Consiglio di Stato, VI Sezione, sentenza 30 novembre 2023, n. 10335
PRINCIPIO DI DIRITTO
L’attività di repressione degli abusi edilizi costituisce attività doverosa e vincolata, rigidamente disciplinata dalla normativa di settore, cioè il D.P.R. n. 380/2001. La rimozione degli abusi edilizi costituisce la regola di principio, e non l’extrema ratio, e solo in circostanze particolari può essere tramutata in una sanzione pecuniaria. Il sistema, in particolare, non prevede minimamente che il Comune possa rinunciare a sanzionare un abuso edilizio a seguito di una trattativa privata, sia pure sostenuta dal perseguimento di un interesse pubblico.
Del tutto disancorata dalla normativa di riferimento è, quindi, l’idea che un Comune possa soprassedere a sanzionare degli abusi edilizi addivenendo ad accordi stipulati ai sensi dell’art. 11 della L. 241/90, trattandosi, in sostanza, di materia della quale i Comuni non hanno la disponibilità.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE (sintesi massimata)
- Con il primo motivo d’appello si deduce violazione dell’art. 97 Cost. e dell’art. 3 L. 241/90, nonché violazione e/o falsa applicazione degli artt. 36 TUE e 209 LRT 64/2015, stante l’erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto fondata la censura con cui la ricorrente ha dedotto la mancata considerazione del contenuto dell’istanza presentata.
25.1 Il TAR ha annullato i due dinieghi di permesso di costruire affermando che il Comune avrebbe dovuto interpretare le istanze presentate dalla signora -OMISSIS-come richieste di permessi di costruire in sanatoria, e non di permessi di costruire ordinari: ad avviso del giudice di primo grado, il Comune avrebbe errato nel respingere l’istanza presentata dalla signora -OMISSIS-senza esaminarle nel merito ma sul mero presupposto che il modulo utilizzato era quello relativo al permesso di costruire ordinario.
Il TAR ha inoltre rilevato che il gravato diniego non poteva essere giustificato dall’eccedenza dei manufatti rispetto allo spazio consentito dal piano del commercio, essendo stata tale occupazione di suolo pubblico preventivamente autorizzata, e dovendo l’Amministrazione, in ragione di ciò, eventualmente adottare un provvedimento di autotutela.
- L’appellante evidenzia che tale conclusione sarebbe erronea, sia in ragione della netta differenza esistente tra le due tipologie di istanze, sia per l’errata interpretazione della normativa di settore nonché per la lacunosa valutazione degli elementi probatori. In particolare, quanto al secondo profilo, il Comune evidenzia che la signora Fantoni, nei moduli utilizzati, ha (i) barrato la casella “permesso di costruire” del modello unico regionale, anziché la casella “permesso di costruire in sanatoria”, (ii) ha barrato, nello stesso modulo, l’opzione “che le opere riguardano un intervento di nuova costruzione su area libera” anziché quella “che le opere riguardano un organismo edilizio esistente e che lo stato dello stesso risulta”, (iii) non ha qualificato le istanze come domande di sanatoria nonostante il chiaro invito contenuto nei preavvisi di rigetto e( iv) non ha presentato, neppure successivamente, delle istanze di permesso di costruire in sanatoria.
Ad avviso del Comune non sarebbe sufficiente, diversamente da quanto affermato dal giudice di prime cure, l’uso di un termine improprio (“regolarizzare”, che non ha nella normativa di settore alcun significato giuridico) per far mutare natura alle istanze presentate, né il Comune, sulla base del semplice progetto tecnico, avrebbe potuto sopperire autonomamente alla mancanza della dichiarazione della doppia conformità e autonomamente imporre al privato la scelta di sanare dei manufatti pagando, oltre al contributo di costruzione, un’oblazione ed una sanzione amministrativa.
- Il motivo è fondato. Il Collegio ritiene che la questione relativa alla qualificazione dell’istanza sia priva di rilevanza alla luce della motivazione del diniego opposto dal Comune, che si fonda anche sulla non conformità dell’intervento alle previsioni dello strumento urbanistico generale relative alle zone commerciali: nel preavviso di diniego, inviato dal Comune ai sensi dell’art. 10 bis della L. n. 241/90, si legge infatti – inter alia – che “il rilascio del titolo edilizio richiesto implicherebbe un’estensione dell’area originariamente concessa per posteggio fuori mercato, incompatibile con il vigente piano del commercio”, e tale motivazione, afferendo alla conformità urbanistica dei manufatti, è tale da risultare ostativa anche rispetto alla sanatoria dei manufatti ex art. 36 del D.P.R. n. 380/2001.
Circa la correttezza, nel merito, di tale affermazione, la signora -OMISSIS-si è limitata a dedurre, in primo grado, l’inadeguatezza della motivazione, che non darebbe modo di comprendere le reali ragioni del diniego, considerando anche il fatto che nei provvedimenti impugnati “si ipotizza un presunto ampliamento (senza specificarne la consistenza dell’area di concessione in (altrettanto presunto) contrasto )non meglio identificato) con il piano del commercio (peraltro solo genericamente indicato, senza alcun riferimento alla disposizione specifica che si riterrebbe violata, in palese spregio dei principi generali in tema di motivazione del provvedimento amministrativo”. Il Collegio ritiene, invece, che la motivazione indicata nel preavviso di diniego, richiamata per relationem negli atti di diniego, per quanto sintetica non può considerarsi inintelligibile, essendo evidente che allude al fatto che la realizzazione di manufatti non precari e stabilmente infissi al suolo, come tali soggetti a titolo edilizio, implicando l’occupazione continuativa di un determinato spazio pubblico, violerebbe i parametri previsti dal piano del commercio, appunto per la concessione in uso di spazi pubblici con attività commerciali . Come già precisato, tale affermazione è stata solo genericamente contestata dalla signora Fantoni, mentre il Comune ha dedotto, richiamando la relazione del procedimento del 19 gennaio 2016, che è la sommatoria della superficie del chiosco e quella del dehors a produrre una violazione dei parametri previsti dal piano del commercio. che non itineranti.
I dinieghi di permesso di costruire, oggetto di impugnazione, risultano, quindi motivati anche con una affermazione afferente la (non) conformità urbanistica dei manufatti, e proprio perciò risulta privo di concreta rilevanza lo stabilire, nella presente sede giudiziaria, se le istanze presentate dalla signora -OMISSIS-avessero ad oggetto il rilascio di permessi di costruire ordinari o ex art. 36 del D.P.R. n. 380/2001.
Quanto al fatto che i due manufatti in questione dovessero essere effettivamente considerati quali opere non precarie soggette a permesso di costruire, va confermata la sentenza di primo grado nella parte in cui ha affermato che deve “escludersi che il titolo edilizio per realizzare le opere oggetto di ricorso potesse restare assorbito dalla concessione relativa alla autorizzazione alla occupazione di suolo pubblico (nel caso di specie non rilasciata dal SUAP) la quale, secondo la giurisprudenza, non può valere quale permesso di costruire, in quanto disciplinato diversamente e rimesso ad un diverso ufficio, con diverse finalità)”. Tale principio è estendibile chiaramente e pacificamente anche alle autorizzazioni commerciali, che presuppongono sempre la conformità edilizia ed urbanistica (cfr., sul punto, Cons. di Stato, Sez. VI, 5 gennaio 2023, n. 200), secondo cui “va ribadito che per l’esecuzione di opere su suolo di proprietà pubblica non è sufficiente il provvedimento di concessione per l’occupazione del suolo medesimo, ma necessita anche il permesso di costruire, il quale opera nell’ordinamento su un piano diverso e risponde, quindi, a ben diversi presupposti rispetto sia al provvedimento che accorda l’utilizzo a fini privati di una determinata porzione di terreno di proprietà pubblica, sia ad altri provvedimenti autorizzativi eventualmente necessari.”)
La valenza autonoma dei titoli edilizi, da una parte, e di quelli rilasciati ai fini di legittimare l’occupazione di spazio pubblico e l’esercizio dell’attività commerciale, d’altra parte, spiega inoltre perché non è condivisibile l’affermazione del TAR secondo cui il Comune non avrebbe potuto contestare la non conformità dei manufatti al piano del commercio senza prima ritirare in autotutela le autorizzazioni già rilasciate: in parte qua l’appellata sentenza va, dunque, riformata.
- Con il secondo motivo d’appello si deduce la violazione dell’art. 27 D.P.R. n. 380/2001 e dell’art. 196 LRT n. 65/2014, nonché l’inapplicabilità e/o insussistenza del principio di legittimo affidamento, stante l’erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto fondata la censura relativa alla lesione del legittimo affidamento ingenerato nella signora -OMISSIS-dalla prassi interpretativa seguita dall’Amministrazione comunale.
28.1 Il TAR ha ritenuto provata la prassi del Comune di ritenere sufficiente, ai fini di autorizzare l’installazione di attività commerciali su “posteggio fisso”, la mera autorizzazione alla occupazione di suolo pubblico e che, correlativamente, il esercizio del potere sanzionatorio anzitempo non fosse ascrivibile a semplice inerzia. Tale prassi avrebbe ingenerato nella signora -OMISSIS-un affidamento legittimo sulla legittimità dei manufatti, inducendo la stessa a sobbarcarsi le spese per l’ampliamento del chiosco e per la posa del nuovo dehors. Gli atti impugnati sarebbero espressione di un repentino mutamento di indirizzo da parte dell’Amministrazione, idoneo a incidere sul predetto affidamento, e tale da determinare l’illegittimità degli atti impugnati.
28.2 L’appellante ritiene che il giudice di prime cure abbia erroneamente interpretato il principio del legittimo affidamento, sia sotto il profilo della sua applicabilità in materia edilizia, sia sotto il profilo della sua effettiva configurazione nel caso di specie.
Quanto al primo profilo, si rileva come, nel settore edilizio, l’interesse privato, ancorché fondato su di un legittimo affidamento, non possa trovare alcuna forma di tutela o bilanciamento con il preminente interesse collettivo e generale al rispetto della legalità e alla repressione di qualsivoglia forma di abuso. Ne deriva che, in forza del predetto interesse generale inderogabile, non si può ammettere l’esistenza di un legittimo affidamento del privato, la cui tutela porterebbe ad una situazione paradossale di tutela alla conservazione di un abuso.
Quanto al secondo profilo, l’appellante deduce che, nel caso di specie, la prassi attribuita dal TAR al Comune di Borgo San Lorenzo non costituirebbe una particolare modalità di lettura ed applicazione di una norma generale, ma si porrebbe come condotta posta in violazione di una normativa chiara e precisa che, a fronte della realizzazione di un manufatto o installazione permanente su suolo pubblico, richiede espressamente il relativo titolo edilizio (nel caso di specie il permesso di costruire), e non semplicemente l’autorizzazione all’occupazione del suolo pubblico. Essa, dunque, in alcun modo avrebbe potuto fondare un affidamento qualificato, tutelabile dall’ordinamento giuridico.
28.3 Il motivo è fondato.
Anche a voler ammettere che il Comune abbia tenuto un comportamento tale da indurre nella signora -OMISSIS-la convinzione di non necessitare di alcun altro titolo, oltre all’occupazione di suolo pubblico, per poter esercitare l’attività di somministrazione di alimenti e bevande di cui essa è titolare, una simile circostanza non avrebbe potuto giustificare l’annullamento dei dinieghi di permesso di costruire oggetto di impugnazione.
In effetti l’affidamento riposto da un privato nella legittimità di atti amministrativi in linea di principio, anche se giustificabile – e in tal senso legittimo -, non è idoneo di per sé solo a giustificare il mantenimento in vita di atti amministrativi illegittimi: l’unica eccezione a tale principio è enunciata nell’art. 21 nonies della L. n. 241/90, che preclude l’annullamento di un atto illegittimo trascorso un determinato termine, salvo che non ricorrano le particolari circostanze indicate nel comma 2 bis (false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato), in presenza delle quali l’atto amministrativo illegittimo è annullabile in ogni tempo: il termine in questione, nella versione della norma vigente all’atto dell’adozione degli atti impugnati era di 18 mesi, termine ridotto a 12 mesi dall’art. 63 del D.L. n. 77/2012, convertito con la legge n. 108/2021. La ragione per cui non si può far luogo ad annullamento di un atto amministrativo, ancorché illegittimo, trascorso un determinato periodo di tempo risiede, precisamente, nell’esigenza di tutelare l’affidamento riposto dal privato sulla legittimità dell’atto, che si presume assistito da legittimità.
Come si vede, l’affidamento viene tutelato solo quando sia stato qualificato dalla precedente adozione di un atto illegittimo, che abbia ampliato la sfera giuridica del destinatario, e comunque solo dopo che sia trascorso il sopra indicato periodo di tempo: durante i primi 12/18 mesi, dalla adozione dell’atto illegittimo, il legislatore ritiene recessivo l’affidamento del privato e preminente l’interesse pubblico all’annullamento.
Nella specie l’affidamento sarebbe stato riposto, dalla signora Fantoni, non sulla legittimità di atti che il Comune pretende ora annullare, ma solo su una prassi, o comunque su comportamenti, che avrebbero indotto in essa l’erronea convinzione che non fossero necessari dei titoli edilizi per legittimare i manufatti in cui essa svolge la sua attività: non si tratta, dunque, di un affidamento che possa essere tutelato – se del caso – con l’annullamento degli atti impugnati nel presente giudizio, a mezzo dei quali il Comune non ha annullato in autotutela alcun atto precedente, ma ha invece, legittimamente negato dei permessi di costruire e, dipoi, sanzionato con l’ordine di rimozione i manufatti realizzati in assenza del necessario titolo edilizio.
Ciò non significa che il comportamento tenuto dal Comune sia scevro da qualsiasi conseguenza: esso potrebbe, eventualmente, essere valutato ai fini di una eventuale azione risarcitoria; ma – si ribadisce – non può essere valutato quale causa di illegittimità degli atti impugnati nel presente giudizio.
Anche in materia edilizia, in particolare, la lesione dell’affidamento ha ricevuto un limitato riconoscimento, ancorquì in connessione con l’annullamento di un titolo edilizio precedentemente rilasciato: ma anche in tal caso, salvo che non sia decorso il termine previsto dalla legge, tale affidamento riceve tutela solo in via indiretta, ovvero imponendo un onere di motivazione rafforzata (cfr. Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 8/2017).
Quanto all’ordine di demolizione, esso è espressione di doverosa potestà sanzionatoria, esercitabile in ogni tempo (cfr. Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 8/2017): sul punto si deve anche richiamare anche la pronuncia dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 9/2017, che ha affermato il principio secondo cui “il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso. Il principio in questione non ammette deroghe neppure nell’ipotesi in cui l’ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell’abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell’onere di ripristino”.
Infine, il Collegio non intende mettere in dubbio che il principio del legittimo affidamento nell’operato della Pubblica Amministrazione – cui è stato dato un ruolo centrale in ambito europeo sia dalla Corte di Giustizia U.E. (sentenza 17 ottobre 2018, C-167/17, punto 51; sentenza 14 ottobre 2010, C 67/09, punto 71) sia dalla Corte EDU (cfr., ex multis, la sentenza 28 settembre 2004, Kopecky c. Slovacchia; la sentenza 13 dicembre 2013, Bélàné Nagy c. Ungheria) – anche in ambito nazionale trova fondamento negli artt. 3 e 97 Cost., ed è immanente in tutti i rapporti di diritto pubblico, costituendo uno dei fondamenti dello Stato di diritto nelle sue diverse articolazioni, limitandone l’attività legislativa ed amministrativa (Cassazione civ. 17 aprile 2013, n. 9308; 24 maggio 2017, n. 12991; 2 febbraio 2018, n. 2603): in particolare, in base all’art. 97 Cost., la P.A. è tenuta ad improntare la sua azione non solo agli specifici principi di legalità, imparzialità e buon andamento, ma anche al principio generale di comportamento secondo buona fede.
Ciò premesso va tuttavia precisato che la lesione del canone di buona fede oggettiva, ovvero del ricordato principio che impone di mantenere un comportamento di buona fede, è stata ritenuta, nella decisione n. 5/2018 dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, quale fonte di responsabilità della Pubblica Amministrazione da responsabilità pre-contrattuale, ma non anche quale vizio ex se dell’atto che sia stato adottato per effetto di comportamenti contrari al canone di buona fede oggettiva. Di conseguenza, è a livello risarcitorio che si manifesta l’obbligo, della Pubblica Amministrazione, di sopportare le conseguenze sfavorevoli del proprio comportamento, che abbia ingenerato nel cittadino incolpevole un affidamento, fatta salva la ricorrenza di ulteriori vizi dell’atto amministrativo che ne giustifichino l’annullamento (ad esempio per travisamento o sviamento del potere).
Anche il secondo motivo d’appello, conclusivamente, è fondato; per l’effetto l’appellata sentenza deve essere riformata anche nella parte in cui ha disposto l’annullamento dell’ordine di demolizione per violazione del principio del legittimo affidamento.
- Con il terzo motivo d’appello si deduce la violazione dell’art. 11 L. n. 241/1990, stante l’erroneità della sentenza di primo grado nella parte in cui censura la condotta del Comune di Borgo San Lorenzo per aver emesso l’ordinanza di demolizione anziché addivenire alla stipulazione di un accordo con la signora Fantoni, mediante il quale contemperare l’interesse di quest’ultima con l’interesse pubblico.
29.1 Sul punto il TAR ha ritenuto che l’esercizio del potere sanzionatorio rappresenti l’extrema ratio a cui ricorrere soltanto laddove non sia stato possibile addivenire altrimenti ad un equo contemperamento degli interessi. Questo può essere perseguito attraverso la stipulazione di accordi ex art. 11 L. 241/90 che prevedano un impegno dell’interessato a rimuovere spontaneamente le opere abusive entro un certo termine previa concessione di altri spazi e/o di un congruo lasso di temporale che possa consentirgli di recuperare gli investimenti effettuati in buona fede.
29.2 L’appellante ritiene che nessuno dei due presupposti richiesti dall’art. 11 L. 241/90 (l’assenza di un pregiudizio per i terzi e il contenuto discrezionale del provvedimento al quale si sostituisce l’accordo raggiunto con il privato) sussisterebbe nel caso di specie. In ogni caso, la richiamata disposizione non sarebbe applicabile al settore urbanistico (e, dunque, al caso in esame) dal momento che in materia di abusi edilizi l’Amministrazione ha un precipuo e stringente obbligo ad emettere il provvedimento sanzionatorio.
29.3 Il motivo è fondato.
Secondo il consolidato indirizzo giurisprudenziale l’attività di repressione degli abusi edilizi costituisce attività doverosa e vincolata, rigidamente disciplinata dalla normativa di settore, cioè il D.P.R. n. 380/2001. Contrariamente a quanto sostenuto dal primo giudice, la rimozione degli abusi edilizi – per tale intendendosi tutte le opere che non risultino assistite da un titolo edilizio, a prescindere dallo stato soggettivo di colpevolezza del responsabile – costituisce la regola di principio, e non l’extrema ratio, e solo in circostanze particolari può essere tramutata in una sanzione pecuniaria. Il sistema, in particolare, non prevede minimamente che il Comune possa rinunciare a sanzionare un abuso edilizio a seguito di una trattativa privata, sia pure sostenuta dal perseguimento di un interesse pubblico, ed è stato solo con le leggi sul c.d. “condono edilizio” che lo Stato ha varato norme speciali a mezzo delle quali sono state dettate le condizioni particolari in presenza delle quali avrebbe rinunciato, in via del tutto eccezionale, a sanzionare gli abusi edilizi.
Del tutto disancorata dalla normativa di riferimento è, quindi, l’idea che un Comune possa soprassedere a sanzionare degli abusi edilizi addivenendo ad accordi stipulati ai sensi dell’art. 11 della L. 241/90, trattandosi, in sostanza, di materia della quale i Comuni non hanno la disponibilità.
E’ vero, piuttosto, che le conseguenze dannose che il privato patisce per effetto della condotta dell’Amministrazione contraria a buona fede oggettiva, danno luogo ad una responsabilità risarcitoria che può essere fatta oggetto di trattative, che peraltro non debbono necessariamente perfezionarsi per il tramite di accordi ex art. 11 della L. 241/90.
- Per i motivi sopra esposti l’appello deve essere accolto e l’appellata sentenza riformata, ad eccezione dei capi che non sono stati fatti oggetto di appello incidentale (segnatamente l’affermazione del TAR secondo cui i manufatti oggetto di demolizione non potevano considerarsi di edilizia libera e non potevano considerarsi opere precarie esonerate da permesso di costruire, così come l’affermazione secondo cui il titolo edilizio necessario era assorbito nella concessione di suolo pubblico).
- La signora -OMISSIS-non ha svolto appello incidentale e non ha riproposto, in appello, i motivi di ricorso originario non esaminati.
- Conseguentemente, a seguito della riforma dell’appellata sentenza il ricorso di primo grado deve essere respinto.
- La peculiarità della vicenda giustifica, tuttavia, la compensazione delle spese del doppio grado.