Corte di Cassazione, III Sezione Penale, sentenza 2 febbraio 2022, n. 3706
PRINCIPIO DI DIRITTO
Il delitto di violenza privata ex art. 610 c.p. non concorre con quello di violenza sessuale previsto all’art. 609-bis c.p. quando la violenza fisica o morale è del tutto strumentale rispetto al compimento degli atti sessuali, e non rappresenta un quid pluris che eccede il compimento dell’attività sessuale coatta. Al contrario, l’autonomia fattuale del reato di violenza privata osta all’assorbimento del delitto de quo nella fattispecie di cui all’art. 609-bis c.p. e permette di configurare un concorso tra i due reati.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE (sintesi massimata)
Il ricorso è inammissibile.
Quanto al primo motivo, relativo all’insussistenza del delitto di violenza privata – che radica la procedibilità per le due ipotesi di violenza sessuale: – si osserva che esso presenta profili di novità, perchè non era stato proposto con l’atto di appello. La questione, pertanto, va affrontata e risolta nell’ambito delle seguenti coordinate ermeneutiche.
Per un verso, va richiamato il principio, qui da confermare, secondo cui la questione sulla qualificazione giuridica del fatto rientra tra quelle che la Corte di cassazione può decidere ex art. 609 c.p.p. e, pertanto, può essere dedotta per la prima volta in sede di giudizio di legittimità purchè l’impugnazione non sia inammissibile e per la sua soluzione non siano necessari accertamenti di fatto (Sez. 2, n. 17235 del 17/01/2018, dep. 18/04/2018, Tucci, Rv. 272651; Sez. 1, n. 13387 del 16/05/2013, dep. 21/03/2014, Rossi, Rv. 259730).
Per altro verso, si rammenta che, per costante e univoca giurisprudenza di questa Corte, il delitto di violenza privata non concorre con quello di violenza sessuale quando la violenza fisica o morale è del tutto strumentale rispetto al compimento degli atti sessuali e non rappresenta un quid pluris che eccede il compimento dell’attività sessuale coatta (Sez. 3, n. 37367 del 06/06/2013, dep. 12/09/2013, C., Rv. 256965; Sez. 3, n. 29901 del 09/06/2011, dep. 26/07/2011, K., Rv. 250660; Sez. 3, n. 33662 del 20/09/2005, dep. 06/10/2006, De Luisa, Rv. 234789).
Ciò posto, dalla ricostruzione dell’accaduto operata insindacabilmente dai giudici di merito, risulta come la violenza privata sia del tutto sganciata dalla commissione di contestati delitti di violenza sessuale, in quanto, in un primo tempo – ossia una volta fatto ritorno a casa dell’imputato, che si era accorto del furto di 140 Euro – la ragazza, con il pretesto di controllare se avesse rubato qualcos’altro, fu toccata sui seni e, dopo essere stata obbligata a togliersi i pantaloni, subì anche la penetrazione di due dita nella vagina, fatto contestato al capo A); successivamente, la persona offesa fu obbligata a svestirsi e ad indossare il pigiama del C., che la trascinò nella camera da letto, costringendola a dormire con lui, ciò che integra il delitto di cui al capo B); quindi, la mattina seguente, l’imputato infilò le dita nell’ano della giovane, a suo dire per cercare un anello che sospettava gli avesse rubato (capo C).
E’ perciò evidente, secondo la Corte, come la realizzazione del fatto di violenza privata non sia stato strumentale rispetto al compimento degli atti sessuali – essendo stati commessi addirittura prima del delitto in esame in un caso (A), la mattina successiva nell’altro (C) – ma abbia una propria autonomia fattuale, ciò che osta all’assorbimento di tale delitto in quelli ex art. 609-bis c.p.
Di conseguenza, come già ritenuto dal Tribunale, in assenza di querela, i delitti di violenza sessuale di cui ai capi A) e C) sono procedibili d’ufficio ai sensi dell’art. 609-septies c.p., comma 4, n. 4, essendo connessi al delitto di violenza privata, contestato al capo B), del quale mutuano il regime di procedibilità.
Di qui l’inammissibilità del motivo per manifesta infondatezza.
Il secondo motivo è inammissibile perché generico e fattuale. La questione della credibilità della persona offesa è stata oggetto di analisi da parte del Tribunale e della Corte di appello, che, in maniera del tutto convergente, hanno ravvisato l’attendibilità sia soggettiva della dichiarante, sia oggettiva del narrato reso da costei.
Invero, quanto al primo aspetto, la Corte d’appello, con valutazione di fatto non manifestamente illogica, ha ritenuto plausibile la giustificazione in merito al furto della somma di denaro in danno dell’imputato, avendo la ragazza spiegato che, una volta arrivata a casa di costui ed avere contestato che vi era solo una stanza da letto, temeva che, dietro l’offerta di lavoro, l’imputato fosse armato da intenzioni di carattere sessuale, tanto che stette sveglia tutta la notte e comunicò telefonicamente il proprio disagio all’amica; il furto della somma di denaro, pertanto, fu attuato proprio per spingere l’uomo a perdere fiducia in lei e ad allontanarla.
Con riguardo al secondo aspetto, la Corte di merito, oltre a ribadire la linearità della ricostruzione dell’accaduto, ha evidenziato come il narrato della persona abbia trovato conferma in una serie di elementi, quali: il fatto che la ragazza sia stata trovata, sotto choc, vestita con un pigiama da uomo, scalza, presso il negozio di parrucchiere poco lontano dalla casa dell’imputato, dove aveva cercato riparo dopo essersi calata dalla finestra del bagno, essendo l’alloggio al piano terra e considerando che le chiavi della porta d’ingresso erano state nascoste; il rinvenimento degli effetti personali della ragazza (ossia i vestiti e il telefono cellulare) presso la casa dell’imputato, oltre al clistere, che, a dire della ragazza, fu utilizzato dall’imputato quando le infilò le dita nell’ano, alla confessione del furto, che la donna aveva scritto di suo pugno perchè costretta dal C.; i numerosi messaggi inviati dalla persona offesa all’amica, per comunicarle le sue paure.
Oltre a ciò, la Corte ha indicato la testimonianza resa sia dal parrucchiere, titolare del negozio in cui si rifugiò la giovane e che chiamò i carabinieri, sia dall’amica, che ricevette i messaggi e le telefonate in cui la A. le aveva manifestato i suoi timori.
Orbene, a fronte di tale apparato motivazionale, adeguato e scevro da profili di illogicità manifesta, il ricorrente, a ben vedere, confeziona un motivo con cui sollecita una diversa valutazione delle prove: il che non è consentito in sede di legittimità, perchè il controllo sulla motivazione ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) attiene alla coerenza strutturale della decisione di cui si saggia l’oggettiva tenuta sotto il profilo logico-argomentativo, restando dunque preclusa a questa Corte la possibilità non solo di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi, ma anche di saggiare la tenuta logica della pronuncia portata alla sua cognizione mediante un raffronto tra l’apparato argomentativo che la sorregge ed eventuali altri modelli di ragionamento mutuati dall’esterno (Sez. Un., n. 12 del 31/05/2000, Jakani, Rv. 216260).
Il terzo motivo è inammissibile perchè la dedotta violazione di legge non era stata proposta con l’atto di appello, sicchè non può essere denunciata per la prima volta nel giudizio di cassazione, giusto il disposto di cui all’art. 605 c.p.p., comma 3, u.p..
Si osserva, in ogni caso, che la tesi difensiva, secondo cui l’elemento soggettivo del delitto di violenza sessuale presupporrebbe che l’agente abbia agito con il fine di concupiscenza, è errata in punto di diritto.
Come costantemente affermato da questa Corte, infatti, l’elemento soggettivo del reato di violenza sessuale è integrato dal dolo generico, consistente nella coscienza e volontà di compiere un atto invasivo e lesivo della libertà sessuale della persona offesa non consenziente, sicchè non è necessario che detto atto sia diretto al soddisfacimento dei desideri dell’agente, né rilevano possibili fini ulteriori – di concupiscenza, di gioco, di mera violenza fisici o di umiliazione morale – dal medesimo perseguiti (ex multis, cfr. Sez. 3, n. 3548 del 03/10/2017, dep. 25/01/2018, T., Rv. 272449; Sez. 3, n. 21020 del 28/10/2014, dep. 21/05/2015, P.G. in c. C., Rv. 263738; Sez. 3, n. 4923 del 22/10/2014, dep. 03/02/2015, P., Rv. 262470).
Essendo il ricorso inammissibile e, a norma dell’art. 616 c.p.p., non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. sent. n. 186 del 13/06/2000), alla condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento consegue quella al pagamento della sanzione pecuniaria nella misura, ritenuta equa, indicata in dispositivo.