod. proc. civ., omessa valutazione di un fatto storico decisivo risultante dagli atti di causa.
Osserva la ricorrente, in particolare, che la Corte d’appello avrebbe omesso di esaminare i seguenti fatti: 1) le dichiarazioni contenute nell’atto unilaterale d’obbligo sottoscritto dal Presidente della società cooperativa costruttrice dell’immobile, con cui lo stesso si era assunto gli obblighi elencati nella convenzione-tipo del 25 luglio 1977 della Regione Emilia-Romagna «per sé e per gli aventi causa a qualunque titolo»; 2) la dichiarazione resa dai venditori dell’immobile in favore del Conti, in base alla quale la parte assegnataria aveva affermato di conoscere i vincoli e i divieti derivanti dall’atto unilaterale d’obbligo richiamato nella premessa di tale dichiarazione, obbligandosi a rispettarli; 3) il contenuto dell’atto notarile di vendita, nel quale era stato indicato il prezzo corrispettivo di euro 189.927,00 (inferiore al prezzo effettivamente corrisposto dal Conti), espressamente calcolato tenendo conto dell’atto unilaterale d’obbligo e del riferimento al vincolo gravante sul bene discendente dall’atto unilaterale d’obbligo.
- Con il terzo motivo di ricorso, prosegue la Corte, si lamenta, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 4), cod. proc. civ., nullità della sentenza per violazione degli artt. 132, n. 4), e 112 cod. proc. civ., rilevando che la Corte di merito avrebbe omesso di pronunciarsi sulla domanda di accertamento della responsabilità per inadempimento, da parte del mandatario, dell’obbligo di informazione in ordine al vincolo del prezzo e del correlato obbligo di astensione di cui agli art. 1710 e 1711 cod. civ., «senza esplicitarne le ragioni di fatto e di diritto». Sostiene la ricorrente, a questo proposito, che il profilo della responsabilità del mandatario per la violazione di quegli obblighi sarebbe «questione indipendente e autonoma» e, in quanto tale, da decidere a prescindere dal diverso profilo dell’esistenza o meno di un vincolo legale nella determinazione del prezzo. Ne consegue che, ove anche la decisione impugnata fosse corretta in ordine al problema del prezzo, sussisterebbe ugualmente il vizio di omessa pronuncia in ordine al profilo qui indicato.
- Con il quarto motivo di ricorso si denuncia nullità della sentenza per violazione dell’art. 132, n. 4), e dell’art. 112 cod. proc. civ., sul rilievo che sarebbe incomprensibile e del tutto illogica la motivazione con cui la Corte di appello – esaminando la censura proposta dalla ricorrente riguardante l’accensione del contratto di mutuo – ha ritenuto tale censura infondata, sul rilievo che «la stipula del contratto di mutuo non può essere ricondotta alla sola differenza tra la somma data in deposito dalla Massaro al Conti e il maggior prezzo pagato rispetto a quanto asseritamente dovuto ex lege». Assume la ricorrente che la Corte territoriale sarebbe incorsa nella violazione delle norme suindicate, non avendo in effetti deciso sulla domanda da lei proposta.
- Con il quinto motivo di ricorso si denuncia nullità della sentenza per violazione dell’art. 132, n. 4), e dell’art. 112 cod. proc. civ., in relazione alla parte della sentenza impugnata in cui la Corte d’appello ha ritenuto non fondata la richiesta di restituzione dell’importo di euro 779,43, sostenendo che la Corte di merito si sarebbe pronunciata su una domanda dalla medesima parte mai formulata.
L’ordinanza interlocutoria.
- Dopo aver respinto un’eccezione preliminare formulata nel controricorso, la Terza Sezione Civile ha ritenuto che l’esame del primo motivo di ricorso ponga la questione dell’ambito di applicazione del vincolo del prezzo di cessione previsto dall’art. 8 della legge n. 10 del 1977, in relazione agli immobili di cui all’art. 7 della legge stessa, anche in relazione ai successivi acquirenti del bene; problema di particolare attualità alla luce dei commi 49-bis e 49-ter dell’art. 31 della legge n. 448 del 1998, introdotti dall’art. 5, comma 3-bis, del decreto-legge 13 maggio 2011, n. 70, inserito in sede di conversione dalla legge 12 luglio 2011, n. 106.
Il Collegio rimettente ha riassunto alcuni passaggi della sentenza n. 18135 del 2015 di queste Sezioni Unite ed ha richiamato anche la sentenza n. 28949 del 2017 della Seconda Sezione Civile.
In particolare, ha osservato la Terza Sezione che i commi 49-bis e 49- ter citati sono stati ulteriormente modificati dall’art. 25-undecies del decreto-legge 23 ottobre 2018, n. 119, inserito dalla legge di conversione 17 dicembre 2018, n. 136; e tale modifica impone in particolar modo di accertare se, e in quali limiti, la retroattività ivi stabilita si possa applicare anche nel caso in esame, nel quale la vendita oggetto di causa è avvenuta nel 2007, cioè in epoca antecedente l’entrata in vigore della citata legge n. 106 del 2011. La rimessione alle Sezioni Unite, quindi, è stata ritenuta necessaria al fine di stabilire se il vincolo del prezzo di cessione si applichi anche alle concessioni, come quella in questione, di cui agli artt. 7 e 8 della legge n. 10 del 1977.
Questioni preliminari.
- Il Collegio ritiene di dover innanzitutto confermare il contenuto dell’ordinanza interlocutoria nella parte in cui ha ritenuto non fondata l’eccezione preliminare di inammissibilità del ricorsosollevata dalla parte controricorrente.
Il quadro normativo.
- Per poter risolvere la questione di massima rimessa dall’ordinanza interlocutoria, osserva la Corte, è necessario procedere a ricostruire, nelle sue linee essenziali, la complessa trama legislativa che ha progressivamente modificato, nel corso degli ultimi cinquant’anni, ilregime degli alloggi di edilizia residenziale pubblicacon riguardo al problema qui in esame, cioè quello del prezzo di alienazione degli immobili. Il filo conduttore della ricostruzione deve essere il confronto tra le convenzioni di cui all’art. 35 della legge n. 865 del 1971, e quelle di cui agli artt. 7 e 8 della legge n. 10 del 1977.
È opportuno ricordare che l’art. 35 cit. – che ha esplicitamente sostituito le disposizioni dell’art. 10 della legge 18 aprile 1962, n. 167 – prevedeva, nella sua originaria formulazione, che le aree destinate alla costruzione degli alloggi ivi indicati fossero oggetto di espropriazione e successiva acquisizione al patrimonio indisponibile dei comuni. Questi ultimi avevano la possibilità, in relazione a dette aree, di concedere il solo diritto di superficie, di durata tra 60 e 99 anni, «per la costruzione di case di tipo economico e popolare e dei relativi servizi urbani e sociali». La concessione del diritto di superficie prevedeva la contemporanea stipulazione di una convenzione tra il comune e il concessionario la quale, tra l’altro, doveva contenere anche «la determinazione del prezzo di cessione degli alloggi, ove questa sia consentita» (art. 35, comma 8, lettera e).
Il successivo comma quindicesimo, prosegue la Corte, disponeva che l’alloggio costruito su area ceduta in proprietà non potesse essere alienato a nessun titolo per il periodo di dieci anni «dalla data di rilascio della licenza di abitabilità», mentre il comma sedicesimo stabiliva che, decorso tale periodo, la vendita o la costituzione di diritti reali di godimento potesse avvenire solo in favore dei soggetti aventi i requisiti per l’assegnazione degli alloggi economici e popolari. Era poi prevista la nullità degli atti compiuti in violazione delle disposizioni contenute nei commi dal quindicesimo al diciottesimo (art. 35, comma diciannovesimo, cit.).
Le convenzioni di cui alla legge Bucalossi nascono, invece, con modalità almeno in apparenza diverse.
L’art. 7 della legge dispone, infatti, che, per gli interventi di edilizia abitativa, il contributo previsto dal precedente art. 3 sia ridotto alla sola quota di cui all’art. 5 qualora il concessionario si impegni, a mezzo di convenzione con il comune, «ad applicare prezzi di vendita e canoni di locazione determinati ai sensi della convenzione-tipo prevista dal successivo art. 8». L’art. 8, nel regolare la convenzione-tipo, stabilisce, tra l’altro, che essa debba contenere la determinazione dei prezzi di cessione degli alloggi e dei canoni di locazione degli stessi e dispone che ogni pattuizione «stipulata in violazione dei prezzi di cessione e dei canoni di locazione» sia nulla «per la parte eccedente». Gli artt. 7 e 8 della legge Bucalossi sono transitati, senza significative modifiche, negli artt. 17 e 18 del testo unico dell’edilizia (d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380).
Negli anni successivi, però, il legislatore interverrà più volte con modifiche che vanno tutte nel senso di un progressivo avvicinamento tra i due tipi di convenzione.
Si segnala, a questo proposito, innanzitutto la legge 17 febbraio 1992, n. 179, il cui art. 20 dispone che gli alloggi di edilizia agevolata possono essere alienati o locati senza condizioni a decorrere dalla fine del quinquennio successivo all’assegnazione o all’acquisto e, ricorrendo le particolari condizioni ivi indicate e previa autorizzazione della Regione, anche entro il quinquennio medesimo. Il successivo art. 23 della legge, poi, incide in modo significativo sull’art. 35 della legge n. 865 del 1971, abrogandone i commi dal quindicesimo al diciannovesimo (di cui si è detto in precedenza). Cade, cioè, il vincolo di inalienabilità degli alloggi costruiti ai sensi dell’art. 35 e, con esso, la nullità dei relativi atti di disposizione.
Segue poi, a breve distanza di tempo, l’intervento di cui alla legge 23 dicembre 1996, n. 662, il cui art. 3, comma 63, incide in modo molto significativo, ancora una volta, sul testo dell’art. 35 della legge n. 865 del 1971. La disposizione in esame, infatti, sostituisce i commi decimo, undicesimo, dodicesimo e tredicesimo della norma citata e, innovando rispetto alla previsione originaria, introduce la possibilità che gli alloggi in questione vengano ceduti non solo in diritto di superficie, ma anche «in proprietà a cooperative edilizie e loro consorzi, ad imprese di costruzione e loro consorzi e ai singoli, con preferenza per i proprietari espropriati» ai sensi della legge stessa.
Il comma tredicesimo, poi, stabilisce che, contestualmente all’atto di cessione della proprietà dell’area, venga stipulata, tra il comune, (o il consorzio), e il cessionario, una convenzione «con l’osservanza delle disposizioni di cui all’art. 8, commi primo, quarto e quinto, della legge 28 gennaio 1977, n. 10». Il che significa, in sostanza, che il modello di convenzione che deve essere stipulata per la cessione degli immobili costruiti in base all’art. 35 della legge n. 865 del 1971 (PEEP) è identico a quello previsto dalla legge Bucalossi (che nel frattempo era già da anni entrata in vigore).
Il passaggio decisivo ai fini di una sostanziale sovrapposizione tra i due tipi di convenzione avviene, però, con l’entrata in vigore della legge 23 dicembre 1998, n. 448, la quale, all’art. 31, comma 46, stabilisce espressamente (fin dal suo testo originario) che le convenzioni di cui all’art. 35 della legge n. 865 del 1971 «possono essere sostituite con la convenzione di cui all’art. 8, commi primo, quarto e quinto, della legge n. 10 del 1977», purché alle condizioni ivi previste.
I commi 45 e 47 dell’art. 31 ora citato, mentre prevedono che i comuni possano «cedere in proprietà» le aree comprese nei piani approvati a norma della legge n. 167 del 1962 «già concesse in diritto di superficie» ai sensi dell’art. 35, quarto comma, della legge n. 865 del 1971, dispongono che la trasformazione possa avvenire «a seguito di proposta da parte del comune e di accettazione da parte dei singoli proprietari degli alloggi», ma dietro pagamento di un corrispettivo determinato ai sensi del successivo comma 48. Unitamente alla chiara parificazione tra i due tipi di convenzione, quindi, viene introdotta nel sistema la previsione del necessario pagamento di un corrispettivo per l’acquisizione, da parte dei privati, della proprietà degli alloggi di edilizia residenziale pubblica.
Nonostante gli interventi legislativi fin qui ricordati siano stati animati da un filo conduttore abbastanza chiaro, sono insorti negli operatori (tra cui i notai e le amministrazioni comunali) e nei cittadini una serie di dubbi applicativi, sia in ordine alla permanenza o meno del vincolo di prezzo per le successive alienazioni sia in ordine ai problemi conseguenti all’eventuale inerzia dei comuni nella fissazione dei corrispettivi previsti dalla legge. Non a caso, del resto, da parte di alcuni si riteneva che il venir meno del divieto di alienazione degli immobili costruiti sulle aree cedute in proprietà avesse fatto venire meno anche l’onere consistente nella fissazione di un prezzo massimo di cessione; e tale opinione, come in seguito si vedrà, ha trovato eco anche nella giurisprudenza di questa Corte.
La situazione di incertezza esistente spingerà il legislatore a successivi interventi, nel tentativo di razionalizzare un quadro normativo che non costituiva, sul piano della complessiva coerenza interna, un modello di chiarezza. Si giunge, così, all’art. 5, comma 3 -bis, del decreto-legge 13 maggio 2011, n. 70, inserito dalla legge di conversione 12 luglio 2011, n. 106, il quale, al fine dichiarato di «agevolare i trasferimenti dei diritti immobiliari», aggiunge all’art. 31 della legge n. 448 del 1998 i commi 49-bis e 49-ter.
In particolare, il comma 49-bis dispone che i vincoli «relativi alla determinazione del prezzo massimo di cessione delle singole unità abitative e loro pertinenze nonché del canone massimo di locazione delle stesse, contenuti nelle convenzioni di cui all’articolo 35 della legge 22 ottobre 1971, n. 865, e successive modificazioni, per la cessione del diritto di proprietà, stipulate precedentemente alla data di entrata in vigore della legge 17 febbraio 1992, n. 179, ovvero per la cessione del diritto di superficie, possono essere rimossi, dopo che siano trascorsi almeno cinque anni dalla data del primo trasferimento, con convenzione in forma pubblica stipulata a richiesta del singolo proprietario e soggetta a trascrizione per un corrispettivo proporzionale alla corrispondente quota millesimale»; corrispettivo determinato secondo i criteri ivi fissati. Il comma 49-ter, da parte sua, stabilisce che le disposizioni del comma 49-bis «si applicano anche alle convenzioni previste dall’articolo 18 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380».
Il senso complessivo della modifica, osserva la Corte, è evidente: i vincoli di prezzo esistono ma possono essere eliminati, benché solo dietro richiesta del proprietario, pagando un corrispettivo, e la vicenda estintiva è identica tanto per le convenzioni c.d. PEEP quanto per quelle c.d. Bucalossi.
Il successivo passaggio, che si colloca in un momento più recente, è costituito dall’art. 25 -undecies del d.l. n. 119 del 2018, inserito dalla legge di conversione n. 136 del 2018, il quale riscrive il comma 49-bis appena ricordato, ampliandone la portata nel senso di estendere la possibilità di affrancazione a tutte le convenzioni dell’art. 35 cit. (scompare il riferimento alla legge n. 179 del 1992) e, soprattutto, consente tale facoltà a tutte «le persone fisiche che vi hanno interesse, anche se non più titolari di diritti reali sul bene immobile».
Tale modifica, come meglio si dirà, è finalizzata a consentire anche a chi ha venduto a prezzo di mercato (cioè a chi non è più proprietario) di non essere esposto all’azione di ripetizione da parte dell’acquirente. La norma, infatti, consente l’eliminazione del vincolo, sempre che siano trascorsi almeno cinque anni dalla data del primo trasferimento, anche al venditore, a sue spese. Non a caso, infatti, il comma 1 dell’art. 25-undecies ora richiamato introduce, nel corpo dell’art. 31 della legge n. 448 del 1998, anche il comma 49-quater, il quale testualmente così dispone: «In pendenza della rimozione dei vincoli di cui ai commi 49-bis e 49-ter, il contratto di trasferimento dell’immobile non produce effetti limitatamente alla differenza tra il prezzo convenuto e il prezzo vincolato. L’eventuale pretesa di rimborso della predetta differenza, a qualunque titolo richiesto, si estingue con la rimozione dei vincoli secondo le modalità di cui ai commi 49-bis e 49-ter. La rimozione del vincolo del prezzo massimo di cessione comporta altresì la rimozione di qualsiasi vincolo di natura soggettiva».
Il comma 2 dell’art. 25 -undecies, infine, prevede che le disposizioni del comma 1 si applichino «anche agli immobili oggetto dei contratti stipulati prima della data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto». La disposizione ora ricordata è stata scrutinata dalla Corte costituzionale nella recentissima sentenza n. 210 del 2021, della quale si dirà più avanti. Resta solo da aggiungere, ai fini di una ricostruzione del sistema, che il comma 49-bis dell’art. 31 della legge n. 448 del 1998 è stato ancora ulteriormente riscritto dall’art. 22-bis del decreto-legge 31 maggio 2021, n. 77, inserito in sede di conversione dalla legge 29 luglio 2021, n. 108. Le modifiche apportate da tale ultimo intervento non rilevano ai fini del giudizio odierno, in quanto si sostanziano nell’individuazione, con criteri più precisi rispetto al passato, di un tetto al corrispettivo di affrancazione che dovrà essere versato per la rimozione dei vincoli e nell’individuazione di un termine entro il quale il comune dovrà rispondere all’istanza del privato.
In attuazione dei citati commi 49-bis e 49-ter è stato emanato il d.m. 28 settembre 2020, n. 151 (Regolamento recante rimozione dai vincoli di prezzo gravanti sugli immobili costruiti in regime di edilizia convenzionata), il cui art. 1, comma 4, regola il momento in cui il vincolo è da considerare rimosso.
La giurisprudenza di legittimità fino al 2015.
- Le incertezze derivanti dalle numerose modifiche del quadro normativo trovano un’evidente eco nella giurisprudenza di questa Corte. Il punto che maggiormente ha dato adito a dubbi è stato quello distabilire se, in relazione agli atti di cessione degli immobili in questione, il vincolo di prezzo sussista solo per il concessionario, cioè per chi ha stipulato la convenzione con il comune, senza trasmettersi agli acquirenti successivi, ovvero se tale vincolo si estenda anche ai successivi passaggi di proprietà; e se le convenzioni c.d. PEEP (cioè quelle regolate dal più volte citato art. 35) siano o meno uguali, sotto questo profilo, rispetto alle convenzioni di cui alla legge Bucalossi.
Fin dall’inizio una parte della giurisprudenza ha affermato che l’art. 35 della legge n. 865 del 1971 contiene una delega ai comuni per la fissazione dei criteri per la determinazione dei prezzi di cessione degli alloggi in materia di edilizia convenzionata, con la conseguenza che i relativi atti amministrativi, in quanto emanati sulla base della delega legislativa, traggono da questa il loro carattere di imperatività.
Ai sensi degli artt. 1339 e 1419, secondo comma, cod. civ., quindi, la conseguenza tipica della difformità di una clausola negoziale rispetto alla norma imperativa (relativa al prezzo di vendita) è la sanzione della nullità della clausola stessa, la quale tuttavia non comporta la nullità dell’intero contratto qualora sia possibile la sua sostituzione da parte della norma imperativa (sentenza 21 dicembre 1994, n. 11032, ribadita dalle successive sentenze 10 febbraio 2010, n. 3018, e 24 novembre 2020, n. 26689).
Alla luce di tale interpretazione, precisa la Corte, qualora venga pattuito un prezzo di vendita (o un canone di locazione) superiore rispetto a quello vincolato, il contratto potrà sopravvivere con l’inserzione automatica della clausola legale, ossia sostituendo al prezzo concordato quello stabilito per legge.
La previsione della nullità parziale costituisce, secondo questa giurisprudenza, una prescrizione di ordine pubblico generale dettata dal legislatore per prevenire l’eventualità che le agevolazioni concesse nel quadro di una politica abitativa di interesse sociale possano trasformarsi in un inammissibile strumento di speculazione (v. in tal senso la sentenza 2 settembre 1995, n. 9266). Un’eco di siffatta impostazione si ritrova anche nella sentenza di queste Sezioni Unite 12 gennaio 2011, n. 506, la quale ribadisce che il divieto di vendere ad un prezzo maggiorato vale anche per i passaggi successivi di proprietà, proprio per evitare le possibili speculazioni da parte di chi, avendo acquistato l’immobile ad un prezzo vincolato, lo rivenda poi a prezzo di mercato.
A partire dall’anno 2000, però, si è affermato nella giurisprudenza di questa Corte anche un orientamento secondo cui tra le convenzioni regolate dall’art. 35 della legge n. 865 del 1971 e quelle regolate dagli artt. 7 e 8 della legge n. 10 del 1977 vi sarebbe una differenza. Si trova una chiara esposizione di questa impostazione nella sentenza 11 agosto 2000, n. 10683, la quale afferma che, per quanto entrambe le convenzioni costituiscano oggetto dell’edilizia convenzionata, non vi sarebbe ragione per ritenere che esse siano soggette alla stessa disciplina.
La distinzione, originariamente esistente, secondo la citata sentenza permane fino all’entrata in vigore dell’art. 3, comma 63, della legge n. 662 del 1996. Sulla scia di questa decisione, la coeva sentenza 2 ottobre 2000, n. 13006, affermerà che il vincolo di prezzo di cui all’art. 35 della legge n. 865 del 1971 non può trovare applicazione anche per le convenzioni di cui all’art. 7 della legge n. 10 del 1977, ritenendo che il richiamo all’art. 35 della legge n. 865 del 1971 sia fuorviante in relazione alle convenzioni di cui alla legge Bucalossi. Per queste ultime, infatti, la lettera della legge «si presenta chiara nell’individuare in chi abbia ottenuto la concessione edilizia a contributo ridotto (…) il destinatario degli obblighi assunti di contenere i prezzi di cessione e i canoni di locazione degli alloggi»; per cui l’estensione di tali obblighi ad altri «non trova giustificazione nell’esplicita norma di legge, che non esprime alcun riferimento soggettivo ulteriore rispetto a quello del concessionario costruttore, del comune e della regione» (siffatto orientamento è stato confermato anche dalla successiva sentenza 4 aprile 2011, n. 7630).
Non è mancata, poi, nella giurisprudenza di questa Corte, come anticipato in precedenza, l’affermazione secondo cui la liberalizzazione delle operazioni di dismissione degli alloggi di edilizia convenzionata determinatasi a seguito delle modifiche disposte dalla legge n. 179 del 1992 aveva comportato il venir meno anche di ogni vincolo di prezzo, dovendosi ritenere esistente a carico dei proprietari «solo il vincolo del rispetto di un termine di mantenimento quinquennale in proprietà (o assegnazione), peraltro derogabile, previa autorizzazione della regione, ove sussistenti gravi, sopravvenuti e documentati motivi» (così la sentenza 10 novembre 2008, n. 26915). Può quindi affermarsi che gli orientamenti giurisprudenziali di legittimità non erano conformi, soprattutto per quanto riguardava il permanere o meno del vincolo di prezzo per le alienazioni degli immobili successive alla prima (cioè quella nella quale il dante causa era il concessionario che aveva stipulato la convenzione con il comune).
Pur con tutte le incertezze – dovute probabilmente anche al fatto che nelle sentenze fin qui richiamate non sempre ci si è fatti carico di stabilire in quale momento storico le alienazioni fossero state compiute – può tuttavia ritenersi che vi fosse una tendenza prevalente, nella giurisprudenza antecedente l’intervento delle Sezioni Unite di cui ora si dirà, nel senso che il vincolo del prezzo di cessione permaneva anche per le vendite successive in relazione alle sole convenzioni PEEP, mentre esisteva per il solo concessionario in relazione alle convenzioni di cui alla legge Bucalossi.
La sentenza delle Sezioni Unite n. 18135 del 2015.
- Così ricostruiti, nelle loro linee essenziali, gli orientamenti della giurisprudenza di questa Corte sul punto controverso, occorre esaminare la decisione ora indicata. È opportuno osservare, prima di tutto, che essa si colloca, da un punto di vista temporale, all’indomani dell’entrata in vigore dell’art. 5, comma 3-bis, del d.l. n. 70 del 2011, ma prima dell’ulteriore modifica introdotta dall’art. 25-undecies del d.l. n. 119 del 2018. In secondo luogo, poi, bisogna tenere presente che la decisione ora in esame ebbe ad oggetto un caso di edilizia convenzionata di cui all’art. 35 della legge n. 865 del 1971, come risulta dal riferimento all’edificazione su area concessa in diritto di superficie dal Comune di Roma.
Ciò premesso, osserva la Corte, per chiarire il contesto nel quale le Sezioni Unite sono state chiamate a pronunciarsi, la citata sentenza distingue le convenzioni aventi ad oggetto il diritto di superficie da quelle aventi ad oggetto il diritto di proprietà e afferma che, per le prime, non era previsto il vincolo di inalienabilità, stabilito invece (in origine) per le seconde. Per contro, ribadisce la sentenza, «il vincolo alla determinazione del prezzo discende, in tutti i casi, direttamente dalla legge».
La sentenza, quindi, introduce una distinzione tra le due convenzioni in esame e, pur dichiarando esplicitamente che le convenzioni di cui alla legge Bucalossi erano estranee al caso di specie, afferma che solo per queste ultime «il titolare di alloggio su concessione edilizia rilasciata con contributo ridotto non è obbligato a rispettare, in sede di vendita, il prezzo stabilito dalla convenzione-tipo approvata dalla regione, ai sensi dell’art. 7 della legge n. 10/1977». Ciò perché «destinatario dell’obbligo di contenere i prezzi di cessione (od il canone di locazione) nei limiti fissati dalla detta convenzione è soltanto il costruttore titolare della concessione (Cass., 2 ottobre 2000, n. 13006).
Per gli immobili di edilizia convenzionata ex lege n. 10/1977 appare chiara, infatti, l’individuazione, in chi abbia ottenuto la concessione edilizia a contributo ridotto, del destinatario degli obblighi assunti di contenere il prezzo di cessione degli alloggi, nei limiti indicati dalla stessa convenzione e per la prevista durata di sua validità». A sostegno della tesi secondo cui tra i due tipi di convenzione vi sarebbe tale differenza, le Sezioni Unite richiamano il comma 49-bis dell’art. 31 della legge n. 448 del 1998, introdotto dal citato d.l. n. 70 del 2011, affermando che per le convenzioni PEEP la possibilità di rimuovere i vincoli relativi alla determinazione del prezzo massimo di cessione è subordinata a tre presupposti: 1) il passaggio di almeno cinque anni dalla data del primo trasferimento, 2) la richiesta del proprietario e 3) la determinazione della percentuale del corrispettivo, calcolata secondo i parametri legali da parte del comune.
La conclusione è nel senso che «il vincolo del prezzo non è affatto soppresso automaticamente a seguito della caduta del divieto di alienare; ed anzi, in assenza di convenzione ad hoc (…), segue il bene nei successivi passaggi di proprietà, a titolo di onere reale, con naturale efficacia indefinita». Soluzione, questa, che il Collegio ritiene in linea con l’obiettivo di facilitare l’acquisizione di alloggi a prezzo contenuto in favore dei ceti meno abbienti.
È opportuno rilevare che l’affermazione secondo cui, per le convenzioni di cui alla legge Bucalossi, il vincolo di prezzo sussisterebbe solo per il concessionario costituisce in effetti un obiter dictum, poiché il caso sottoposto all’esame delle Sezioni Unite era quello di una convenzione di cui all’art. 35 della legge n. 865 del 1971. Ciò che rileva è che per la sentenza in esame il vincolo di prezzo permane fino a quando non intervenga la procedura di affrancazione, dietro pagamento del corrispettivo secondo i criteri fissati dalla legge; le Sezioni Unite, invece, non fanno alcun riferimento all’art. 31, comma 49 -ter, della legge n. 448 del 1998, benché esso sia stato introdotto, come s’è detto, contestualmente al comma 49-bis.
La giurisprudenza successiva.
- La giurisprudenza successiva sembra allinearsi alla decisione delle Sezioni Unite.
Le pronunce più recenti, infatti, da un lato confermano che, nelle convenzioni di cui all’art. 35 della legge n. 865 del 1971, il vincolo di prezzo permane anche in capo ai successivi acquirenti (come onere reale) fino a quando non si sia perfezionata la convenzione di rimozione di cui all’art. 31, comma 49-bis, della legge n. 448 del 1998 (così le sentenze 14 maggio 2016, n. 4948, 3 gennaio 2017, n. 21, e l’ordinanza 27 dicembre 2017, n. 30951); dall’altro aggiungono che sussiste diversità tra le c.d. convenzioni PEEP e le c.d. convenzioni Bucalossi, nel senso che solo per queste ultime unico destinatario di obblighi e divieti è il costruttore concessionario, per espressa formulazione di legge (sentenza 28 maggio 2018, n. 13345).
In concreto, precisa la Corte, ciò significa che per le convenzioni PEEP la clausola sul prezzo che esorbita i limiti di legge costituisce una pattuizione nulla, cui segue la eterointegrazione del prezzo imposto dalla legge, trattandosi di nullità parziale.
- Ciò nonostante, potrebbe dirsi con una metafora che il fuoco continuava a covare sotto la cenere. Un segno evidente della difficoltà creata dalla distinzione compiuta dalle Sezioni Unite tra i due tipi di convenzione emerge dalla sentenza 4 dicembre 2017, n. 28949, richiamata dall’odierna ricorrente. In questa decisione la Seconda Sezione, dopo aver ricapitolato lo stato dell’arte alla luce della sentenza n. 18135 del 2015 mostrando di prestarvi adesione, aggiunge un passaggio che è di estremo rilievo, perché ricorda che il d.l. n. 70 del 2011 non ha inserito, nel testo dell’art. 31 della legge n. 448 del 1998, il solo comma 49-bis, ma anche il comma 49-ter, che estende l’applicazione del comma 49-bis anche alle convenzioni di cui all’art. 18 del d.P.R. n. 380 del 2001.
Ciò comporta, secondo la sentenza ora in esame, che anche per gli alloggi oggetto delle convenzioni a contributo ridotto di cui alla legge Bucalossi «l’efficacia del vincolo di prezzo non dovrebbe, allora, ritenersi limitata al primo atto di trasferimento, ma andrebbe estesa a tutti i successivi passaggi di proprietà dell’immobile fino a quando non sia intervenuta la convenzione di rimozione ex art. 31, comma 49- bis». Il vincolo di prezzo, quindi, permane (per entrambe le convenzioni) fino a quando non venga stipulata l’apposita convenzione, seguendo il bene nei successivi passaggi di proprietà «con naturale efficacia indefinita».
È palese, perciò, soggiunge la Corte, che la sentenza n. 28949 del 2017 compie, in effetti, un passo in avanti che va in qualche misura a contraddire la decisione delle Sezioni Unite. Detta sentenza è rimarchevole anche perché esclude, nel caso specifico, che il venditore possa «sanare retroattivamente il trasferimento dell’immobile, liberando ex post il bene dal vincolo del prezzo massimo di cessione attraverso la stipula di apposita convenzione con il Comune, in maniera da sottrarsi alla pretesa dell’acquirente di ripetizione del prezzo pagato in eccedenza»; ciò in quanto, ricorda la sentenza, è solo l’acquirente che può procedere alla rimozione del vincolo.
Tale conclusione, sulla quale in seguito si tornerà, è coerente con il quadro normativo in allora vigente, posto che, quando la sentenza in esame viene pronunciata, non era ancora stata approvata l’ulteriore modifica di cui all’art. 25 -undecies del d.l. n. 119 del 2018.
La soluzione della questione di massima.
- Giunti a questo punto, si possono tirare le fila del lungo discorso svolto sin qui, indicando il percorso da seguire per la soluzione del problema.
13.1. Ritengono queste Sezioni Unite che la complessa evoluzione normativa che si è cercato in precedenza di tratteggiare dimostri in modo evidente, da un lato, che le convenzioni PEEP e le convenzioni Bucalossi hanno percorso un ideale cammino indirizzato verso una progressiva parificazione di effetti, e, dall’altro, che il vincolo di prezzo previsto per la vendita degli alloggi in questione permane anche per le vendite successive alla prima, fino a quando non venga eliminato con la procedura di affrancazione.
La sostanziale sovrapponibilità tra i due tipi di convenzione, già in qualche modo annunciata dalla legge n. 179 del 1992, si è compiuta, come si è visto, con le modifiche di cui all’art. 3, comma 63, della legge n. 662 del 1996 e di cui all’art. 31, comma 46, della legge n. 448 del 1998. L’ulteriore e decisiva conferma proviene, senza possibilità di dubbio, dalla contemporanea aggiunta, nel testo dell’art. 31 ora cit., dei due commi 49-bis e 49-ter, i quali accomunano le due convenzioni nella medesima sorte, imponendo il pagamento di un corrispettivo per affrancare il bene ed immetterlo sul mercato nel suo pieno valore.
Il che, in definitiva, chiosa ancora la Corte, è del tutto logico e risponde a quelle che sono le finalità dell’edilizia residenziale pubblica (v., in argomento, anche la sentenza n. 135 del 1998 della Corte costituzionale), il cui obiettivo è il soddisfacimento, per le categorie meno abbienti, della primaria necessità di acquistare un’abitazione a prezzi ragionevoli. Il sistema normativo, quindi, tende ad evitare che, su questi alloggi, possano intervenire manovre speculative; e tali sono sia quella dei venditori che, dopo aver acquistato l’immobile dal costruttore a prezzo vincolato, lo rivendano a prezzo libero, sia quella dei successivi acquirenti che, dopo aver comprato il bene a prezzo libero, agiscano nei confronti del venditore chiedendo la restituzione del prezzo pagato in eccedenza per poi procedere all’affrancazione in modo da poter vendere a prezzo libero.
In questa chiave di lettura si rivela quanto mai coerente la modifica disposta dall’art. 25-undecies del d.l. n. 119 del 2018 il quale, innovando rispetto alla previsione di cui al d.l. n. 70 del 2011, ha esteso la facoltà di affrancazione, come si è visto, a tutti gli interessati, anche se non più titolari di diritti reali sul bene immobile. Come la Corte costituzionale ha definitivamente chiarito nella citata sentenza n. 210 del 2021, «l’estensione della legittimazione all’affrancazione in capo ai venditori non si traduce in un ausilio foriero di disparità di trattamento, ma risponde, invece, a una finalità di riequilibrio che trova giustificazione proprio nei principi di uguaglianza e di ragionevolezza.
Non può, infatti, disconoscersi che, alla stregua dell’assetto regolatorio chiarito dal diritto vivente, l’acquirente dell’alloggio sociale a prezzo di mercato avrebbe potuto agire in ripetizione dell’indebito e al contempo affrancare, in quanto proprietario, il bene per poi rivenderlo a prezzo libero. Per contro, la formulazione ratione temporis dell’art. 31, comma 49-bis, della legge n. 448 del 1998 non permetteva al venditore attinto dalla pretesa restitutoria di adeguare, attraverso l’affrancazione, il valore del bene ceduto al prezzo concordato con la controparte».
La logica del sistema attualmente vigente, pertanto, è nel senso che chi vuole vendere l’immobile a prezzo di mercato può farlo solo attraverso la procedura di affrancazione, pagando una somma – la cui soglia è stata peraltro limitata dall’ultima modifica del comma 49-bis intervenuta ad opera del d.l. n. 77 del 2021 – che costituisce una sorta di compenso per lo svincolo, in modo da restituire all’immobile il suo pieno valore di mercato. Il che trova autorevole conferma in un altro passaggio della citata sentenza della Corte costituzionale, là dove essa ricorda che il riconoscimento «della facoltà di affrancare l’alloggio sociale dopo cinque anni dalla prima assegnazione non incide sulla funzione pubblicistica dell’edilizia convenzionata, ed evidentemente non comporta né la soppressione né la limitazione di alcun diritto, ma consente al beneficiario del servizio di scegliere se continuare a fruire dell’immobile a fini abitativi ovvero se utilizzare, nell’esercizio dell’autonomia privata, le potenzialità reddituali dell’immobile immettendolo – previo versamento di un corrispettivo pecuniario al Comune – nel libero mercato».
Non può essere condivisa, pertanto, la tesi – che pure ha trovato, come si è detto, qualche riscontro anche nella giurisprudenza di questa Corte – secondo la quale il venir meno del divieto di alienazione degli immobili in questione avrebbe comportato anche il venir meno del vincolo di prezzo.
Queste Sezioni Unite, quindi, ritengono di rispondere al quesito posto dall’ordinanza interlocutoria modificando, in parte, il principio stabilito dalla precedente sentenza n. 18135 del 2015 e affermando che le convenzioni di cui all’art. 35 della legge n. 865 del 1971 e quelle di cui agli artt. 7 e 8 della legge n. 10 del 1977 sono accomunate dal medesimo regime giuridico. Ciò significa che i soggetti interessati possono scegliere di continuare a vivere negli immobili in questione ovvero di reimmetterli sul mercato a prezzo libero, avvalendosi della procedura di affrancazione di cui all’art. 31, commi 49-bis e 49-ter, della legge n. 448 del 1998, applicabile indistintamente per entrambi i tipi di convenzione.
13.2. L’approdo ermeneutico ora raggiunto non risolve ancora, però, tutti i problemi posti dalla vicenda in esame. Occorre infatti soffermarsi su di un ulteriore profilo, che è quello della retroattività della normativa suindicata. Si tratta, cioè, di stabilire se il sistema di affrancazione regolato dall’art. 31, commi 49- bis e 49-ter, della legge n. 448 del 1998, nel testo modificato dalle citate riforme del 2011 e del 2018, si applichi soltanto agli atti di compravendita stipulati successivamente al 13 luglio 2011 – data di entrata in vigore della legge n. 106 del 2011, di conversione del d.l. n. 70 del 2011 – oppure anche agli atti anteriori. Tale questione è rilevante, perché nel caso odierno la causa ha ad oggetto un contratto di mandato ad acquistare, in esecuzione del quale l’atto di compravendita fu stipulato nel 2007.
Il punto di partenza, precisa la Corte, non può che essere la disposizione contenuta nel comma 2 dell’art. 25-undecies del d.l. n. 119 del 2018, già in precedenza riportato, secondo cui le disposizioni del comma 1 si applicano «anche agli immobili oggetto dei contratti stipulati prima della data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto».
A questo proposito, la difesa del controricorrente ha particolarmente insistito, anche in sede di memoria in vista dell’udienza pubblica di discussione, nel sostenere che, poiché l’art. 25 -undecies, comma 2, non richiama anche il comma 49 -ter cit. ed ha previsto l’applicazione retroattiva per le sole disposizioni del comma 1, ciò dovrebbe portare ad escludere che la modifica in oggetto, ivi compresa la sua retroattività, possa applicarsi anche alle convenzioni Bucalossi. Ritiene il Collegio che tale argomentazione non sia condivisibile, perché il fatto che il comma 49-ter del citato art. 31 preveda l’applicazione del comma 49 -bis anche alle convenzioni Bucalossi, sta a significare che tutti i mutamenti che investono il comma 49 -bis si riverberano automaticamente, in forza del rinvio, anche sul comma 49-ter; per cui il citato art. 25 -undecies, comma 2, estende la sua portata anche alle convenzioni Bucalossi.
La conseguenza è che, in ossequio a quanto disposto dal comma 49-quater del medesimo art. 31, introdotto dalla medesima disposizione, in pendenza della procedura di rimozione dei vincoli «il contratto di trasferimento dell’immobile non produce effetti limitatamente alla differenza tra il prezzo convenuto e il prezzo vincolato» e la domanda di rimborso di quella differenza «si estingue con la rimozione dei vincoli secondo le modalità di cui ai commi 49-bis e 49-ter». Come si vede, dunque, anche quest’ultima specificazione del legislatore costituisce ulteriore conferma dell’eguale trattamento dei due tipi di convenzione e dell’applicabilità della norma del comma 2 anche ai contratti stipulati in epoca antecedente alla data del 13 luglio 2011. È appena il caso di rilevare, del resto, che l’art. 25 -undecies, comma 2, del d.l. n. 119 del 2018 non è una norma interpretativa, bensì è una norma che regola la retroattività della procedura di affrancazione.
La tesi qui indicata è stata in qualche misura anticipata, d’altra parte, dalla sentenza 18 dicembre 2020, n. 29099, della Seconda Sezione Civile la quale, in una causa avente ad oggetto la cessione del diritto di superficie di un immobile di cui all’art. 35 della legge n. 865 del 1971, avvenuta il 17 gennaio 2006, ha già affermato che la normativa del 2018, benché sopravvenuta, era applicabile anche in quel caso, in quanto «espressamente munita di efficacia retroattiva». Il Procuratore generale, da parte sua, nelle conclusioni depositate per iscritto in vista dell’udienza davanti a queste Sezioni Unite, pur condividendo l’interpretazione che l’odierna decisione ritiene di dover affermare, ha concluso nel senso che la portata retroattiva delle suindicate disposizioni anche in riferimento alle vendite di immobili, successive alla prima, regolate dalle convenzioni Bucalossi imporrebbe di sollevare una questione di legittimità costituzionale dell’art. 25-undecies, comma 2, del d.l. n. 119 del 2018, per lesione dei principi dell’affidamento e della certezza giuridica.
Ritengono queste Sezioni Unite, invece, che tale richiesta non possa trovare ingresso in quanto le argomentazioni contenute nella sentenza n. 210 del 2021 della Corte costituzionale, benché relative ad una vicenda che riguardava una convenzione di cui all’art. 35 della legge n. 865 del 1971, siano idonee a dissipare ogni dubbio di legittimità costituzionale anche in relazione al caso odierno, avente ad oggetto una convenzione di cui agli artt. 7 e 8 della legge n. 10 del 1977.
Il Giudice delle leggi, infatti, nel dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 25-undecies del d.l. n. 119 del 2018 e dell’art. 31, commi 49-bis, 49-ter e 49-quater della legge n. 448 del 1998, ha anche affermato che tali norme si sono inserite in un contesto interpretativo connotato da particolare complessità, nel quale «il sopraggiungere di ulteriori aggiustamenti del quadro normativo non poteva reputarsi evenienza improbabile»; e ciò anche perché l’incidenza delle norme censurate sui giudizi ancora in corso non andava a stravolgere «in modo del tutto sproporzionato l’assetto definito dalla normativa previgente».
Tali considerazioni – le quali, anche a prescindere dall’autorevolezza della fonte, appaiono a questo Collegio del tutto condivisibili – tolgono ogni dubbio circa la possibile prospettazione di un’ulteriore questione di legittimità costituzionale.
L’enunciazione dei principi di diritto.
- Le Sezioni Unite, pertanto, enunciano i seguenti principi di diritto:
«In materia di edilizia residenziale pubblica, a seguito degli interventi legislativi di cui all’art. 5, comma 3-bis, del d.l. n. 70 del 2011, introdotto in sede di conversione dalla legge n. 106 del 2011, e all’art. 25-undedes del d.l. n. 119 del 2018, introdotto in sede di conversione dalla legge n. 136 del 2018, il vincolo del prezzo massimo di cessione degli immobili permane fino a quando lo stesso non venga eliminato con la procedura di affrancazione di cui all’art. 31, comma 49-bis, della legge n. 448 del 1998. Tale vincolo sussiste, in virtù della sostanziale equiparazione disposta dall’art. 3, comma 63, della legge n. 662 del 1996 e dall’art. 31, comma 46, della legge n. 448 del 1998, sia per le convenzioni di cui all’art. 35 della legge n. 865 del 1971 (c.d. convenzioni PEEP) sia per quelle di cui agli artt. 7 e 8 della legge n. 10 del 1977 (c.d. convenzioni Buca/ossi), poi trasferiti, senza significative modifiche, negli artt. 17 e 18 del d.P.R. n. 380 del 2001».
«La procedura di affrancazione finalizzata all’eliminazione del vincolo di prezzo per i successivi acquirenti degli immobili di edilizia residenziale pubblica, che l’art. 25-undedes del d.l. n. 119 del 2018 ha esteso in favore di tutti gli interessati, è consentita, secondo la previsione del comma 2 della citata disposizione, anche in relazione agli atti di cessione avvenuti anteriormente alla data di entrata in vigore dell’art. 5, comma 3-bis, del di. n. 70 del 2011 (13 luglio 2011); e la pendenza della procedura di rimozione dei vincoli determina la limitazione degli effetti dei relativi contratti di trasferimento degli immobili nei termini di cui all’art. 31, comma 49- quater, della legge n. 448 del 1998».
La decisione dell’odierno ricorso.
- Una volta ricostruito il sistema nei termini di cui si è detto, conclude la Corte, ne deriva ipso facto la soluzione del caso in esame.
Il primo motivo di ricorso, in relazione al quale l’ordinanza interlocutoria ha specificamente rimesso la questione, è fondato, perché la Corte d’appello, basando la propria decisione sul precedente di cui alla sentenza n. 18135 del 2015 di queste Sezioni Unite, ha stabilito che negli immobili regolati dalle convenzioni Bucalossi l’obbligo di contenere i prezzi di cessione grava soltanto sul costruttore, «ma non sull’acquirente dell’immobile che intenda, a sua volta, rivenderlo».
Quest’affermazione non è condivisibile alla luce della diversa impostazione che l’odierna pronuncia ha inteso compiere, per cui la sentenza impugnata deve essere cassata.
Il Collegio ritiene doveroso chiarire, peraltro, proprio ai fini del giudizio di rinvio che si andrà a celebrare, che l’odierno controricorrente, mandatario nello specifico contratto, potrà utilmente attivare, qualora lo ritenga opportuno, la procedura di affrancazione dell’immobile in questione allo scopo di estinguere la pretesa di rimborso della differenza di prezzo avanzata nei suoi confronti dall’odierna ricorrente; e tale domanda, ove esercitata, avrà l’effetto sospensivo di cui all’art. 31, comma 49-quater, della legge n. 448 del 1998.
L’esame degli ulteriori motivi di ricorso è da ritenere inammissibile in questa sede, dal momento che la sentenza impugnata ha fondato la propria motivazione essenzialmente sulla questione giuridica della quale si è fin qui discusso e che è oggetto dell’accolto primo motivo. L’esame dei problemi sottesi agli altri motivi di ricorso dovrà quindi trovare risposta nel giudizio di rinvio, dove la Corte di merito riesaminerà l’intera vicenda.
- In conclusione, è accolto il primo motivo di ricorso e sono dichiarati inammissibili tutti gli altri.
La sentenza impugnata è cassata e il giudizio è rinviato alla Corte d’appello di Bologna, in diversa composizione personale, la quale deciderà la causa attenendosi ai principi di diritto enunciati al precedente punto 14.
Al giudice di rinvio è demandato anche il compito di liquidare le spese del presente giudizio di cassazione.